Franco Pagetti: Tra il Tigri e l’Eufrate (da Sguardi 52)
Da quattro anni Franco Pagetti risiede stabilmente a Baghdad e dal 2004, unico fotoreporter italiano costantemente presente in quel territorio, è corrispondente dall’Iraq per Time Magazine. Reporter di guerra, in uno scenario - secondo la sua testimonianza - “ogni giorno peggiore. I quotidiani rischi di autobombe o altre aggressioni, fanno sì che lavorare, o semplicemente vivere, sia sempre più difficile. La guerra, che all’inizio doveva portare pace, ha creato solo mostri e le persone o emigrano in altri paesi o più spesso scompaiono per sempre”. Ora l’Umbria gli ha reso omaggio. Il Complesso Museale di San Francesco di Montefalco (in provincia di Perugia) ha ospitato Tra il Tigri e l’Eufrate. Iraq, una guerra senza fine, una mostra a cura di Enrica Viganò, che raccoglie oltre 70 immagini scattate da Franco Pagetti dal 2003 al 2007. […] Tim McGirk, capo dell'ufficio del Time a Gerusalemme: «Metà del talento di ogni fotogiornalista è l’istinto - come riconoscere una storia prima che si imponga con violenza all’orizzonte. Nel gennaio 2003, tre mesi prima che la coalizione guidata dagli americani lanciasse il suo “scioccante e spaventoso” bombardamento su Baghdad, Franco Pagetti seguiva l’intuizione che, nonostante le false proteste di Bush e Blair, la guerra in Iraq sarebbe stata inevitabile. Aveva ragione. Diversamente dai molti fotogiornalisti che si accalcavano in Kuwait per lavorare a stretto contatto con le truppe, Franco si è immediatamente diretto a Baghdad. Per Franco, la storia ha sempre ruotato intorno agli iracheni, non alla macchina da guerra americana che ribolliva con agitazione tra le sabbie dell’antica Babilonia e che ha ipnotizzato molti altri fotografi. Franco era con gli iracheni quando le bombe caddero su Baghdad, quando le truppe americane irruppero e la statua di Saddam fu abbattuta e quando cominciò il saccheggio … Nei primi giorni, dopo la caduta di Saddam, era possibile per un fotogiornalista vagare per le strade di Baghdad e nelle province con un certo grado di sicurezza. Franco ha documentato le vite sconvolte e surreali degli iracheni, liberati dopo 30 anni di tirannia, che ora tentavano di trovare la loro strada in un caos crescente, quello che Rumsfeld definisce “libertà disorganizzata” … Franco e pochi altri fotografi sono rimasti e hanno trovato metodi ingegnosi per lavorare. Hanno viaggiato in auto malridotte per non attirare l’attenzione; hanno scattato rapidamente prima che una folla infuriata si riunisse e informasse qualche jihadi della presenza di uno straniero; e si sono affidati al sesto senso dei loro amici iracheni. Franco è diventato un esperto della segretezza/anonimato, con i riflessi di un cacciatore, sapendo che poteva fare solo uno scatto, forse due o tre, al suo soggetto prima che la situazione diventasse troppo pericolosa … Documentare questa guerra civile è la sfida di Franco. Ma poiché lo scontro tra sciiti e sunniti si sta espandendo, l’unica possibilità per Franco di muoversi nel paese, fotografando la condizione degli iracheni, è di andare a seguito delle truppe americane. “È tragico,” dice, “ma questo è l’unico modo che ho per fare fotografie ai comuni iracheni e alla loro sofferenza”».
© Franco Pagetti
Gianni Galassi: Extralight (da Sguardi 49)
Il passaggio al digitale è avvenuto per gradi. Per qualche anno ho continuato a usare il negativo bianco e nero, che dopo lo sviluppo scansionavo a 4000 dpi con uno scanner per pellicole. Aggiungo che l’individuazione di una pellicola dotata di una grana compatibile con lo scanner, e del fattore di sovraesposizione e di sviluppo “alleggerito” necessari all’ottenimento di negativi sufficientemente “molli” da generare un file gestibile, è stata tutt’altro che una passeggiata. E sui due anni che mi ci sono voluti per capire almeno vagamente come funzionava Photoshop, preferisco sorvolare. Di base, quello che cercavo era la possibilità di continuare a realizzare immagini in bianco e nero utilizzando la camera oscura digitale. Uso intenzionalmente questa definizione, perché il trattamento di post-produzione (non amo il termine fotoritocco, perché nel nostro lessico il ritocco è un’altra cosa) al quale sottopongo le mie fotografie non prevede interventi che non facessero parte del mio vecchio bagaglio di fotografo fotochimico. Con la pellicola piana conoscevo già la possibilità di cambiare emulsione, sensibilità e sviluppo ad ogni scatto, e l’apparecchio a banco ottico mi aveva abituato all’eliminazione delle linee cadenti e al rigore nella costruzione geometrica dell’immagine. E per chi ha familiarità con lecarte sensibili multigrado e gli ingranditori a testa filtrante, le curve e i livelli di Photoshop non sono certo una novità, sul piano espressivo. In sostanza - ed è questo, al di là dei tecnicismi, il nocciolo del discorso - il mio era e rimane linguaggio fotografico. La più recente maturazione dellereflex digitali, che farei coincidere con l’introduzione del sensore Sony da 6,1 megapixel adottato da tanti apparecchi, tra i quali alcuni firmati Nikon, mi ha convinto a passare alla cattura elettronica dell’immagine. Il buon senso suggerisce di scattare a colori anche le inquadrature destinate al bianco e nero (meglio applicare i filtri in post-produzione che in ripresa), e presto mi sono accorto di aver operato un’interessante contaminazione, applicando la mia visione monocromatica (basata principalmente sulla valorizzazione dell’ombra come forma e volume) alla ripresa policroma. Insomma, il bianco e nero fatto colcolore. Conclusione, sono due anni che ho abbandonato la pellicola. E non ne sento minimamente la mancanza. Per guadagnare dinamica verso lo spettro del rosso non attivo mai il bilanciamento automatico del bianco. In pratica lavoro come se avessi sempre in macchina una pellicola per luce diurna. Questo mi permette di catturare la dominante che la luce solare genera nelle ore della giornata che prediligo: quelle che seguono l’alba e precedono il tramonto. Grazie ull’uso esclusivo del formato RAW, che sovraespongo leggermente e poi sottosviluppo in fase di conversione, evito lo sfondamento delle alte luci e ottengo un maggior dettaglio (e un minor rumore) nelle ombre. Lavorando con decisione su maschere, curve e livelli, ripristino nell’immagine gli intensi rapporti tra luce e ombra che avevo individuato al momento dello scatto. E la dominante rosso-arancione, presente soprattutto sulle superfici bianche e grigio chiare, assume automaticamente quell’enfasi che è diventata ormai la cifra stilistica di tutto il mio lavoro degli ultimi cinque anni.
© Gianni Galassi - Serbatoio - Milano - 2004
Alessandro Barteletti: Tra auto e aerei (da Sguardi 98)
Appassionato da sempre di tutto ciò che corre veloce su strada e vola alto in cielo, Alessandro Barteletti ha applicato il proprio talento da fotogiornalista all'universo variegato di automobili e aeroplani. Qui racconta ai lettori di Sguardi il dietro le quinte dei servizi e delle immagini realizzate per testate come Volare, Ruoteclassiche, Quattroruote, The Official Ferrari Magazine, Wired. Di biplani acrobatici, jet in picchiata, caccia intercettori, rifornimenti in volo, esercitazioni di aerosoccorritori per recupero naufraghi, corse dei piloti per decolli rapidi, simulatori per addestrare al disorientamento spaziale. Di modelli d'epoca e di oggi, prototipi e Formula 1, Mille Miglia, Ferrari, Alfa Romeo, Lotus, Lancia, Porsche, Peugeot, Bentley. E di personaggi come Piero Ferrari (figlio di Enzo) e Luca Cordero di Montezemolo (da presidente del Cavallino) o Giorgio Armani e Anna Wintour, (sullo sfondo della settimana della moda di Milano), per finire con dottori di piloti (e astronauti) e fashion blogger e il grande Gianni Berengo Gardin in volo con gli idrovolanti sul Lago di Como. Ogni foto è accompagnata dalla propria storia e dai propri dati di scatto, per ragionare implicitamente su impostazioni e tecniche fotografiche.
Pitts Special, 2011 - Vorrei urlare quando vedo l'aeroplano davanti fare quello che tra un attimo toccherà a noi, ma non c'è tempo. Sento in cuffia il conto alla rovescia del mio pilota scivolare via e la vite in picchiata, un tuffo nel cielo che ti leva tutto il fiato, arriva troppo presto. Il Pitts Special è un biplano acrobatico progettato negli anni 40 che ti centrifuga in aria mentre sopra di te non c'è niente, neanche un tettuccio. Ci sei tu, annodato con le cinture di sicurezza al seggiolino, e la macchina fotografica, stretta dalla cinghia al tuo polso. Il resto è solo vento e rimbombo del motore. Questa immagine è stata pubblicata dal mensile Volare come foto d'apertura di un servizio il cui titolo è - neanche a dirlo - “Come domare il selvaggio Pitts”.
Aerosoccorritori, 2009 - Sono state tre le riunioni e i briefing necessari per organizzare questo scatto. Spiego che l'obiettivo della mia macchina deve sostituirsi all'occhio del naufrago, che voglio fotografare dal suo stesso punto di vista l'arrivo degli aerosoccorritori. Nulla è lasciato al caso: l'equipaggio dell'elicottero sa dove piazzarsi, un aerosoccorritore sa che deve restare appeso, e l'altro sa che deve nuotarmi incontro per “salvarmi”. Io sono in realtà su un gommone ma la macchina fotografica è a pelo d'acqua, protetta da una busta e da un oblò davanti la lente (inquadro sul display). C'è solo una cosa che non avevo tenuto in considerazione: la forza brutale con cui le pale dell'elicottero mi sparano l'acqua contro, come la lancia di un'autolavaggio ad alta pressione a un palmo dalla faccia. Alla fine, di circa trecento scatti, ce n'è soltanto uno, questo, dove le gocce d'acqua incorniciano l'elicottero e i due aerosoccorritori senza coprirli.
Nikon D3, 1/250, f/13, Nikkor AF-S 17-35 mm f/2.8 ED (20 mm), 100 ISO. Aerosoccorritori, 2009, © Alessandro Barteletti
Massimo Mastrorillo: Il racconto fotografico (da Sguardi 5)
Quello del fotografo è un mestiere difficile. Spesso si è sviati dalle esigenze di mercato, dalla frenesia e dalla superficialità dei media che cercano sempre di stupire senza dare l’opportunità di riflettere, di approfondire. La fotografia è un mezzo eccezionale per appagare la propria curiosità, il proprio desiderio di testimoniare, di creare. Tuttavia ciò che spesso ha l’ambizione di essere uno strumento per mostrare tutto di un soggetto, si rivela in realtà come un disvelatore di segreti, di elementi apparentemente nascosti in ciò che si presenta ai nostri occhi con evidenza. È la capacità formidabile e delicatissima della fotografia. In qualunque immagine si possono raccontare non uno ma migliaia di mondi, semplicemente perché migliaia sono i mondi che costituiscono ogni istante della nostra vita. Quell’immagine quindi esiste in modo diverso, non solo per ogni fotografo ma all’interno della stessa persona, secondo la sua capacità percettiva del momento. Questo è una sorta di battito vitale che il fotografo, testimone di ciò che osserva, trasmette sempre a coloro che osservano le sue immagini. La macchina fotografica può dunque essere un eccezionale strumento per sviluppare un altro tipo di occhio, un occhio interiore che ci aiuti a vedere nell’ambiente le stesse molteplici realtà che costituiscono la vita di ciascuno di noi per giungere ogni tanto a quell’istante decisivo di cui parla Cartier-Bresson: la capacità di percepire in una frazione di secondo, in uno schioccare di dita, che esiste una realtà più profonda di quella che ci appare e che inevitabilmente ci somiglia e al tempo stesso è fondamentalmente la decisione che in quell’istante avvenga qualcosa di inaspettato che sveli questa verità. Ciò non significa che bisogna temere le proprie emozioni o considerarle estranee alla storia che si racconta. Tomasz Tomaszewski, conosciuto ad un corso di fotografia in Toscana e fotografo del National Geogaphic, caro amico nonché mio maestro, mi ha insegnato che le emozioni forti anche se negative aiutano a realizzare immagini forti. Le foto migliori vengono dalla sofferenza non necessariamente nella realtà che ci circonda ma, del fotografo stesso, dal suo disagio nel raccontare. L’essenza di un’immagine significativa, ciò che finisce con il colpire l’osservatore, è il “battito vitale” del fotografo stesso; l’obiettivo è il mezzo attraverso il quale dare forma e trasmettere queste pulsazioni. Io ritengo che siano interessanti solo le fotografie che comunichino questa energia. La capacità di trasformare le proprie emozioni in creatività ci porta a realizzare fotografie intensissime. È necessario entrare nelle situazioni, creare un legame con i soggetti che si riprendono, mostrare un vero interesse verso di loro, per sentire la loro vita, per trovare degli elementi che possano rendere una storia semplice e allo stesso tempo complessa, sofisticata. L’aggressività o il nascondersi dietro una lunga focale, spesso allontanano dalla gente. Più sincerità si riesce a infondere in un lavoro più le immagini saranno intime, emozionanti.
© Massimo Mastrorillo
Antonella Monzoni, La Bellezza Silenziosa (da Sguardi 84)
A Vienna è appena nato un premio per la fotografia documentaria, il Vienna International Photo Awards 2012, fondato dal fotografo palestinese Raed Bawayah e dal gallerista austriaco Gernot Schultz. Ad aggiudicarsi il primo premio è stata Antonella Monzoni (gli altri premi sono andati aifrancesi Julie Glassberg e Jacques Borgetto). I tre vincitori e i dieci finalisti saranno pubblicati nel catalogo VIPA ufficiale e le loro opere saranno oggetto di una mostra collettiva presso la Galleria Kunstnetzwerk a Vienna il prossimo novembre. In Italia, invece, è in corso una personale di Antonella Monzoni: il Centro Candiani di Mestre ospita La bellezza silenziosa, con oltre 100 sue fotografie. […] Silvano Bicocchi - fotografo, studioso del linguaggio fotografico e direttore del nuovo Dipartimento Cultura FIAF - presenta il lavoro: «L’esercizio del reportage fotografico ha condotto Antonella Monzoni a maturare un rapporto con la realtà molto personale e intimo. Fin dagli inizii nel 2000, il suo linguaggio fotografico interloquisce col mondo con una poetica coerente che ne ha orientato il comportamento e quindi la visione nell’essere semplicemente “donna tra le donne del mondo”. La bellezza silenziosa è un’opera che ha preso forma lentamente tra Lalibela nel 2003 e l’Iran nel 2012, in un percorso ispirato dalla sua più profonda intuizione e autocoscienza di donna emiliana dallo stile di vita proiettato verso la libertà espressiva del proprio essere. La bellezza silenziosaè quella che si sente, che si vede nonostante tutto ciò che la nasconde, la contrasta, la nega. Scoprirla è percepire nella realtà la potenzialità enorme di un’energia creatrice sotterranea e inarrestabile che, pur nelle enormi avversità, opera per dare un futuro migliore al mondo. Per la Monzoni “La bellezza silenziosa” è quell’energia femminile che anche se non si esprime compiutamente in una singola vita non si spegne mai, anzi, come un tratto del codice genetico si riafferma nel passare di generazione in generazione attraverso la sofferta storia dell’umanità.
Silent beauty © Antonella Monzoni
Daniele Mattioli: Stop ad Oriente (da Sguardi 79)
Fotografare è spesso una scusa per poter esplorare altri mondi o meglio esplorare è una scusa per fotografare. Il viaggiare è parte integrante di questo mestiere e scegliere una base dove specializzarsi geograficamente è un motivo di approfondire un tema, una città, un paese. I miei destini fotografici sono stati diversi, da italiano ho subito scelto il voler vivere in luoghi ove la curiosità potesse fare da padrona nelle decisioni che si antepongono prima di una ricerca fotografica. Quella curiosità che mi ha portato a vivere in Canada, Austria, Australia e per ultimo in Cina. Shanghai è stato il mio tema, la mia città e il luogo di lavoro in cui ho investito la mia carriera. I motivi sono diversi ma sicuramente legati alla velocità di cambiamento che ha investito la Cina e in particolar modo la città di Shanghai, un'atipica città cinese che è tornata ad appropriarsi delle sembianze occidentali che l'hanno spessa divisa dal destino della Cina stessa. […] Scattare per strada è stato sicuramente parte importante del mio lavoro. Era la cosa più naturale che avevo scelto, seguire una strada, una persona, una luce senza tante regole di pianificazione mi ha portato a documentare un paese popolato come la Cina. Ho realizzato molti reportage da Shanghai seguendo questo mio istinto, ma negli ultimi anni sto affrontando un cambiamento visivo, specializzandomi sempre più in lavori di ritratti (editoriali ma anche aziendali e commerciali) dove l’interelazione con il soggetto diventa più attiva e scava con più profondità l'umano.
CHINA / Shanghai / Street scene near Jian Temple © Daniele Mattioli / Anzenberger
Alberto Pejrano: Vedere con i loro occhi (da Sguardi 7)
“Vai sulla spiaggia di Omaha all’alba. È ancora buio. Aspetta a fotografare, non aprire nemmeno la borsa delle macchine. E ascolta. Ascolta dentro di te. Lì, tutto intorno, sono morte 5.000 persone, nel ‘44. Per salvare l’Europa. Respira, aria che arriva dalla Manica, fissa quell’orizzonte. Aspetta a fotografare. 32 mezzi anfibi sbarcarono sulle coste della Normandia: i tedeschi ne affondarono 30. Erano ragazzi, come te. Aspetta a fotografare, trattieni il respiro”. Con queste parole Mauro Galligani, picture editor di Panorama, mi spedì sulle coste della Normandia per illustrare i luoghi del D-Day, in occasione dell’uscita del film di Steven Spielberg “Salvate il soldato Ryan”. È difficile spiegare perché quelle istruzioni furono di gran lunga più importanti di qualsiasi consiglio tecnico. Ho sempre cercato non solo di vedere il soggetto, ma di sentirlo. “Devi voler bene alla gente che fotografi” diceva Robert Capa. È come se, prima di qualsiasi scatto, sentissi il bisogno di un dialogo, di mettermi in sintonia con le persone da fotografare. Ecco perché nelle mie foto c’è quasi sempre una presenza umana; non importa se vicina o lontana, in primo piano o all’orizzonte, dominante o in silhouette. E immedesimarmi. Entrare dentro di loro, vedere con i loro occhi. Divento punk tatuato, vecchio dogon capo del villaggio, mi trasformo in danzatrice cinese, in coppia innamorata, sfumo in piazza gremita, in croce conficcata nel terreno. L’alba, su quella spiaggia di Normandia, stemperava in una luce grigio metallica; il vento, tagliente, era saturo degli effluvi dell’oceano. Davanti a me una lunga stele portava incisa la memoria di centinaia di caduti. In quel giorno del ‘44. Guardo il cielo plumbeo: ho la macchina pronta, io sono pronto. Ecco, si apre uno squarcio celeste: la lunga stele con tutti quei ragazzi sta puntando proprio lì, verso il cielo, quello azzurro. Tutto intorno, il grigio. Me ne accorgo mentre scatto: sto pregando.
© Alberto Pejrano
Tina Modotti: L’arte dell’impegno (da Sguardi 8)
Sessantuno anni fa, nella notte del 5 gennaio 1942, moriva - colpita da infarto nel taxi che la stava riportando nella sua casa di Città del Messico - Tina Modotti. Si chiudeva così improvvisamente, ad appena quarantasei anni, una vita intensissima. Vita da romanzo o da film, spesa tra il Friuli delle origini, l’Austria e la California dell’emigrazione familiare, il Messico dell’arte e dei grandi amori, la Russia dell’esilio, la Spagna della solidarietà internazionalista. Vita da culto, per la serie incredibile di avvenimenti (amori, morti, viaggi, scelte) ma anche per la bellezza ed espressività di un viso e di un corpo che ne avevano fatto modella di pittori e fotografi. Emigrante giovanissima, attrice a Hollywood, donna libera appassionata compagna di vita di poeti, pittori, fotografi, rivoluzionari, anch’essa rivoluzionaria. Riconosciuta in vita come fotografa di fama internazionale, dimenticata a lungo dopo la morte, tornata all’attenzione da qualche anno per la sua biografia straordinaria ma anche per il talento artistico peculiare, sospeso tra rigore formale e tensione ideale, felice combinazione tra un sofisticato senso di composizione delle forme e un’acuta sensibilità sociale e politica. Talento che maturò in Messico, come scrisse l’amico pittore muralista Diego Rivera: “Tina Modotti esprime una profonda sensibilità su un piano che, pur tendendo all’astrazione, senza dubbio più etereo, e in un certo senso più intellettuale, trae linfa dalle radici del suo temperamento italiano; la sua opera artistica è fiorita però in Messico, raggiungendo una rara armonia con le nostre passioni”. Ricerca fotografica che all’inizio fu sostanzialmente estetica (realizzata soprattutto attraverso tecniche di doppia esposizione). Poi Tina volle passare a “produrre soltanto buone fotografie, senza ricorrere a manipolazioni” e approdò al reportage sociale. Perché, come scrisse lei stessa nell’introduzione alla sua prima mostra personale (allestita nel 1929 in Messico), “non è indispensabile sapere se la fotografia è o non è un’arte, quel che conta è distinguere tra buona e cattiva fotografia. La fotografia si afferma come il mezzo più incisivo per registrare la vita reale. Da qui il valore documentario, e se a ciò si aggiunge la sensibilità e l’accettazione dell’argomento trattato, ma soprattutto una chiara idea del posto occupato nell’evolversi della storia, ritengo che il risultato sia degno di un proprio ruolo nella rivoluzione sociale”.
© Tina Modotti
Dod Miller: Birdmen (da Sguardi 35)
In Inghilterra, ogni anno, coloro che vogliono tentare il volo, si ritrovano a fine estate nella piccola città costiera di Bognor Regius, nell’East Sussex, dove inventori seri e meno seri si misurano nella Birdman Competition, il cui obiettivo è riuscire a volare per una distanza di almeno cento metri. Uno sfoggio di macchine volanti, costumi stravaganti ed eccentricità di ogni genere. Dod Miller ne ha documentato situazioni e personaggi in un divertente e ironico lavoro fotografico, in puro stile British. Di seguito la presentazione alla mostra dello stesso Miller: «Lavorando come fotogiornalista, ho testimoniato molti differenti momenti: alcuni strani, altri bellissimi, altri ancora tristemente tragici. Ho documentato rivoluzioni, la fine del Comunismo ed anche la benedizione del Papa a una Basilica edificata nella giungla in Africa Occidentale. Un giorno mi sono ritrovat