Pordenone: 50 anni di paesaggi italiani (da Sguardi 72)
Pordenone ospita Il Paesaggio Italiano in Fotografia, 1950 - 2000, una mostra - a cura di Walter Liva - che ritrae il paesaggio italiano degli ultimi cinquant’anni del ventesimo secolo, evidenziando le differenti scuole di pensiero e proposte realizzate: dai pittorialisti come Riccardo Peretti Griva, Silvio Maria Bujatti, Renzo Pavonello, lo Studio Giacomelli di Venezia, Riccardo Moncalvo, ai fotografi vicini all’estetica crociana come Giuseppe Cavalli, Ferruccio Leiss, Federico Vender, Piergiorgio Branzi, Giuseppe Moder, Raffaele Rotondo, quelli de La Gondola come Gianni Berengo Gardin, Elio Ciol, Lucia Sisti, Gino Bolognini, Toni Del Tin, Fulvio Roiter, Giuseppe Bruno, Giorgio Giacobbi, Sergio Del Pero, Manfredo Manfroi, Paolo Monti, i neorealisti come Gianni Borghesan, Luigi Crocenzi, Giuseppe Palazzi fino a Carlo Bevilacqua e Pietro Donzelli e altri autori come Bruno Stefani, il grande paesaggista del Touring Club Italiano e, attivi dagli anni ´60, Uliano Lucas, Carlo Cosulich, Carla Cerati, Ezio Quiresi, Toni Nicolini, Carlo Leidi, Ugo Mulas che fotografò le Cinque Terre per conto di Luigi Crocenzi che aveva “sceneggiato” la poesia di Eugenio Montale Meriggiar pallido e assorto e quindi due maestri tra i più importanti di tutto il Novecento: Mario Giacomelli e Franco Fontana. A partire dalla critica della “visione cartolinesca” si avvia il nuovo viaggio in Italia di Luigi Ghirri come emergono i paesaggi marginali, rappresentati da Guido Guidi, Marina Ballo, Isabella Colonnello, Vincenzo Castella, Andrea Abati, Gianantonio Battistella; i paesaggi interpretati da fotogiornalisti come Vittoriano Rastelli, Giorgio Lotti; Piero Raffaelli, il viaggio come scoperta di un territorio di Mario Cresci e Francesco Radino; poi il paesaggio fantastico di Luca Maria Patella e di Mario Sillani Djerrahian e la città invasa dalla pubblicità di Roberto Salbitani, la bellezza del Mediterraneo e la sua ricchezza culturale di Mimmo Jodice, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna, George Tatge, Marcello Di Donato, sino alla dimensione urbana di Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Luca Campigotto, Marco Zanta, Rosangela Betti e Cesare Colombo. Una parte dei fotografi italiani ha proseguito invece nella ricerca più tradizionale della bellezza del paesaggio come Davide Camisasca, Alberto Tissoni e Luca Gilli. Antonio Biasiucci ha rappresentato invece la forza della natura mentre elementi di storia dell’arte e di memoria dei luoghi sono stati introdotti da Vasco Ascolini, Cesare Di Liborio, Valerio Rebecchi, Stefano Cianci, Paolo Simonazzi, Bruno Cattani, Giovanni Ziliani. In ultimo, la mostra presenta la nuova visione del paesaggio oramai frammentato proposta da autori come Brigitte Niedermair, Massimo Vitali, Moreno Gentili, Rosa Foschi, Fulvio Ventura, Marco Signorini, Massimo Crivellari, Maurizio Bottini, Maurizio Montagna, Andrea Botto, Valerio Desideri, Marco Campanini e Maurizio Chelucci, Miranda Gibilisco. Infine, Gianluigi Colin ci riporterà indietro nel tempo, all’epoca di Piero della Francesca.
Mario Giacomelli, Paesaggi, 1956 - 1970
Italia: Inside Out (da Sguardi 99)
L’Italia è sempre stata una delle destinazioni preferite non solo da turisti e viaggiatori di multiforme tipo, ma anche dai fotografi che, in momenti diversi e con esperienze soggettive, ne hanno fatto uno dei paesi più rappresentati al mondo. La ricerca - di chi con una macchina al collo ha provato a raccontare un paese noto addirittura come il Belpaese - si è concentrata sulle bellezze dei paesaggi come sullo sviluppo delle città, sulle architetture e forme d’arte lasciate nel tempo come sugli stereotipi e sulle peculiarità, sul modo di vivere dei suoi abitanti come sui drammi della nostra storia passata e recente. A esplorare a Milano, in occasione dell’Expo, questo bagaglio prezioso di vissuti e visioni è una mostra ospitata a Palazzo della Ragione, Italia inside out (a cura di Giovanna Calvenzi), annunciata come la più grande mai realizzata interamente dedicata all’Italia. Oltre 500 immagini d’autore che ripercorrono la storia italiana, documentando la seconda guerra mondiale e il dopoguerra come le trasformazioni dagli anni Cinquanta fino a oggi. Un periodo lungo settant’anni, che la fotografia ha attraversato come testimone e interprete di realtà sociali, di mutazioni ambientali, di trasformazioni urbanistiche, di entusiasmi, di lotte, di disperazioni, di tragedie, fedele al proprio mandato di essere in sintonia con i tempi ma soprattutto di aiutare a vedere e a capire i mutamenti della società. Un lungo viaggio, la cui suggestione è ricreata anche dal particolare allestimento: un convoglio composto da diverse carrozze che ospitano, al loro interno, delle piccole mostre personali di ciascun autore, dei racconti per immagini che interpretano i luoghi dell’Italia che più l’hanno ispirato. La mostra sarà divisa in due momenti, il primo, Inside, dal 21 marzo al 21 giugno proponeuna selezione di oltre 250 immagini di 42 fotografi. La cronologia è scandita dall’evoluzione del linguaggio fotografico, come il passaggio dal bianco e nero al colore, dalla narrazione umanista e “romantica” agli sguardi più indagatori che utilizzano la lezione del “linguaggio documentario”, dall’impegno giornalistico all’uso esplicito delle nuove tecniche che consentono di costruire paesaggi d’invenzione. Idealmente, il percorso inizia e si chiude a Milano, con le poetiche immagini di Paolo Monti e le vedute di Vincenzo Castella. […] Nel secondo, Out, dall’1 luglio al 27 settembre, le fotografie degli autori italiani lasceranno il posto a quelle di autori internazionali, quali Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Alexei Titarenko, Bernard Plossu, Isabel Muñoz, John Davies, e altri.
© Francesco Jodice, Capri
Courchevel: Les Sommets de l’Image (da Sguardi 51)
Quando la fotografia costituisce la memoria del nostro ambiente e può contribuire alla sua salvaguardia. Per la prima volta, le immagini di alcuni tra i più grandi fotografi di natura sono esposte in alta montagna. Accade in Francia, fino al 22 aprile, a Courchevel, rinomata stazione sciistica tra le montagne della Savoia. “Les Sommets de l’Image” presenta 61 fotografie che testimoniano la bellezza di siti naturali iscritti nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco e la vita di alcune specie animali in via di estinzione. Elefanti ai piedi del Kilimangiaro, vulcani in eruzione, iceberg alla deriva, giungle in pericolo, deserti che avanzano, le testimonianze evocano la ricchezza e diversità della natura e sensibilizzano alle ragioni della sua protezione. Integrate nel paesaggio del più vasto comprensorio sciistico del mondo, le stampe delle immagini di formato impressionante - si va dai 4 ai 128 metri quadri - sono disposte lungo tre percorsi, tra chiesette, chalet e strade animate. Così ogni visitatore - con gli sci, in auto o a piedi - entra necessariamente in contatto con le opere esposte e si interroga sul messaggio veicolato, la preservazione del nostro patrimonio naturale, anche grazie ai brevi testi, a cura del WWF, che accompagnano ciascuna immagine. Una giuria composta da photo-editor di prestigiose redazioni europee, amministratori locali, ricercatori e giornalisti ha selezionato quindici tra i più significativi fotografi di natura del panorama internazionale (Laurent Ballesta, Patrick Desgraupes, David Doubilet, Bernhard Edmaier, Stanislas Fautre, Olivier Grunewald, Frans Lanting, Michel e Christine Denis-Huot, Vincent Munier, Cyril Ruoso, Eric Sampers, Francis Tack, Stefano Unterthiner, Staffan Widstrand, Art Wolfe.
© Art WOLFE - Les Sommets de l'Image - Volcan Kilauea – Hawaï – Etats-Unis
Nick Brandt: Su questa terra (da Sguardi 46)
Brandt (nato e cresciuto a Londra, dove ha studiato cinema e pittura) non è arrivato subito alla fotografia. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1992 (oggi vive in California), si è prima dedicato con successo alla regia di videoclip, realizzandone anche per artisti del calibro di Michael Jackson (Earth Song, Stranger in Moscow) e Moby. La sua carriera fotografica è iniziata nel 2000, in Africa. La sua prima, e finora più significativa, opera fotografica, On this Earth, è stata pubblicata nel 2005 da Chronicle Books e, dal 2004, è stata esposta nelle più grandi gallerie di Londra, Berlino, Amburgo, New York, Los Angeles, Santa Fè, Sydney, Melbourne e San Francisco. Eppure si tratta, ancora una volta, di leoni, zebre, elefanti, ippopotami, giraffe. In che modo la visionefotografica di Nick Brandt, resa in uno splendido bianco e nero, se lo è (e noi crediamo di sì), è diversa? Lasciamo la parola allo stesso autore, per spiegarcelo: «Pochi fotografi hanno considerato la fotografia di animali selvaggi, come qualcosa di chiaramente opposta al genere della fotografia naturalistica, come una forma d’arte. L’enfasi è stata posta in genere sul cogliere la spettacolarità degli animali in azione, sul catturare il singolomomento drammatico, in opposizione agli animali colti semplicemente nel loro stato di essere. Ho sempre considerato questo come un’opportunità sprecata. Gli animali selvaggi africani si prestano alle foto che vanno esteticamente al di là della comune fotografia naturalistica dell’obiettivo 35 mm a colori. Ed è così che, a mio modo, vorrei trascinare l’oggetto della fotografia naturalistica nell’arena della foto d’arte. Fare foto che trascendano quello che è stato un genere ampiamente documentativo. A parte l’uso di certe tecniche fotografiche non pratiche, c’è una cosa che faccio mentre scatto che credo faccia la differenza: mi avvicino molto a questi animali selvaggi, spesso a poche decine di centimetri da loro. Non uso teleobiettivi. Questo perché voglio vedere quanto più possibile cielo e paesaggio - vedere gli animali nel contesto del loro ambiente. In questo modo le foto riguardano tanto l’atmosfera del luogo, quanto gli animali. Inoltre, essendo così vicino agli animali, ottengo un a sensazione di intimo contatto con loro, con l’animale che mi è di fronte. A volte ho la sensazione che si presentino per un ritratto in studio. Perché gli animali africani in particolare? E ancora più in particolare dell’Africa orientale? Forse c’è qualcosa di più profondamente iconico, mitico, persino mitologico negli animali dell’Africa orientale, in confronto per esempio all’Artico o al Sud America. C’è anche qualcosa di profondamente emozionante e commovente nelle pianure africane - le grandi distese di pianure punteggiate dagli alberi di acacia graficamente perfetti. Le mie immagini sono apertamente idilliache e romantiche, una sorta di Africa incantata. Sono la mia elegia a un mondo che sta costantemente, tragicamente svanendo».
© Nick Brandt - Elephant Portrait, Amboseli 2005
Michael Kenna: Retrospective Two (da Sguardi 35)
Kenna è un mediatore, uno straordinario traduttore poliglotta capace di comprendere e immedesimarsi in luoghi e culture così lontani da apparirci spesso scontati anche a causa delle migliaia di immagini-clone che quotidianamente si impongono ai nostri occhi e inaridiscono la nostra immaginazione invece di stimolarla. Un artista capace di rinunciare alla velocità per sintonizzarsi su canali di pacifica e rispettosa convivenza con i luoghi da lui visitati e studiati. Lontano da periodi e da orari dettati da quegli automatismi che ci portano a muoverci tutti contemporaneamente e convulsamente, per farci scoprire ciò che non abbiamo mai avuto nemmeno il tempo di notare. Lontano dall’inquinamento visivo e acustico delle metropoli per riscoprire luoghi e rumori ormai dimenticati. Da cercare e ascoltare, non da subire. Michael Kenna guarda a questi luoghi da inaspettati punti di vista fisici e mentali e lo fa muovendosi in certi momenti della giornata in cui la luce deve ancora manifestarsi per plasmare quei soggetti che sono solo dei concetti immateriali e praticamente invisibili. Il linguaggio di Michael Kenna è fuori dalle mode, non “fuori moda” solo perché, come alcuni asseriscono, romanticamente ancorato alla fotografia analogica e non ancora catapultato nel mondo del digitale. Anche se entrambe le vie portano a risultati potenzialmente simili e comunque emozionanti, egli sceglie la via della riflessione e dell’argento a quella dell’impetuosa cavalcata sull’onda dei pixel. Con il tempo si è forgiato uno stile indiscutibile e inconfondibile, osservando il mondo con lo sguardo dello scultore che di fronte al blocco di marmo sa già dove vuole arrivare ma sa anche che quello che sta per intraprendere sarà un lungo e difficile percorso. Dalla penombra dei luoghi in cui fisicamente si trova, Kenna parte per un viaggio che non si esaurisce mai dopo i suoi lunghi click ma continua anche più tardi in un luogo altrettanto buio, la Camera Oscura, dove alla flebile presenza di una lampadina rossa il fotografo si trasforma in stampatore per rivedere e ridonare nuova luce a ciò che aveva già osservato. O forse solo immaginato».
Quixote's Giants, Study 10, Consuegra, La Mancha, Spain, 1996
Walter Bonatti: Fotografie dai grandi spazi (da Sguardi 97)
Walter Bonatti, uno dei più grandi alpinisti italiani, nella sua veste di esploratore-fotoreporter. L’esposizione - dal titolo Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi – ripercorre, anche con l’ausilio di video e documenti inediti, il racconto visivo, le vicende esistenziali, le avventure, gli oltre trenta anni di viaggi alla scoperta dei luoghi meno conosciuti e più impervi della Terra. Il mestiere di fotografo per grandi riviste italiane, soprattutto per Epoca, portò Bonatti a cercare di trasmettere la conoscenza di luoghi estremi del nostro pianeta. Al tempo stesso, non smise mai di battersi con forza per tramandare la vera storia, troppe volte nascosta, della conquista del K2 e del tradimento dei compagni di spedizione. «È difficile separare il ricordo di Walter Bonatti da quello delle sue fotografie», scrivono i curatori della mostra Alessandra Mauro e Angelo Ponta. «Ed è sorprendente quanto lui e le sue avventure siano radicati nella memoria. Un successo duraturo che ha più di una spiegazione. L’essere stato prima un grande alpinista, poi fotoreporter-esploratore, ha tenuto Bonatti “in scena” per quasi un trentennio, periodo al quale è seguita l’attività di autore di libri e conferenziere, durata altrettanto (e lungo più di 50 anni), dal quel fatidico 1954, si è peraltro dipanata la vicenda del K2, costellata di polemiche e colpi di scena. Attività diverse, tutte affrontate con caparbia serietà e con versatile talento: Bonatti imparò a fotografare e a scrivere le proprie avventure con la stessa dedizione posta nell’imparare i segreti della montagna. E se l’alpinista estremo (e spesso solitario) aveva conquistato l’ammirazione degli uomini e il cuore delle donne, l’essere insieme narratore e protagonista delle proprie avventure lo proietterà anche nell’immaginario dei più giovani. A ogni viaggio, Bonatti partiva alla ricerca dei suoi ricordi letterari e dei suoi eroi, cercando di riviverne le avventure. Bonatti, bello e coraggioso e forte e sfrontato, era Tarzan, era Robinson, era Tom Sawyer. In questo processo d’immedesimazione, la fotografia era fondamentale. Con quegli scatti, il racconto diventava evidenza visiva, prova di verità. Molte tra le immagini di Bonatti sono grandiosi “autoritratti ambientati” e i paesaggi in cui si muove, sono insieme luoghi di contemplazione e discoperta. Bonatti si pone davanti e dietro l’obiettivo. Decide lo scatto con meticolosa cura; contemporaneamente, programma il suo ruolo attivo, e sempre diverso, in ogni composizione. Nelle fotografie, riesce a cogliere la sua stessa fatica, la gioia per una scoperta, così come le geometrie e le vastità della natura che andava esplorando. La presenza di Bonatti all’interno delle sue foto fa esplodere la fantasia, trasformando le sue avventure in romanzi, in film, in fumetti (e qualcuno proverà poi davvero a realizzarli, quei fumetti). Così, immagine dopo immagine, reportage dopo reportage, si compie il racconto dell’avventura e insieme, il “romanzo dell’io” di Walter Bonatti. È lui il personaggio che si cala nel vulcano, costruisce una zattera per domare il torrente impetuoso, una capanna per spiare la tigre. Lui rincorre i varani, nuota con gli ippopotami, si fa strada nella giungla col machete, viaggia sul fiume dei cercatori d’oro, tira le frecce con gli indios, parla con gli uomini primitivi, bivacca nel deserto e al Polo, approda all’isola dei naufraghi, afferra i serpenti e cerca i dinosauri nel mondo perduto. Oltre al talento nello scegliere e inquadrare i soggetti, è evidente il piacere di fotografare, di guardare. Di andare a vedere, appunto. Per sé innanzitutto, e poi per mostrare e raccontare agli altri.
Walter Bonatti, Cascate Murchison, Nilo Vittoria, Uganda. Giugno 1966, © Walter Bonatti/Contrasto
Yann Arthus-Bertrand: Dalla Terra all’uomo (da Sguardi 86)
Dal 1992 Arthus-Bertrand ha sorvolato i cinque continenti documentando i cambiamenti in corso, l’impatto dell’uomo sui territori, con l’obiettivo di sensibilizzare il maggior numero di persone possibile sull’importanza di uno sviluppo sostenibile. «Ho visto la Terra cambiare - spiega l’autore - e tutti gli esperti e gli scienziati che ho incontrato nel corso dei miei viaggi condividevano le mie inquietudini. Quello che le mie foto mostrano, loro lo dicono con le cifre. E sono cifre preoccupanti». […] Nei diversi lavori di Arthus-Bertrand si saldano la valenza suggestiva e artistica con quella educativa e divulgativa, l’ attenzione alle problematiche ecologico-ambientali si propone di accrescere la sensibilità su tematiche come salvaguardia dell’ambiente, tutela delle biodiversità e sviluppo sostenibile. […] Una forma di comunicazione così esplicita ma pure così raffinata come quella di Yann Arthus-Bertrand potrebbe rappresentare una possibile soluzione per promuovere una rapida ed efficace consapevolezza da parte delle masse. Le vaste immagini aeree, unite alle eteree colonne sonore di Armand Amar, trasformano la razionalità scientifica in emozioni, e le emozioni, si sa, passano più facilmente nella testa e nel cuore degli uomini. La Terra vista dall’alto da Yann Arthus-Bertrand, a differenza delle icone planetarie immortalate dalle missioni spaziali, ci appare abbastanza lontana da essere percepita come un luogo unico e irripetibile, ma abbastanza vicina per osservarne in dettaglio la bellezza e la fragilità. E soprattutto queste immagini non si limitano a proporre la retorica della ricchezza naturalistica del pianeta, ma contrappongono ai paradisi forestali, oceanici e montani una radicale denuncia dei misfatti umani degli ultimi cent’anni.
© Yann Arthus-Bertand, Sorgente calda del Grand Prismatic, Parco Nazionale di Yellowstone
Luigi Ghirri: Punti di vista (da Sguardi 72)
Luigi Ghirri (Scandiano 1943-Roncocesi 1992) è stato sicuramente uno dei massimi fotografi del Novecento, non solo italiano. In poco più di vent’anni ha realizzato centinaia di migliaia di immagini, concepito ricerche, ha, soprattutto, cambiato sensibilmente il modo di vedere la realtà che ci circonda. Uno degli aspetti meno conosciuti della sua attività è stato l’insegnamento universitario: quando iniziò ad essere chiamato ad insegnare all’Università di Parma invitato da Arturo Carlo Quintavalle (dal 1987) e poi (1989, 1990) all’Università del Progetto di Reggio Emilia (istituzione ideata dall’amico Giulio Bizzarri con pochi altri) Ghirri era un grande autore, ma sicuramente non apparteneva ad alcuno Star System dell’immagine. Per fortuna Bizzarri ebbe la percezione precisa dell’importanza di quell’insegnamento, dell’importanza che potevano avere quelle lezioni, quelle conversazioni tenute a gruppi di studenti, e dispose di registrare meticolosamente tutto. Dopo vent’anni, con l’aiuto della Provincia di Reggio Emilia, viene finalmente pubblicato il libro che contiene quell’esperienza: la trascrizione fedele delle lezioni, le immagini da lui utilizzate nei corsi, le esercitazioni degli studenti.Lezioni di fotografia (a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, con uno scritto biografico di Gianni Celati, Quodlibet) è un libro singolare, una sintesi rara - oggi come allora - tra Storia della Fotografia, trasmissione delle sapienze tecniche, dichiarazione poetica, riflessione globale sull’immagine. E tutto molto autoriale, e tutto di una semplicità e profondità stupefacenti. Chi lo ha conosciuto riconoscerà subito il modo di argomentare apparentemente sfilacciato ma alla fine stringente, veramente come sentire la sua voce mentre mangia le parole rendendo benissimo i pensieri; chi non ha avuto modo di incontrarlo scoprirà una dimensione differente della sua opera, alla fine più semplice di quanto ha scritto tanta critica, ma tanto più profonda. […] «L’atlante - scriveva - è il libro che ci permette di trovare dove abitiamo e dove vorremmo andare, seguendo dei segni sulla carta, come quando leggiamo». […] E aggiungeva: «Il viaggio sulla carta geografica, caro a molti scrittori, credo sia uno dei gesti mentali più naturali in tutti noi, fin dall’infanzia…». […] Il suo atlante fotografato è uno tra i più affettuosi omaggi alla nostra facoltà di lettura. La lettura come un luogo di meraviglie, che non serve a catturare il mondo, ma serve per immaginarlo… Come quando da bambini immaginavamo i posti lontani su una carta geografica. […] Quest’uomo che faceva l’elogio della normalità, in realtà era un anarchico, Era uno che non accetta… Non accetta cosa? Non accetta la cecità di tutti quelli che, oculisticamente parlando, ci vedono benissimo: gli uomini spiritualmente ciechi. […] Aveva l’idea che ogni immagine ne richiami un’altra: perché non esiste nessuna immagine unica, originale. Ogni immagine porta in sé tracce d’un riconoscimento di qualcos’altro, di altre immagini, foto, visioni, apparizioni…».
Luigi Ghirri - Versailles 1985
Racconti dal paesaggio: 1984-2004 (da Sguardi 27)
Il Museo di Fotografia Contemporanea di Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo propone la mostra Racconti dal paesaggio 1984-2004 A vent’anni da Viaggio in Italia (a cura di Roberta Valtorta), che presenta una parte (circa cento fotografie, un terzo delle 300 originarie) della grande mostra Viaggio in Italia, progettata e curata nel 1984 da Luigi Ghirri. Si trattò allora di un grande progetto collettivo dedicato al paesaggio italiano, nel quale furono coinvolti venti fotografi (diciassette italiani, due americane e uno francese) tra i quali spiccano Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Mimmo Jodice, e uno scrittore: Gianni Celati, che per l’occasione scrisse il racconto Verso la foce (reportage, per un amico fotografo). La mostra di vent’anni fa ruotava attorno alla possibilità di utilizzare la fotografia per raccontare la complessità del mondo esterno e le molte storie umane intessute nel paesaggio stesso, attraverso un tipo di fotografia interrog