In principio: Dagherrotipi a Parigi (da Sguardi 9)
Il Museo d'Orsay ospita la mostra "Il dagherrotipo francese, un oggetto fotografico". Il 7 gennaio 1839, il fisico François Arago, nel corso di una lezione all'Académie des Sciences di Parigi, presenta un nuovo procedimento, messo a punto dall'inventore francese Jacques Daguerre (1787-1851), che permetteva di riprodurre con un processo meccanico e chimico, senza dunque interventi manuali, le immagini che si formano nella camera oscura. È così che il dagherrotipo segna la nascita ufficiale della fotografia. Immagine unica, su placca di cuoio ricoperta d'argento, dai riflessi cangianti, lucida e spesso riflettente come uno specchio - al quale è stato spesso paragonato - il dagherrotipo rimane ancora, soprattutto in Francia, l'aspetto trascurato degli albori della fotografia. Numerose sono le storie della fotografia che si limitano a un breve accenno all'invenzione di Daguerre, alla quale sembra legarsi solo la mania del ritratto, sfruttata da Daumier e Nadar: una moda che attraversa tutta un'epoca durante la quale sono in molti, persone importanti e perfetti sconosciuti, a posare, belli diritti, ma con risultati abbastanza bui, davanti all'obiettivo. Il dagherrotipo appariva allora solo con un tentativo, certo brillante, ma fallito, nello sviluppo della tecnica fotografica. Eppure il dagherrotipo era destinato a modificare in modo definitivo lo sguardo posato sul mondo e le conseguenti rappresentazioni artistiche e scientifiche.
Dagherrotipo
Fotogiornalismo: Ombre di guerra (da Sguardi 80)
Ombre di guerra, 90 grandi immagini di altrettanti grandi fotografi. 70 anni di iconografia della guerra, dalla Spagna del 1936 al Libano del 2007. Il soldato che stringe il fucile, traumatizzato dalle bombe in Vietnam, nello scatto di Don McCullin; la veglia funebre in Kosovo di Merillon; la bandiera americana piantata su Iwo Jima nella Seconda Guerra Mondiale; il miliziano ripreso da Robert Capa colpito a morte nella guerra civile spagnola, l'uomo con le buste della spesa davanti al carro armato in Piazza Tienanmen di Stuart Franklin, le fosse comuni della Bosnia nelle foto di Gilles Peress, la guerra nel Libano di Paolo Pellegrin. […] Per Alessandra Mauro, le fotografie scelte «raccontano una parte della recente storia dell'umanità. La scelta è stata condotta cercando di privilegiare quelle immagini che più di altre avessero un valore non solo di documentazione ma simbolico nell'individuare i diversi aspetti del dramma umano e infinito che è la guerra. Abbiamo così cercato di raccogliere le fotografie che sono diventate, come spesso si usa dire con un termine fin troppo abusato, "icone" del nostro tempo, quelle che nei gesti, nelle pose plastiche, nel gioco di luci, nel rapporto tra soggetto ritratto e scena di fondo, nel rimando, implicito o magari esplicito, all'iconografia classica dell'arte cristiana, si sono impresse nella nostra mente come paradigmatiche di una situazione al limite. E il limite è quello della resistenza umana, della capacità di restare vivi, magari di uccidere. O per chi è chiamato a raccontare tutto questo, il limite è la capacità di continuare a documentare una scena d'azione, di violenza o di morte, senza perdere il senso del proprio lavoro se non del proprio io. […] Per Denis Curti, l'altro curatore della mostra, «davanti a fotografie che mostrano il dolore, la sofferenza e l'orrore della guerra, alcuni critici scambiano l'urgenza di informare e creare consapevolezza con pornografia, indifferenza o ipocrisia. È come se l'abbondanza di immagini tragiche e la pervasività della loro diffusione sui media anestetizzassero progressivamente i propri spettatori rispetto all'orrore che raccontano. Queste accuse, in realtà, rivelano qualcosa di semplice e al tempo stesso pericoloso: il desiderio di non guardare le ferite del mondo. Al contrario, i fotografi di guerra si trasferiscono sul campo dei conflitti di tutto il pianeta e, anziché voltare la testa dall'altra parte, puntano l'obiettivo verso ciò che noi tutti dobbiamo vedere e sapere. La loro grandezza si misura da questa presenza che sostituisce quella di tutti noi e ci consente di osservare e giudicare, dalle nostre case, la violenza che ogni giorno sconvolge la terra che abitiamo.
© Henri Bureau/Sygma - L'incendio dei pozzi petroliferi. Abadan, Iran, 1980
Volti nella folla (da Sguardi 31)
Attraverso un'inedita strutturazione dello spazio pittorico il campo visivo dello spettatore si identifica con quello dell'artista o di un ideale obiettivo fotografico; lo spettatore è parte della scena, come il cittadino lo è della moderna società. Le grandi rivoluzioni artistiche del secolo scorso sono state associate allo sviluppo dell'arte astratta modernista, che dall'astrazione e dal monocromo giunge all'opera d'arte concettuale smaterializzata e al pensiero stesso come opera, sottolineando il ruolo assunto dalla fotografia e dalla cinematografia nel liberare progressivamente l'arte dall'esigenza della raffigurazione. […] Questo sentimento induce Edvard Munch, Alberto Giacometti o Francis Bacon a raffigurare un universo interiore tormentato o esasperato e porta artisti come William Kentridge o Willie Doherty a interrogarsi sulle responsabilità del singolo in relazione alla storia collettiva e sull'identità stessa in relazione agli stereotipi imposti dalla società. Per artisti quali Alexandr Rodchenko o Joseph Beuys la figura umana incarna un impulso rivoluzionario, trasgressivo o simbolico, ben rappresentato anche dall'evoluzione della fotografia, attraverso il contributo di fotografi come Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Tina Modotti, Walker Evans, Helen Levitt, Mario Giacomelli e David Goldblatt. […] Tuttavia, lungo tutto il XX e all'inizio del XXI secolo, l'uso persistente dello spazio illusorio e della figurazione nelle pratiche di artisti operanti tra pittura, collage, scultura, fotografia, film e video, delineano una storia parallela dell'arte contemporanea, altrettanto radicale. Individuando proprio nell'opera di Édouard Manet, Le Bal masqué à l'Opéra (Ballo in maschera all'Opera, 1873) un punto di partenza. Volti nella folla intende tracciare una storia di questa avanguardia figurativa.
ARNOLD EVE - George Lincoln, Head of the American Nazi Party at Black Muslim Meeting-1960
Italia: Visioni di oggi attraverso nove fotografi Magnum (da Sguardi 80)
Nell'anno del 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, nove fotografi dell'agenzia fotografica Magnum (Christopher Anderson, Bruce Gilden, Harry Gruyaert, Richard Kalvar, Alex Majoli, Paolo Pellegrin, Mark Power, Mikhael Subotzky, Donovan Wylie) hanno girato il paese per documentare l'immagine dell'Italia del 2011. 400 scatti d'autore, un'occasione di riflessione sulla contemporaneità dell'Italia e degli italiani attraverso la visione dei fotografi Magnum. Un racconto - curato da Gianfranco Brunelli e Dario Cimorelli - allestito fino al 26 febbraio nella sede di Palazzo Reale a Torino, prima capitale d'Italia, città capofila di numerose iniziative per onorare l'anniversario dell'Unità. Apre la rassegna Christopher Anderson che focalizza il suo obiettivo sul Mare, elemento in cui la penisola è immersa. Europa sdraiata nel Mediterraneo, l'Italia è "stretta al mare" (con 7.375 km di coste marine l'Italia è il paese europeo con il maggior numero di spiagge). Dal mare viene la nostra storia, sul mare si è costruita la nostra relazione col resto del mondo e nel mare, ancora oggi, ci specchiamo per sapere chi siamo. Il mare è lavoro, piacere, forza indomabile, via di comunicazione, risorsa, frontiera e ultima spiaggia. Il mare è il confronto con il nostro limite, le nostre paure e le nostre utopie. […] L'indagine di Mikhael Subotzky si concentra sulle Nuove piazze, ovvero sui nuovi spazi di aggregazione - dai centri commerciali alle discoteche - che sembrano aver sostituito il centro della vita pubblica di un tempo: la piazza. Oggi assistiamo a un processo di de-spazializzazione che ha modificato gli spazi sociali costruiti fino al XX secolo e a una nuova ri-spazializzazione, gli spazi d'aggregazione si sono moltiplicati con i bisogni, le mode e i consumi. […] Alex Majoli ricorda L'ingegno, il "saper fare" che nei mestieri più antichi come nel presente della quarta rivoluzione industriale racconta le aspirazioni e la determinazione degli uomini e delle donne che lavorano e forgiano la storia del paese. Nei laboratori, nei campi, nelle industrie pesanti, nei porti, nelle aziende alimentari, tra gli artigiani, nelle manifatture e nelle cucine, la loro formula è mischiare competenze e invenzione, passione e creatività, per dare vita ai prodotti e ai servizi del made in Italy: uno stile, un gusto, un habitus mentale che rappresentano il segno di una civiltà.
© Mikhael Subotzky/ Magnum Photos. Corso di acquagym, Villaggio Marzotto, Jesolo
Fotogiornalismo italiano (da Sguardi 34)
Un viaggio nella storia d'Italia degli ultimi sessant'anni raccontando l'intreccio tra il modificarsi del paese, i centri di potere, il mondo editoriale, seguendo l'evolversi del linguaggio dell'informazione e della fotografia d'informazione in rapporto alle mutate richieste della società: dal neorealismo del dopoguerra al paparazzismo, dal reportage sociale che si afferma negli anni ‘60 insieme a un nuovo modo di guardare e raccontare, alla fotografia di cronaca dei fotografi di redazione degli anni del terrorismo e delle stragi di mafia, dalla foto anonima d'agenzia che attraversa tutta la storia degli ultimi anni, a riprova del desiderio di evasione e di fiabe moderne di una classe media sorda di fronte ai bisogni e alle pulsioni reali del paese, ai nuovi stili e messaggi degli scatti degli anni ‘90, strettamente legati alla riorganizzazione del mondo dell'informazione nella globalizzata e tecnologicizzata società postmoderna, ma anche all'ingresso della fotografia, anche quella di news, nel mondo dell'arte e del collezionismo. […] Alcuni estratti del testo che Uliano Lucas ha scritto per presentare l'iniziativa: «L'immagine "neutra" della maggior parte degli scatti di agenzia messa a confronto con il taglio personale del racconto fotografico del free-lance, le diverse scelte grafiche e di impaginazione dei giornali, i diversi tagli operati su una stessa foto o le didascalie talora antitetiche apposte sotto di essa per caricarla di significati differenti, l'accostamento di foto di informazione a foto pubblicitarie che rivela un'impensata omologia di messaggi, mostreranno le molteplici dinamiche in gioco nell'esecuzione e poi nella scelta di un'immagine, mentre il mutare dei temi e degli stili delle fotografie lungo il percorso della mostra restituiranno tappe e caratteristiche dell'evoluzione della nostra società. […] Il visitatore vedrà allora forse in modo nuovo la sua storia, prenderà coscienza dei diversi messaggi e delle diverse funzioni nascoste dietro un'immagine che all'apparenza si presenta come una riproduzione fedele della realtà, dell'analfabetismo visivo ancora massicciamente presente in una società ormai dominata dalle immagini, in cui i confini fra realtà e finzione/rappresentazione si fanno sempre più labili.
Scoprirà forse anche le altre storie sviluppatesi a latere della storia raccontata dalle testate a larga tiratura, storie che sono specchio delle molteplici realtà, dei diversi indirizzi sociali e culturali che hanno attraversato un'Italia forse troppo affrettatamente giudicata monolitica se guardata unicamente attraverso l'iconografia ufficiale che l'ha ritratta, così come immaginerà le storie mancate o abortite, il fotogiornalismo come avrebbe potuto essere in un clima culturale e politico diverso da quello che ha invece spaccato in due l'Italia nel dopoguerra con l'avvento della guerra fredda e la contrapposizione ideologica che essa ha determinato».
1993 - Franco Zecchin
Paolo Pellegrin: Broken Landscape (da Sguardi 53)
I diversi piani su cui Pellegrin si concentra nel suo lavoro - umanistico, politico, storico, estetico - sono presenti nelle foto della mostra. Da quelle sul dilagare dell'Aids in Uganda del 1995 e sull'epidemia di colera in Angola (la peggiore della sua storia, con 33.000 casi riportati e più di 1200 morti, diffusasi velocemente da Luanda alle province più lontane), a quelle sul paese più povero dell'emisfero occidentale Haiti (afflitto per gran parte della sua storia da un' inaudita violenza politica), alle guerre in Kosovo (alla fine del conflitto esploso nel 1999 si contavano quasi 850 mila profughi, mentre non si hanno statistiche precise sugli scomparsi perché, ancora ai nostri giorni, alcune fosse non sono state scoperte), nei tristemente immancabili Iraq (con immagini che documentano l' azione di truppe britanniche che costruiscono un acquedotto, effettuano un check-point, consegnano aiuti nei villaggi) e Afghanistan (le operazioni antidroga nei remoti villaggi del sud per liberare le zone dalla duplice influenza della coltivazione dei papaveri e dei Talebani); e poi ancora il dopo-terremoto in Pakistan (il sisma del 2005 nella regione himalayana del nord è stato il peggior disastro naturale nella storia del paese: 80 mila morti, centinaia di migliaia di feriti, 3 milioni di persone ancora senza casa), la ricostruzione post-guerra in Cambogia, la campagna anti-terroristica in Algeria, la megalopoli a molte facce di Mumbay, il dramma senza fine del Darfur, gli effetti dello tsunami nell' indonesianaBanda Aceh e dell' uragano Katrina su New Orleans, la morte di Giovanni Paolo II, quando migliaia di persone confluirono in Piazza San Pietro per rendere omaggio al Papa. Grande spazio è dedicato al conflitto israelo-palestinese, tema sul quale Pellegrin è tornato più volte: dalle scene di caos che circondano la tomba di Yasser Arafat, all'orgoglio in uniforme della Brigata dei martiri di Al Aqsa, dall'evacuazione della striscia di Gaza, alle famiglie delle vittime di entrambi i lati, fino al conflitto in Libano che coinvolge pesantemente anche i civili (alla data dello scorso 14 agosto più di mille civili sono rimasti uccisi). La mostra è stata curata da Giuseppe Prode che, per Broken Landscape, ha scritto: «Paolo Pellegrin è uno dei fotogiornalisti più affermati oggi. Con il suo lavoro registra notizie, fatti, avvenimenti in rapida successione, in ogni angolo della terra. Israele e Palestina, Libano, Liberia, Angola, Sudan-Darfur, Uganda, Iraq, lo Tsnunami nel sud est asiatico, l'uragano Kathrina negli Stati del sud degli Stati Uniti, il carcere di Guantanamo, la morte di Giovanni Paolo II, il terremoto in Pakistan, l'Afghanistan. Osservare einformare, in un tempo in cui "la notizia" ci avvolge 24 ore su 24, e fa sembrare vecchi avvenimenti accaduti da poche ore. È la follia del quotidiano che viviamo, correre sempre più veloce, non assimilare quasi nulla, assuefazione passiva. Con la fotografia non dovrebbe essere così, no: questa ci obbliga a fermarci e a riflettere, a dare dei contorni, a circostanziare fatti, storie di vita vissuta, che via via emergono prepotenti. Un gran numero di fotografie selezionate in questa mostra raccontano guerre, malattie, lutti, avendo come protagonisti involontari le persone. Non si può non rimanere colpiti da devastazioni simili dell'anima e della carne».
© Paolo Pellegrin / Magnum Photos. Moments after an Israeli air strike destroyed several buildings in Dahia. Beirut, Lebanon. August 2006
Francesco Zizola: I cento volti dei bambini (da Sguardi 42)
"I cento volti dei bambini", 89 fotografie di Francesco Zizola, documenti delle condizioni di vita dei bambini in trenta paesi, in cui Zizola ha lavorato per tredici anni: dalle nazioni sconvolte dalla guerra (Angola, Sudan, Afghanistan, Iraq), a quelle in cui si sfrutta sistematicamente il lavoro dei minori (Brasile, Indonesia); dalle situazioni con molti orfani di genitori morti di Aids (Mozambico, Kenya) a quelle in cui il benessere diventa fonte di un altro tipo di problemi (Giappone, Stati Uniti), fino alle immagini più recenti che Zizola ha scattato in Uganda (le migliaia di bambini che ogni notte dormono all'aperto per sfuggire ai rapimenti e al reclutamento forzato della milizia), Sud Africa, Ciad (i campi dei rifugiati del Darfur). Così Zizola spiega i motivi di questo suo lungo impegno: "Il primo è stato una mia visione etico-politica sul mondo, maturata negli anni precedenti a questo lavoro.
Girando con la mia professione di fotoreporter mi avevano colpito le condizioni dei bambini che incontravo come soggetti più esposti a tutti gli stravolgimenti di quegli anni.
Ho seguito a quel tempo il crollo dell'Europa dell'Est, sono stato a Mosca, in Germania per la caduta del muro, in Albania per la fine del regime, in Corea del Nord come uno dei primi reporter occidentali. Recandomi in quei paesi sentivo come i bambini raccontassero con le loro vite più dei protagonisti stessi di quelle rivoluzioni che andavo a registrare.
Quando tornavo da queste esperienze quello che si sedimentava nella mia coscienza erano più le foto non fatte che quelle fatte. C'erano immagini molti più forti, molto più adatte a raccontare quella realtà, che non realizzavo, perché ero lì per raccontare solo le evidenze di alcuni fatti internazionali. I bambini non erano appunto mai considerati come tali, come evidenze di uno status politico, sociale o economico". La mostra di Zizola parla al cuore e alla mente. I bambini che ha incontrato nel mondo ci guardano, pur nella sofferenza, con una estrema dignità, e con i loro stessi occhi ci pongono delle domande. Le fotografie, che sempre catturano un momento particolare della luce, riescono a fondere dato realistico e ideale senso della bellezza.
Salvador de Bahia, Brasile, 1993. In una cella del riformatorio. Questo ragazzo ha tentato di pugnalare un bambino che gli aveva rubato le scarpe da ginnastica.
Raghu Rai: La ricerca dell'India (da Sguardi 30)
"India - in viaggio dal 1970 al 2005", racconto in bianco e nero di un mondo unico, un ritratto storico e contemporaneo del paese-continente di Raghu Rai, maestro della fotografia indiana, autore della Magnum Photos. Immagini di movimento, vive, la folla di una stazione, pellegrini sulla riva di un fiume, scene di strada, gente comune, ritratti posati o "rubati" a personaggi come Indira Gandhi o Madre Teresa di Calcutta. "Le fotografie che ho scattato in tutti questi anni - spiega Rai - sono una sorta di risposta istintiva agli stimoli che ricevo dalla mia terra. A volte mi sembra di poter fotografare ad occhi chiusi, lasciandomi guidare da un'energia interna che trascina con sé una cultura e un'identità millenaria, che ancora oggi pervade questo paese. Questa è la magia del fotografare l'India, una società complessa, multiculturale e multistratificata e questo è ciò di cui parla il mio lavoro. Sono ancora un fotografo part-time: sto ancora imparando e cercando di esplorare la maestosa bellezza dell'India attraverso la mia macchina fotografica. La ricerca non è cambiata da quando ho cominciato questo lavoro quarant'anni fa". L'importante, come una volta gli ricordò la stessa Madre Teresa, è rispettare la dignità di ciascun individuo che si fotografa. "Io penso che ormai questo senso di responsabilità l'ho interiorizzato", racconta. "La dignità è preziosa. Come diceva Cartier-Bresson fotografare è agire con l'occhio freddo e il cuore caldo. L'importante è sentirsi, essere in connessione con il luogo a cui appartieni. Io non potrei fotografar fuori dall'India, da un mondo che non conosco. A differenza di Salgado, per esempio. Una volta gli ho chiesto ‘ma come fai a viaggiare tanto?'; e lui mi ha risposto: ‘dovunque io vada, porto la mia casa dentro di me'. Io non posso, devo sentirmi dentro un luogo, appartenere a quel mondo, per poter provare a catturarne qualche verità, emozione umana, e questo mondo è l'India. Per i 50 anni di indipendenza del mio paese, il Philadelphia Museum of Art organizzò una mostra con foto di Cartier-Bresson, Salgado e mie, tra gli altri; e sempre Salgado mi disse in quell'occasione: ‘io ho scattato molto in India, e amo quello che ha fatto Cartier-Bresson, ma il tuo lavoro sull'India mi sembra che esprima un'altra profondità di esperienza'. Sono cose di questo genere che fanno la differenza nella vita di un creativo".
Raghu Rai - Calcutta dockyard. © Magnum Photos / Contrasto
Nino Migliori: Architetto della visione (da Sguardi 26)
La fotografia di Migliori, dal 1948, segue percorsi diversi, linee molteplici che convivono parallelamente. Agli inizi l'autore si rivolge verso una fotografia neorealista con una particolare idea di racconto in sequenza, e una sperimentazione sui materiali originale e inedita.
Da un lato la tradizione del fotogiornalismo impegnato, dall'altro la cultura d'immagine dell'informale (Bauhaus e, soprattutto, Dada).
Nel corso del tempo si verrà precisando il significato tutto metalinguistico di tali operazioni: non dipinti e quadri informali, in cui ci si serve di sviluppo e fissaggio invece che di colore, bensì fotografie in senso pieno che mostrano le basi materiali del loro farsi.
Su queste linee Migliori prosegue le ricerche sino alla fine degli anni Sessanta. Da allora il suo lavoro assume valenze concettuali ed è questa la direzione che negli anni successivi tende a prevalere. Migliori si trova ad essere, con Veronesi, Grignani, Munari e pochissimi altri, uno degli operatori che in Italia prosegue la ricerca delle avanguardie (quella di Man Ray, Moholy-Nagy, di Schad e Schwitters) sul fronte della riflessione sui linguaggi dell'immagine, con la fotografia come nodo centrale dell'immaginario e della ricerca formale contemporanea.
La sua è una ricerca talmente interna a un'idea di estetica totale da arrivare alla negazione dell'estetica stessa, della figura dell'artista come demiurgo. Oggi Migliori è considerato un vero architetto della visione. Ogni sua produzione è frutto di un progetto preciso sul potere dell'immagine tema, questo, che ha caratterizzato tutta la sua produzione.
© Nino Migliori, mani
Da Nadar ad Erwitt: Storie di Sguardi (da Sguardi 35)
Una panoramica su un secolo e mezzo d'invenzione e creazione fotografica, per esplorare i diversi "modi di vedere" attraverso una serie di immagini chiave. Una mostra che, come dice lo storico della fotografia Robert Delpire, non vuole e non può essere esaustiva ma ha l'intento di incitare a vedere. La fotografia ha oltre 150 anni e queste Storie di sguardi non vogliono celebrare nessun possibile anniversario, ma solo ricostruire il senso e la portata del primo secolo e mezzo in cui la fotografia è nata e si è progressivamente imposta. Tradizionalmente l'inventore è considerato Nicéphore Niépce che nel 1826 realizzò la prima immagine riconosciuta come fotografia: una veduta dalla sua finestra. Da allora ad oggi, quanti interpreti hanno utilizzato questo mezzo per vedere in modo nuovo, per raccontare la realtà, per sperimentare visioni impossibili, per creare saggi giornalistici? In 122 diverse immagini dei più grandi autori di tutti i tempi - da Nadar a Stieglitz, da Cartier-Bresson a Newton, il racconto della fotografia, del suo cammino, diventa anche una "storia dello sguardo" e delle sue evoluzioni. Ogni immagine è accompagnata da un breve testo esplicativo. La mostra è concepita da Robert Delpire, storico della fotografia e editore francese e, curata da Alessandra Mauro, è presentata per la prima volta in Italia. La mostra è accompagnata dai tre volumi Storie di sguardi collezione Fotonote pubblicati da Contrasto: I volume: Dall'invenzione all'arte fotografica (1839-1880), II volume: Il mezzo dei tempi moderni (1880-1939)