Henri Cartier-Bresson: Lezione continua di fotografia (da Sguardi 95)
Qual è per lei il soggetto più importante?
L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. Grandi artisti come il mio amico [Edward] Weston, o come Paul Strand o [Ansel] Adams, che hanno un enorme talento, si dedicano soprattutto all’elemento naturale, geologico, il paesaggio, i monumenti. Io, invece, mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta. Certo, ciò non vuol dire che separo in maniera arbitraria l’essere umano dal suo ambiente, che lo strappo dal suo habitat: sono un reporter e non un ritrattista di studio. Ma l’esterno (o “l’interno”) in cui quest’uomo, il mio soggetto, vive e agisce mi serve solo, diciamo così, come scenario significativo. Mi servo di questo scenario per collocarvi i miei attori, per dar loro risalto, trattarli con il rispetto che meritano. E il mio modo di agire è basato su questo rispetto, che è anche un rispetto della realtà: non fare rumore, evitare qualsiasi ostentazione personale, essere, per quanto mi riesce, invisibile, evitare di “predisporre” o “mettere in scena”, limitarsi a esserci, avvicinarsi pian piano, a passo felpato, per non smuovere le acque... Dunque, niente flash! Ah, sì, questo è fondamentale. Non è quella l’illuminazione della vita. Non lo uso mai, non ho la minima voglia di usarlo. Atteniamoci al reale, atteniamoci all’autentico! L’autenticità è senza dubbio la più grande virtù della Fotografia. […].
Valéry diceva che bisognava scusarlo se parlava di pittura. Forse potremmo dire lo stesso della fotografia. È una cosa di cui bisognerebbe scusarsi di parlare. La cosa migliore è guardarla. Eppure non è così scontato.
Infatti, non c’è niente da dire. Bisogna guardare, e guardare è così difficile. Noi siamo abituati a pensare. Riflettiamo tutto il tempo, in modo più o meno felice, ma nessuno ci insegna a guardare. È un processo lungo. Richiede parecchio tempo, imparare a guardare. Uno sguardo che pesa, che interroga. […]
Pensa che si possano considerare le sue fotografie, attraverso gli anni, come altrettante domande che ha rivolto al mondo, all’ambiente, agli esseri umani, alle cose?
Non ho spiegazioni da dare. Le mie foto sono lì, io non le commento, non ho niente da dire. Si parla fin troppo, si “pensa” troppo. Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non si sa niente di niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale. Non parlerei di “cultura”... ma di arricchirsi lo spirito e di vivere. La cosa meravigliosa nella fotografia intuitiva, la fotografia dal vero, è la reazione personale, questa reazione vitale, per cui sei fino in fondo te stesso e allo stesso tempo ti dimentichi di te stesso per interrogare la realtà o per cercare di comprendere.
Dietro la stazione Saint-Lazare, Parigi, 1932.
© Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos-Courtesy Fondation HCB
William Albert Allard: All about light (da Sguardi 96)
Lei è uno dei pochi fotografi della sua generazione la cui intera produzione è a colori. È stato chiamato un pioniere della fotografia a colori. Lei ha detto «la fotografia è sostanzialmente luce. La fotografia a colori ha a che fare con la luce, il colore della luce. Nella mia fotografia colore e composizione sono inseparabili. Io vedo a colori».
Sostengo ancora questa affermazione che ho fatto, ma trovo sempre difficile parlarne. Io mi rapporto al colore, credo di sentire il colore. Penso che siamo tutti intuitivi riguardo alla nostra reazione ai colori. Quando guardo, quando faccio una foto, e molto spesso non c’è il tempo di sedersi a studiare, accade tutto lì, sul momento. Accade così, tu fai la tua selezione. Ogni volta che fai una foto, è come mettere insieme un puzzle con tutti i suoi pezzetti: si tratta di cercare di mettere i pezzi giusti al posto giusto così da completare il puzzle. E la cosa bella è che tu lo fai a modo tuo, io lo faccio a modo mio, altri ancora in un altro. E non c’è un modo migliore in assoluto. […]
Lei è sempre alla ricerca di «ciò che accade ai margini». Ha detto: «credo che le foto migliori siano spesso ai margini delle situazioni. Credo che fotografare le situazioni non sia neanche lontanamente interessante come fotografare i margini».
Sì, è proprio vero ed è vero con spettacoli di band, compagnie di ballo, partite di calcio. Mi piace essere ai margini dell’evento stesso. Pensa ai quadri di Degas: non si pone mai di fronte alla sala da ballo, forse solo una volta o due, ma in genere è ai bordi del palcoscenico, dove le ballerine si stanno preparando. Quando ho fatto un servizio sulla musica blues per National Geographic nel 1998, volevo sempre stare dietro, non in platea di fronte alla band, è noioso. Volevo stare dietro, dove succedono cose che sono secondarie rispetto allo spettacolo, ma molto importanti dal punto di vista visivo. […]
Le sue immagini sembrano a un tempo intime e senza tempo. Insieme al colore e alla composizione, qual è l’essenza della sua fotografia? La presenza di un sentimento? Un’intuizione emotiva nel ritrarre persone nel loro ambiente nativo?
È una domanda difficile e probabilmente potrei parlare troppo a lungo, quindi credo sia meglio dire che penso sia l’intimità. È questo ciò che voglio che le mie foto abbiano. Ritengo che se fai un ritratto bene, davvero bene, è possibile far conoscere la persona in quella foto a qualcuno che vive in un altro continente, o a qualcuno che non parla la sua stessa lingua ma che guarda la foto e sente di conoscere qualcosa di quella persona. È uno sforzo della fantasia. Ma a volte credo che ricordiamo le foto come ricordiamo una canzone, una musica, così per una ragione o per l’altra. E dato che amo così tanto la musica, anche questo è uno sforzo d’immaginazione. Ma mi piace pensare che sia così. Comunque, direi che è l’intimità.
© William Albert Allard, Stan Kendall, Nevada 1979
Paul Nicklen: Ai confini freddi del mondo (da Sguardi 57)
Hai mai avuto una qualche formazione da fotografo?
Ho passato un giorno con un fotografo, che mi ha insegnato le cose di base: come usare un esposimetro, sott'acqua, per esempio. Ricordo che alla fine di quella giornata, mi disse: “è impossibile fare il fotografo di mestiere, non ci sono soldi, non si guadagna, il lavoro è durissimo”. Non gli ho dato ascolto e ho fotografato per tutta l'estate, inventando bugie per l'università, un falso progetto di ricerche sottomarine. E ogni giorno mi sono immerso con la mia macchina fotografica, ho fatto forse 300 immersioni e 300 rullini. Ho selezionato le migliori foto e le ho mostrate alla mia famiglia. E mio padre mi ha detto: “devi trovarti un lavoro vero, fotografare è una perdita di tempo e di soldi”. E così sono tornato a fare il biologo. Facendo il mio lavoro vedevo cose incredibili: orsi polari camminare in mezzo al ghiaccio, con una luce splendida, e dovevo appuntare queste cose su un pezzo di carta senza poter usare la macchina fotografica. Così ho detto loro: fate quel che volete ma io devo fotografare. E allora mi hanno incaricato di fotografare per documentare alcune ricerche in corso. Hanno iniziato a vederne l'importanza e io ho iniziato a capire che potevo, non solo fare delle belle foto, ma raccontare storie con le mie foto. È stato duro per me da capire. Tutti i miei amici, tutte le persone che conoscevo facevano belle foto. Ma riuscire a creare una nuova storia, con le foto, era duro, era un concetto difficile. Flip Nicklin mi disse un giorno: “vai e racconta storie”, così è iniziata la mia carriera da fotografo. […]
Sopra e sotto il ghiaccio, ti sei mai trovato in situazioni di pericolo?
Sai, in quelle condizioni è sempre pericoloso, ma forse non come guidare a Roma, parlo sul serio. Gli orsi polari sono pericolosi, le foche leopardo sono dei grandi predatori, ma c'è sempre un elemento di controllo, anche nell'acqua. All'inizio c'è paura. Ho avuto paura la prima volta con la foca leopardo, ma poi è andata bene. Questi animali sono abbastanza coerenti, generalmente hanno lo stesso comportamento, ripetono le stesse cose. Su un'autostrada, per esempio, puoi incontrare gente che guida male, arrabbiata, ubriaca, distratta. Puoi controllare te stesso, ma tutto il resto continua ad andare indipendentemente da te. Con l'orso polare, con la foca leopardo, se ti muovi lentamente, se osservi il loro comportamento, i rischi sono minimi. Certo, puoi essere attaccato, colpito; ma ci sono buone possibilità che, essendo andata bene una volta, andrà di nuovo bene. […]
So che hai avuto un incontro molto ravvicinato con una foca leopardo.
Una volta ero in Antartide per un reportage sulle foche leopardo. All'inizio l'animale era nervoso, abbiamo iniziato una specie di danza uno attorno all'altro; poi mi è sembrato che lei mi accettasse. Ha iniziato a darmi dei pinguini da mangiare, pinguini interi che sembrava cacciasse per me, cercando di mettermeli per forza sulla testa, spingendo per essere sicura che io mangiassi. Poi andava a cercarmi un altro pinguino, e questo per cinque giorni, ogni giorno mi dava un pinguino. Se si avvicinava un'altra foca, la scacciava, le prendeva il pinguino e me lo portava. Una cosa incredibile. All'inizio credo volesse comunicare con me, e io cercavo di starle sempre più vicino; lei non sapeva cosa volessi, continuava a cercare questa comunicazione, attraverso il pinguino. Alla fine il suo era come un gesto di amicizia; credo che abbia cominciato a preoccuparsi sul serio che io stessi morendo di fame, stando così a lungo nell'acqua, e cercava di farmi mangiare per forza. È stato qualcosa di molto speciale, non la dimenticherò mai e quando starò per morire mi ricorderò di questa cosa più di qualunque altra nella mia carriera.
© Paul Nicklen - Goran, assistente di Paul, di fronte ad una foca leopardo in Antartide
Amy Vitale: Storie, sotto la superficie (da Sguardi 63)
«La fotografia, ha scritto Kafka, concentra la nostra attenzione sulla superficie. Di conseguenza abbuia la vita nascosta che balugina attraverso i contorni delle cose come un gioco di luci e ombre. E questa non si può coglierla neanche con il più penetrante degli obiettivi. Si può solo cercarla a tastoni». Il tuo lavoro - il tuo restare a lungo nei luoghi per cercare il contatto con le persone prima di fotografare - sembra una specie di lotta contro questa affermazione. Come se volessi dimostrare che la fotografia può bucare la superficie e andare in profondità. Come se cercassi i punti in cui la superficie lascia intravedere quel che sta sotto. Cosa cerchi?
Sì, provo a raccontare una storia con le immagini, una sorta di "verità". Provo ad avvicinarmi a quello che tutti chiamiamo "condizione umana". Sento che l'affermazione di Kafka è realistica, specialmente quando guardo la maggior parte delle immagini e come sono utilizzate ogni giorno. Molto spesso sembra ci sia sensazionalismo, perché il mondo viene dipinto come un posto pericoloso; e non ce n'è ragione. In realtà credo sia vero l'opposto. La maggior parte della gente nel mondo si somiglia. Trovo che non ci sia differenza nei sentimenti, nelle emozioni e nei valori tra le persone, ovunque esse siano. Ovunque le persone vogliono mandare i propri figli a scuola, ovunque vogliono poter camminare senza paura per strada e al parco. Ovunque vogliono potersi guadagnare da vivere. Penso che creare paura e sensazionalismo permetta all'osservatore di disimpegnarsi e dire: «è senza speranza e non c'è niente che io possa fare per risolvere i problemi». Qualcuno potrebbe anche dire: «queste persone sono dei barbari e quindi non voglio guardare, aiutare, capire». Se si presentasse soltanto questo racconto del nostro mondo, la gente smetterebbe di guardare e di interessarsi. Io voglio creare comprensione e legami e dialogo. […]
Susan Sontag scriveva che «le macchine fotografiche trasformano la storia in spettacolo» e che «il loro realismo crea una confusione sul reale che è moralmente analgesica quanto sensonsorialmente stimolante». Quel che è certo è che l'impatto delle immagini, attraverso i media, è potente. Ne senti la responsabilità? Dove credi si trovi il confine tra documentazione e spettacolarizzazione?
Sento una responsabilità. Sono d'accordo e credo che questo avvenga ogni giorno. Come fotografi e giornalisti, credo che dovremmo tutti pensare a mantenere il controllo delle nostre immagini in modo da sapere come il nostro lavoro viene utilizzato. La mia sensazione è che le foto e le storie non rivelino la verità, ma piuttosto espongano delle "non verità". Con una moltitudine di narrative, si mantiene un equilibrio e la verità, che esista o no, è salvaguardata dal fatto di non essere limitata ad una singola visione. In assenza di una moltitudine di narrative, la ragione va in rovina. Io vedo la ragione fatta a pezzi ogni giorno sui giornali e nelle immagini in tv. Uno dei maggiori pericoli al mondo oggi è il pericoloso ritorno ad una narrazione singola - e carica di valore - di ciò che è bene e ciò che è male, assieme al velenoso rilascio di odio che ne consegue. Lingua e immagini vengono usate come un'arma e tutti i popoli sono rappresentati in maniera pericolosa.
© Ami Vitale Kolhapur, India - 19 marzo: ragazzi indiani si esercitano in uno sport vecchio di trecento anni conosciuto con il nome di "Kushti", una forma di lotta libera, all’interno del fight club Gangawesh a Kolhapur. In epoca feudale gli incontri di lotta erano spesso combattuti fino alla morte, ma durante i secoli la tradizione è stata gradualmente modificata fino a divenire uno degli sport più popolari della regione. I lottatori si esercitano con totale devozione e intensità, con esercizi, dieta, autocontrollo e celibato.
Fosco Maraini: A bagno in mondi diversi (da Sguardi 7)
Leggendo la sua biografia, ripercorrendo il molto che ha fatto e vissuto, la domanda che viene in mente è: lei come si definirebbe?
Non so, un essere umano. Ho sempre avuto una certa antipatia per le definizioni troppo limitate, sia etniche, sia geografiche, religiose, politiche. Scherzosamente mi definisco Citluvit, cittadino della Luna in visita di istruzione sul pianeta Terra. In visita di istruzione per cercar di capire. Mi pare che la cosa che più soddisfa, che più è importante per gli esseri umani, sia capirsi. È la molla che mi ha spinto fin dall'inizio, perché ho subito visto che andare in un altro paese è completamente diverso che leggere di quel paese. Si legge e si resta sempre imbevuti del posto dove si legge, dell'atmosfera in cui si legge. Invece, quando si va, si è a bagno in un mondo completamente diverso. Sono cittadino della Luna perché è abbastanza lontana e abbastanza vicina, Marte o Saturno sarebbero troppo lontani. La Luna invece è alla giusta distanza, si vede la Terra, si vedono i continenti. Guardo alla Terra con grande passione. […]
A proposito di sguardi per Eric Newby, uno scrittore-viaggiatore inglese, viaggio e fotografia sono nemici. Che cosa ne pensa, lei che ha tenuto gli occhi ben aperti dietro il mirino, per settanta anni, fin dalle sue prime escursioni in montagna?
Che l'avrà detto come una boutade, per essere originale. Non credo sia così. Io ho viaggiato molto, soprattutto in Tibet, il primo amore, il primo contatto, e poi in Giappone. E ho fotografato molto. In Tibet fotografavo in bianco e nero; all'epoca non c'era ancora il colore, cominciava appena. In Giappone ho fotografato a colori. A me piacciono molto le belle immagini conoscitive, che rivelano qualcosa. Il linguaggio fotografico e il linguaggio della scrittura sono diversi, ma sono due modi complementari che si integrano per captare la realtà. Il fine è lo stesso: cercare di cogliere l'animo di un posto, di una persona, di una cerimonia, di un evento, tanto più e meglio se le immagini sono carpite nel momento di ciò che io chiamo empresente. L'empresente è il momento che viviamo, è il presente che emerge e che si srotola nel futuro, cioè proprio adesso. È una questione fisica, è l'attimo che fugge, diverso dal presente filosofico, ed è caratterizzato dal fatto che non sappiamo cosa succederà anche fra cinque minuti. Il futuro ci è totalmente sconosciuto, il giornale di domani non può esistere prima. […]
Dei suoi viaggi quale ricorda con più piacere?
Forse quello tibetano del '37. Nel Tibet di oggi, con tutto il male che si può pensare della situazione, ci sono strade, veicoli, negozi. Allora era veramente un tuffo nel medioevo. Quando si lasciava Gantok, ai confini dell'India, si diceva addio alla civiltà e al mondo per sei mesi. Potevano essere scoppiate dieci guerre, non l'avremmo saputo; era affascinante quel tuffo nel nulla. Anche per fotografare era diverso. A quei tempi non esisteva il lampo elettronico, il flash. Si usava la polvere di magnesio conservata in barattolo. Si versava su una specie di piastrina, che aveva una pietra focaia che si comandava con un dito, si accendeva e bruciando faceva luce al cospetto di lama e monaci tibetani. Il lampo di magnesio era un procedimento molto incerto, difficile. Stavo con il terrore di tornare in Italia dopo sei mesi con tutto il materiale sovraesposto o sottoesposto, perciò mi ero portato tutti gli acidi necessari per sviluppare sul posto le pellicole. E l'ho fatto rubando le ore al sonno, perché si viaggiava sempre e poi la sera dovevo cercare una stanza per sviluppare le pellicole. Certe volte le ho dovute rifare.
La principessa Pemà a 4000 metri nei pressi del passo Natu, tra Sikkim e Tibet, 1948, © Fosco Maraini.
Yann Arthus-Bertrand: Da La Terra vista dal cielo a 6 miliardi di Altri (da Sguardi 71)
Hai affermato che "La Terra vista dal cielo" ti ha trasformato, in che senso?
Il fotografo fa questo lavoro perché lo appassiona. Non puoi attraversare il mondo per anni, in più di cento paesi, sorvolare la Terra per dieci anni, senza accorgerti dell'immaterialità delle frontiere viste dal cielo. Non puoi parlare con scienziati e contadini, miliardi di persone che lavorano la terra con le proprie mani con il desiderio di nutrire i propri figli, e restare insensibile, indifferente. Ti rendi conto di essere un privilegiato, che non hai il diritto di essere infelice. Che la felicità è altro. Penso sinceramente di essere diventato, in questi anni, un po' migliore. All'inizio, sei giovane, hai molte ambizioni, ti occupi molto del tuo lavoro. Poi ti apri agli altri, hai la sensazione di esser diventato migliore nella vita quotidiana. Sono molto ottimista, vedo la bottiglia mezza piena. In ciascun uomo ci sono due lati, il diavolo e l'angelo, io vedo l'angelo. Mi piace poter mostrare che l'uomo è buono. E per me è un'ossessione capire la ragione per cui non riusciamo a comprenderci, a vivere bene insieme, a coesistere. In questo momento, per esempio, ho una troupe in Palestina e Israele, per chiedere perché l'odio, perché la guerra, c'è una soluzione? […]
È vero che ti ritieni un ambientalista più che un fotografo?
Sinceramente più un umanista. Nel mio lavoro di ecologista-ambientalista ho capito che la chiave di tutto è la coesistenza, cercare di vivere bene insieme. Attraverso le mie immagini, provo a comprendere il mondo e a farlo comprendere. La Terra visto dal cielo o 6 miliardi di Altri, in fondo sono la stessa cosa, sono molto vicini. Prima, parlavo dell'impatto dell'uomo sulla Terra, mostravo il pianeta nel suo fragile splendore, esortavo indirettamente a vivere in maniera sostenibile. Con 6 miliardi di Altri parlo sempre dell'uomo, do la parola agli altri. […]
Quanto sono importanti, per uno che lavora con le immagini, le parole?
In 6 miliardi di Altri la cosa più importante è la parola. Prima, quando fotografavo, non avevo risposte. Ora registro le parole degli altri. Il modo di esprimermi è cambiato, ma non molto. Ho fatto per esempio un film, Home, uscito l'anno scorso e visto da milioni di persone, che in Italia non ha ancora trovato una distribuzione. Trovo che la fotografia e il cinema siano un po' la stessa cosa, molto vicini per quanto riguarda l'immagine. Si tratta, in fondo, di lavorare con la luce, inquadrare, comporre. Non vedrai mai una mia foto senza persone e senza una didascalia che spieghi ciò che sta accadendo e la situazione che è dietro la foto. Mi considero e sono molto di più un giornalista, un testimone, che un artista. In 6 miliardi di Altri non c'è una vera e propria dimensione artistica, altri sono andati in giro a filmare; è un po' un progetto collettivo, l'idea è mia, ma la realizzazione l'ho affidata a una squadra coordinata da Sybille d'Orgeval e Baptiste Rouget-Luchaire. Le stesse domande poste, le abbiamo decise assieme a quelli che hanno realizzato le interviste.
Mosaico © Yann Arthus-Bertrand
Michael Yamashita: Sulle tracce di Marco Polo (da Sguardi 9)
Qual era il tuo scopo principale?
Dare la sensazione di ciò che Marco aveva visto 700 anni fa, ricreare il passato, evocarlo attraverso un'atmosfera. Vorrei fare qualche esempio. In questa foto scattata in Mongolia, si vedono solo i cavalli e gli allevatori, non c'è niente del XX secolo; qui mi sono sentito molto vicino a Marco. Marco attraversò le grandi dune del deserto del Taklimakan, non lontano da Dunhuang, e descrivendole parla di Singing Sand, le "sabbie che cantano", per il suono curioso che il vento crea soffiandovi sopra. Questa area della Cina centro-occidentale è diventata oggi un'attrazione turistica. Quando sono arrivato là e ho visto tutti quei turisti ho pensato subito che non fosse interessante anche perché c’erano addirittura carovane di cammelli, ciascuno con un proprio numero, con turisti sopra. Io volevo un'immagine che sapesse di XIII secolo, senza le folle di questo secolo. Avevo bisogno di un angolo diverso, nuovo, e così sono andato oltre una gigantesca duna di sabbia, in attesa che la carovana di cammelli venisse verso di me. E ho fotografato, sottoesponendo per non far vedere troppi dettagli, come i numeri sui cammelli dei turisti, per creare delle silhouettes e restituire la sensazione di una carovana che si sposta all'epoca di Marco Polo. Quando spiego questo, la gente rimane in genere delusa, ma a volte si deve fare così per ricreare il senso di quello che si vuole raccontare. Quell'immagine è ora la copertina del mio libro su Marco. […]
Quando si cerca di restituire lo spirito del luogo, la trappola è il pittoresco, l'immagine déjà vu, lo stereotipo. Come evitarli?
Questo è il lavoro del fotografo: cercare nuove angolazioni, una nuova luce, un nuovo approccio. È così anche nella musica o nella scrittura: le note, le parole sono quelle; sta a te mettere assieme gli elementi. Anche a Venezia, per esempio, uno dei luoghi più turistici e fotografati del mondo, non è stato facile. È stata una grande sfida per me. Avevo bisogno di fotografare gli unici elementi originali esistenti quando Marco lascia Venezia nel 1271, due colonne del X secolo di fronte al molo del Canal Grande. Il soggetto era questo, ma avevo bisogno di qualcosa di nuovo. Così ho pensato che una buona immagine sarebbe stata avere le colonne in primo piano e una grande nave nel Canal Grande sullo sfondo. Uno dei miei assistenti scoprì che il 6 settembre di quell'anno, alle 10 di mattina, la Grand Princess, all'epoca la più grande barca del mondo, sarebbe passata nel Canal Grande di fronte alle due colonne. Siamo partiti per realizzare apposta quella foto. Ho comprato una sc