Fotografia e cinema: Fotografi sul grande schermo (da Sguardi 49)
In un numero sorprendente di film la fotografia è al centro della narrazione o elemento risolutivo di una vicenda: dalle detective story alle storie d’amore, ai film sulle vite dei fotografi. La mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, rintraccia nelle immagini di celebri film quelli in cui la fotografia gioca un ruolo fondamentale. La mostra si compone di fotografie di scena tratte dagli archivi Photos12 /Grazia Neri: da Blow up a La dolce vita (dove nasce la figura del “paparazzo”), da La finestra sul cortile a Occhio indiscreto e Pretty Baby, da Smoke a I ponti di Madison County, e poi, ancora, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Legittima difesa, One Hour Photo ed altri (tra cui, molti titoli dedicati al fotoreportage di guerra). A seguire, osservazioni sui titoli di testa nei quali compaiono fotografie d’autore, (Cenerentola a Parigi e Occhio indiscreto); flash che illuminano la scena; attori celebri con macchina fotografica; mirini, schermi, vetri smerigliati, obiettivi in primo piano, fototessere, fotografia segnaletica e fotografi veri: Margaret Bourke-White (Candice Bergen) in Gandhi, Weegee (Joe Pesci) evocato in Occhio indiscreto, E. J. Bellocq (Keith Carradine) in Pretty Baby. Completano l’esposizione le schede dei film.
Blow up - ©Photos12/Grazia Neri. Nel bene come, più spesso, nel male, Blow up di Michelangelo Antonioni (1966) può essere considerato e conteggiato come film spartiacque per quanto riguarda la raffigurazione cinematografica del fotografo e della fotografia. Immediatamente a seguire, innumerevoli pellicole, spesso di taglio basso, sono slittate al fotografo sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (personalità ispirata a David Bailey, nel cui studio sono ambientate alcune scene del film), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi
Fotografia e cinema: L’attimo fuggente (da Sguardi 15)
Un viaggio nella storia dell’istantanea, attraverso 200 immagini, dal dagherrotipo al fotogiornalismo, al cinema e a Internet. Dal cosiddetto momento decisivo delle immagini di Henri Cartier-Bresson alla svolazzante gonna di Marilyn Monroe immortalata da Sam Shaw nel 1954, alle immagini glamour e post-moderne dei nostri anni. Questo racconta la mostra L’attimo fuggente fra fotografia e cinema. […] Testimonial prestigioso della mostra è il celebre architetto Renzo Piano, che del linguaggio fotografico ha dichiarato di apprezzare soprattutto l’istantanea e il suo rapporto con il cinema. L’immagine a cui Piano ama far riferimento è la sequenza finale del film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, dove l’esplosione di una casa è resa con sensazionale efficacia dall’effetto di ralenti, grazie al quale ogni dettaglio, dato il ritmo frammentato, è restituito allo spettatore nella sua totale devastazione. Per l’architetto genovese la fotografia è “la più rapida delle arti, così fulminea che in un millesimo di secondo si trasforma in un documento che rimane per sempre. Batte l’architettura che richiede anni di preparazione, poi può finire. La foto come la memoria fissa l’attimo fuggente, ha la capacità di estrarre dallo scorrere del tempo l’istante che vale, ma la memoria lo cancella, la foto fa il miracolo”.
© Phillip Leonian
Wim Wenders: La memoria dei luoghi (da Sguardi 15)
"I luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso nella pietra. È più profondo delle acque più profonde. È come sabbia delle dune, che si sposta di continuo" scrive Wim Wenders in Places ("Luoghi"), il poema che apre Immagini dal pianeta Terra, il volume edito da Contrasto (128 pagine, 49,00 euro) che presenta l'altra faccia di Wenders, quella del fotografo. 55 foto a colori, scelte tra gli scatti realizzati in venti anni di spostamenti. Un viaggio fotografico iniziato nel 1983, quando trascorse molti mesi a fotografare per individuare le giuste locations di Paris, Texas, passato attraverso la preparazione e realizzazione di molti altri film, da Fino alla fine del mondo a Buena Vista Social Club. All'inizio fotografare era una sorta di diario visivo per i suoi film, col tempo è diventato una maniera di espressione in sé, sempre più autonoma dalle urgenze per il cinema. Il libro è un viaggio attraverso molti luoghi, "alcuni dei quali stanno scomparendo o sono già scomparsi, il cui ricordo dovrà aggrapparsi alle immagini che abbiamo", dice Wenders, "mentre altri luoghi sopravvivranno anche dopo di noi". Città, strade, paesaggi, qualche interno, raramente persone. Non racconti di storie, ma frammenti, istantanee raffinate. Scatti quasi sempre realizzati da una prospettiva frontale, neutra, puramente descrittiva, senza angoli, né movimento. Spesso con una macchina panoramica, per catturare il respiro del paesaggio, sia esso urbano o naturale, consegnarlo alla contemplazione. Outback australiano, Midwest americano, strade polverose, orizzonti di montagne, lounge di motel, drive-in, stazioni di benzina deserte, depositi di autobus, binari che scompaiono nel nulla, negozi abbandonati, cinema in disuso, monasteri giapponesi, foreste di bambù, strade di Berlino e Gerusalemme o della Habana Vieja, e infine Ground Zero. Visioni personali del pianeta Terra di un "fotografo di paesaggi", come si autodefinisce Wenders, perché "i paesaggi hanno storie da raccontare e sono molto di più che semplici luoghi. In un film i luoghi devono necessariamente giocare un ruolo secondario rispetto alla storia e ai personaggi. Nelle fotografie posso dar loro il ruolo centrale". Nelle foto di Wenders compaiono raramente persone, quando accade si tratta per lo più di individui isolati. La stessa allusione al pianeta Terra, nel titolo del libro, è un omaggio alla forza della natura che è più possente di ogni presenza umana, perché "la memoria principale è la superficie del pianeta, non noi o le memorie dei nostri computer". A dominare è la natura, i suoi paesaggi, i luoghi, Places, appunto, come recita il titolo del poema citato all'inizio.
Gila Bend, Arizona - © Wim Wenders
Abbas Kiarostami: Tutte le strade di un artista (da Sguardi 13)
Credo che l’immagine sia, in qualche modo, la madre di tutte le arti. Devo ammettere che, se sono stato attirato dal cinema, è perché intellettualmente l’immagine mi ha sempre sedotto.
Sia per l’immagine fotografica, che per la pittura, ho continuamente subito questa influenza che mi ha condotto al cinema.
Eppure, se mi sono lanciato nella regia, non è perché il cinema sia un’arte più completa o, come si è soliti dire, la sintesi di tutte le arti.
Ho sempre pensato che la fotografia, la pittura, l’arte grafica, ecc., abbiano un loro proprio ruolo e che ogni ambito artistico sia importante.
Tuttavia, la fotografia ai miei occhi, occupa uno spazio a parte. Mi ricordo la lavorazione del film Il coro nella città di Rasht. Noi avevamo finito le riprese e, come d’abitudine, tutti avevano disertato il set.
Alcuni erano anche già rientrati a Tehran. Il giorno dopo, ero rimasto solo a Rasht con una macchina fotografica, in mezzo a queste strade strette, questi muri di cemento umido, questi muri di gesso ricoperti di muschio, queste vecchie porte di legno. Sono rimasto in quel luogo diversi giorni, trascorrendo il mio tempo a fotografare, in tutta tranquillità, senza essere costretto a discutere con il capo operatore, il fonico, gli altri membri della troupe, per realizzare ogni inquadratura.
In effetti, in sedici giorni mi ero limitato a seguire la sceneggiatura, tenendo conto di tutte le difficoltà connesse al lavori della regia. Adesso, invece, potevo cercare l’immagine che volevo in tutta libertà.
Credo che, fondamentalmente, l’immagine sia all’origine di tutto. Molto spesso ho scritto sceneggiature a partire da un’immagine mentale.
A partire da un’immagine che avevo nella testa ho elaborato e completato il testo. Ad esempio, Il vestito per il matrimonio era inizialmente solo un’immagine: quella di un ragazzo, che di prima mattina innaffia dei gerani con un’aria perplessa. Quest’immagine doveva costituire la trama della sceneggiatura del lungometraggio preso in considerazione. Al quarto giorno di riprese, quando stavo girando la scena dei gerani, mi sono bruscamente accorto che non aveva assolutamente più l’impatto che avevo immaginato.
Cioè, la storia che si era creata attorno a quell’immagine, l’aveva come dissolta, rarefatta, annullata.
© Abbas Kiarostami
Miti: Beatles & Rolling Stones (da Sguardi 25)
I Beatles e i Rolling Stones nelle fotografie di fine anni ‘60 di Gered Mankowitz e Paul Saltzman, tappa italiana (alla Galleria Grazia Neri di Milano, dal 14 dicembre al 28 gennaio) del tour europeo che dal 2003 ha già toccato Glasgow, Brighton, Londra, Parigi. Mankowitz, ritrattista ufficiale degli Stones all’apice del successo (1967/1969) e Saltzman, reporter “casuale” dei Beatles nel loro viaggio spirituale in India (1968), ci offrono le più belle immagini dei due celebri gruppi musicali, diventate icone per più di una generazione. Un percorso emozionante tra scatti fotografici indimenticabili e immagini, ormai storiche ma ancora scintillanti, che molti certamente ricorderanno come copertine di dischi, manifesti e ritratti ufficiali destinati ai fans.
Un’occasione per celebrare i 50 anni del rock e per testimoniarne l’esplosiva creatività. Le fotografie dei Rolling Stones di Gered Mankowitz sono tra le più note e le più riprodotte immagini del gruppo.
Sono state scattate tra il 1965 e il 1967, nel periodo musicale per loro più importante, sulla scena, nel backstage, in studio di registrazione e in momenti privati nelle loro case. […] Paul Saltzman è stato il testimone del periodo più creativo nella storia dei Beatles. Le sue foto mostrano John, Paul, Ringo e George, quattro tra le persone più note del pianeta, lontani da ogni stress e dediti soltanto a rilassarsi, ridere, e scrivere la musica del loro periodo psichedelico, che ha cambiato la vita di milioni di persone oltre che quella di Saltzman stesso.
Beatles&RollingStones © Paul Saltzman
Francesco Truono: Fotografare la musica (da Sguardi 24)
Per me la fotografia è subordinata a una passione, senza passione verrebbe a cadere automaticamente la mia voglia di fotografare. Dico questo perché quando ho smesso di frequentare gli autodromi, lì è nata la passione fotografica, ho smesso per diversi anni. Avvicinandomi al jazz, perché mi è sempre piaciuta la buona musica, è scattata una molla, una passione nuova, e il risultato è stato un ritorno di fiamma immediato per lafotografia. Il mio intento era ed è quello di tentare non di fare foto ai musicisti o all'evento, ma fotografare la musica, le note che uscivano dagli strumenti. Sentirmi parte integrante del suono, volevo e voglio, questa è la mia ambizione, essere un’estensione naturale dell'orchestra e quindi la macchina fotografica non è più uno strumento per immagini ma è strumento musicale. Fondersi in un tutt'uno, e qui la cosa si fa un po' complicata da spiegare perché le sensazioni e le emozioni, specialmente quando ci si trova in serate particolarmente coinvolgenti, sono per me di difficile spiegazione. La cosa che spesso dico agli amici che si accompagnano con me ai concerti è: "voi andate per fotografare, io vado per sentire".
© Francesco Truono - Benny Golson Quartet
Giovanni Tancredi: Jazzisti (da Sguardi 31)
Negli anni '80 ho cominciato a seguire come fotografo concerti di musica rock che si presentavano sulla scena di Milano, città in cui vivevo. Di giorno lavoravo per la rivista "Insieme", la sera fotografavo i vari concerti organizzati da David Zard e Franco Mamone. Non mi sono più interessato alla musica fino all'inizio degli anni '90 quando ho ricominciato a frequentare festival e rassegne musicali, questa volta di jazz. Il tema che presento in questa mostra non vuole avere un carattere giornalistico o di reportage, è solo un omaggio a questa musica e a questi musicisti nonché a mio padre che mi ha lasciato in eredità questo grande amore. Quando mi viene chiesto quale tecnica uso per fotografare su un palcoscenico paradossalmente rispondo: la tecnica del non dare fastidio, farmi notare il meno possibile, cercare di abituare gradatamente tecnici e musicisti alla mia presenza fino a che presi dal loro lavoro non mi notino più. A quel punto sono sul palcoscenico come un amplificatore, come una custodia di strumento. Nessuno fa più caso a me e posso cominciare a fotografare. Di solito è alle prove pomeridiane che decido come devo fotografare in serata. A seconda di quello che ascolto e vedo decido. Cerco di capire quello che i musicisti suoneranno, come si muoveranno, come si alterneranno gli assoli. Ad esempio Sonny Rollins, Charles Lloyd, Dave S. Ware sono musicisti che hanno un modo particolare di muoversi mentre suonano. Il loro modo di suonare è dinamico come la loro musica. Per cui il pomeriggio decido che per il concerto in serata userò tempi più lunghi in maniera che nell'immagine si evidenzi il movimento facendola risultare dinamica. Mentre ad esempio Benny Golson suona un jazz più tradizionale in maniera molto composta per cui non mi interessa una foto dinamica, ma preferisco tempi brevi per rendere la foto il più ferma possibile cercando di evidenziare un'espressione del viso o una strana posizione del corpo.
© Giovanni Tancredi - Elvin Jones
Piero Tauro: Davanti alla scena (da Sguardi 46)
Cosa significa fotografare spettacoli di teatro, danza, performance all'incrocio tra tradizione e avanguardia? Cosa significa essere un fotografo di scena?
Essere fotografo di scena significa sicuramente vivere al buio e inciampare spesso, aspettare cinque ore seduti su una poltrona l'inizio di una prova che doveva essere in costume e poi non lo è. In una battuta direi che significa sofferenza, sacrificio ma anche tanta emozione. Per spiegare il senso più profondo del mio lavoro comincerei con il dire che cosa per me non è la fotografia di scena, cioè il racconto didascalico di un evento teatrale. La foto di scena non serve a descrivere lo spettacolo secondo l'occhio e il punto di vista dello spettatore, tutt'altro. Essere fotografo di scena significa per me saper raccontare con le proprie sensazioni ed emozioni quello che l'occhio dello spettatore potrebbe non riuscire a cogliere. Significa deformare la percezione attraverso la sospensione di un attimo colto e visto attraverso la propria percezione istintiva, attimo fermato nell'immagine e che lascia il dubbio profondo, in chi guarda, su ciò che è avvenuto prima e che potrà avvenire dopo. Senza dare chiavi interpretative.
Cosa ci deve essere, per te, in una buona foto di scena?
Dipende. Personalmente non mi considero un fotografo di tradizione. Il teatro di tradizione presuppone che la visione ottimale sia quella ortogonale, cioè perpendicolare alla scena. Per me è importante rompere questo equilibrio, stravolgerlo per dare una visione diversa di ciò che accade. Per questo non fotografo mai dal centro del teatro, ma cerco sempre prospettive diverse, stravolgendo anche l'equilibrio dei rapporti fra i diversi elementi scenici. In questo modo corro il rischio di perdere la completezza ortogonale del massimo scenico, ma non subisco più una visione imposta bensì la personalizzo sbilanciando i rapporti fra persone e cose. L'avanguardia si nutre delle contaminazioni di genere (teatro, arti visive, cinema, musica, eccetera) e della interdisciplinarietà. Non esiste più l'attore o il danzatore puro. Per questo ho sempre sentito lo spettacolo contemporaneo più vicino alla mia sensibilità. Rompere l'equilibrio ortogonale in uno spettacolo contemporaneo significa fare avanguardia anche nella sua fruizione.
La luce, in scena, è uno degli elementi fondamentali. Come cerchi di interpretarla?
La luce in scena è una speranza, a volte è un'utopia. La certezza è il buio. Fotografare una performance dal vivo significa accettare le scelte di luce altrui. Ma proprio questo squilibrio fra la luce che vorresti e il buio che c'è è un elemento di difficoltà e tensione continua che rende per me particolarmente bello il mio lavoro.
© Piero Tauro - Marina Abramovic "Biography remix"
Carlo Pizzati: Il passo che cerchi (da Sguardi 82)
Quand'era? Estate, credo nel 1989, o forse '90. Conservo una foto di quell'incontro. Eravamo a Capri. Sono giovanissimo, con la barbetta, ma i pantaloni corti e mi mangio anche un'unghia. Alberto Moravia è nella sua seggiola, un bicchiere di vino sul tavolo. Non trovavamo l'accordo su una questione: io sostenevo che la fotografia è più vicina alla letteratura perché presenta una storia da interpretare, compone un racconto che va sviluppato nella fantasia di chi la guarda. Vedevo la fotografia come una narrazione fatta di soggetti fotografati, ma la cui storia, nonostante le didascalie e le spiegazioni, viene affidata all'osservatore. In maniera inversa la letteratura e la poesia attraverso le parole disegnano nell'immaginazione del lettore un'atmosfera, dei colori e la figura dei personaggi. In questo trovavo che la fotografia potesse incontrare una fratellanza più con la letteratura che con il cinema. Moravia invece sosteneva che la fotografia e il cinema sono parte della stessa famiglia. Che il cinema è fatto di fotogrammi in movimento e quindi il cinema è foto in movimento. Non riuscivo a smuoverlo da questa sua interpretazione che io trovavo così meccanicistica e poco aperta mentalmente. E anche un po' antica, incapace di svilupparsi oltre l'era dei fratelli Lumière. Era uno sguardo rudimentale, a mio avviso. Ed è anche per questo che trovo giusto unire le fotografie non i resoconti letterari. Le foto soffiano storie nella nostra immaginazione. I resoconti dipingono immagini nella nostra mente attraverso le loro parole. […] Ecco, pensai, ecco un fotografo, fulmineo e ladro. Non lo dico per offendere. Ho sempre pensato, forse un po' come un indiano d'America, che queste siano due delle qualità principali del fotografo: rapidità e rapina. La rapidità è scontata, devo spiegarla? Saper cogliere abbastanza in fretta (dopo aver appreso e studiato con calma, pazienza e tempo il proprio soggetto) quell'inquadratura e luce che rappresenta la propria visione. E poi c'è la rapina: saper rubare. Cosa? L'immagine, l'emozione, il momento. Saper sbirciare come Mary Ellen Mark come Nan Goldin come Martin Parr.
Seiser Alm (Sud Tirolo). Il passo che cerchi, Carlo Pizzati
Andrea Foschi: Luce e meraviglia, tra cinema e fotografia (da Sguardi 77)
Che rapporto hai con la luce artificiale?
Credo profondamente nel legame che vi è tra i luoghi, le persone e la luce che li circonda. Un po' mi pare lo stesso per la luce artificiale. Credo che la luce artificiale determini molto del sentire di chi la vive: i lampioni, di notte, che disegnano punti oscuri e illuminano, rendendoli nostalgici, angoli di cui non ci accorgeremmo; una lampada in un angolo della casa, una palla di vetro striato che viene dalla nostra infanzia. Soprattutto nel documentario, anche questo è parte della nostra narrazione. Quindi cerco sempre di rispettare il clima luminoso dei luoghi, soprattutto di quelli più intimi, come le case, portando se necessario piccoli interventi, ma non di più.
Mi è capitato di notare quanto raccomandi ai tuoi studenti a essere attenti alla luce, a immaginarla con la mente prima di tutto. Più che con grandi strumentazioni, a sfruttare un pezzo di cartone per eliminare un riflesso, o un foglio bianco per dar luce a un volto. Quanto è importante la tecnica? Quanto l'equipaggiamento e gli strumenti tecnici?
Nella realtà c'è una perfezione, una bellezza e una perfezione assolute. Basta saperle cercare, che è come dire: saperle ascoltare. Questo vale per la luce, i suoni, le persone. È per questo che mi piace credere che quando andiamo a lavorare, scendiamo sul campo, siano solo piccoli interventi quelli che dobbiamo cercare, piccoli accorgimenti. E che il resto serva a poco. Se c'è qualcosa che vorrei poter insegnare, forse l'unica cosa che conta, è l'amore per la vita. E saperla immaginare, saperla sognare, con la mente, con il pensiero prima, mi sembrano il modo migliore per poi saperne raccogliere i messaggi, e rappresentarli. I mezzi tecnici sono qualcosa da conoscere, alla perfezione. Impararli così bene, per poi dimenticarsi che li stiamo usando, per non permettere loro di prendere il predominio su di noi, cosa che accade sempre più spesso davanti alle nostre insicurezze. Spesso li usiamo per coprirle, diamo al mezzo la parola, per paura di pronunciarne di nostre. Manca un po' di Zavattini a questo mondo: andate per le strade, e tutto verrà da sé.
Quando fotografi, c'è un obiettivo che preferisci, che senti più nelle tue corde? E quando filmi?
50 mm. 50 mm, solamente. O almeno il più che posso. D'altronde, questa ottica vede quanto e come il nostro occhio, l'occhio umano. Lo stesso spazio, la stessa profondità, e costringe a muoversi, a istituire rapporti: se ti voglio vedere da vicino, in primo piano, con questa ottica, mi devo avvicinare a te, come quando voglio parlarti, dirti qualcosa, e questo comporta che probabilmente lo farò: di parlarti, di dirti qualcosa. Il 50 mm, che si chiede di rispettare il nostro sguardo, che ci invita a muoverci, ad avventurarci nel mondo, istituisce relazioni: la base del nostro meraviglioso, e difficile, lavoro. Avrò meno voglia di mentire, quando ti guarderò negli occhi.
I racconti della Drina, preparazione