Grandi fotografi, Great Photographers (da Sguardi 86)
Un libro pervaso di classicità e profondità. Una collana di applicazioni, novità assoluta nel campo dell'editoria fotografica internazionale. Da una parte, Grandi fotografi, a cura di Roberto Koch, con testi di Laura Leonelli, Alessandra Mauro e Alessia Tagliaventi, presenta in grande formato (26,7 x 37,4 cm) 330 fotografie a colori e in b/n - accompagnate da riproduzioni esemplari, testi critici inediti, note biografiche accurate, citazioni - di venti autori che hanno segnato la storia della fotografia: da Henri Cartier-Bresson a Sebastião Salgado, da Gabriele Basilico a William Klein, da Man Ray a Walker Evans, da Robert Doisneau a Martin Parr, da August Sander a Peter Lindbergh, da Robert Mapplethorpe a Herb Ritts, da Margaret Bourke-White a Steve McCurry, da Robert Capa a James Nachtwey, da Elliott Erwitt a Helmut Newton, da Mario Giacomelli a Nobuyoshi Araki. Dall'altra, la collana Great Photographers (di cui sono usciti i primi due titoli, dedicati a Giacomelli e Klein, disponibili su iTunes per iPhone, iPad e iPod Touch) offre un'alternativa al cartaceo: editoria digitale che - per ricchezza di materiali presentati, interattività, percorsi, funzioni intertestuali e qualità della visualizzazione - consente un'esperienza senza precedenti nell'esplorazione dell'opera e della vita di alcuni grandi maestri. […] E numerare, scegliere, elencare, classificare. Compilare una lista, dice Umberto Eco, che alla lista e alla sua vertigine cognitiva ha dedicato un libro, è un metodo usato per conoscere, per fare ordine, per dare una immagine, fornire un metodo di studio e di conoscenza. Questa lista di venti grandi fotografi non fa eccezione: sono altrettanti nomi uniti insieme per una necessità, forse caotica (direbbe ancora Eco), di fornire al lettore un panorama ampio di cosa è stata la fotografia dal ‘900 in poi. Questi venti autori, con le loro storie e le diverse esperienze, hanno tutti segnato tappe fondamentali non solo nella storia della fotografia ma delle arti visive in genere e rappresentano altrettanti punti di passaggio, snodi da cui non è più possibile prescindere. Un catalogo parziale? Forse. Ma quale artista potrebbe maneggiare una macchina fotografica, cercare di comprenderne il senso e l'intrinseca duttilità, il valore semantico e tecnico, senza prima studiare le folgoranti realizzazioni di Man Ray? E chi potrebbe avvicinarsi a un reportage sociale senza conoscere le immagini di Walker Evans e di Margaret Bourke-White? Quale ritrattista potrebbe ignorare il lavoro compiuto da August Sander? Chi potrebbe sondare la misura del corpo e dell'eros senza pensare all'esperienza di Robert Mapplethorpe? Quale fotoreporter potrebbe affrontare un teatro di guerra, avvicinarsi all'azione e cercare di renderla una narrazione comprensibile ed efficace, senza misurarsi con le immagini di Robert Capa o, più recentemente, con i reportage di James Nachtwey? L'esperienza visiva di ognuno di loro fa ormai parte del nostro modo di vedere. Con lo sguardo di Henri Cartier-Bresson abbiamo imparato a guardare il mondo e soprattutto a rappresentarcelo in fulminanti immagini dense di significato, premonitrici del futuro. Abbiamo seguito sul filo dell'ironia, a volte lieve, a volte grave, Robert Doisneau ed Elliott Erwitt sperando che la realtà potesse somigliare alle loro foto. Ci siamo persi nelle strade delle grandi città con le fotografie di William Klein, ritrovando poi l'orientamento di una visione chiara nelle immagini di Gabriele Basilico. Ed è anche grazie ai grandi, epici racconti di Sebastião Salgado se ancora comprendiamo quale sia il senso della collettività.
JAMES NACHTWEY. Inizio della Seconda Intifada. Cisgiordania 2000. © James Nachtwey
Celebrazioni: 100 anni da Nadar (da Sguardi 72)
Omaggio a Félix Nadar (1820-1910), pioniere appassionato all'epoca in cui la fotografia era considerata come una semplice tecnica di riproduzione senza portata artistica, in occasione del centenario della sua scomparsa. Attraverso una mostra e un libro. La mostra Lunga vista sul ritratto (a cura di Renata Tartufoli) fino al 3 ottobre alla 10b Photography Gallery di Roma, presenta intorno ad alcune fotografie di Nadar (31 ritratti della collezione degli Archives nationales françaises) delle opere contemporanee di autori che interpretano, ciascuno a suo modo e attraverso varie tecniche, la nozione classica del ritratto.[…] All'epoca di Nadar fotografo, lo statuto d'opera d'arte si poteva concepire per la fotografia solo in stretto rapporto con la pittura, tendenza che arriverà al suo apogeo con il pittoricismo. Ma Nadar non confonde i generi, è fotografo, lo rivendica, rispondendo ad una clientela che ha un'idea precisa di quello che deve essere un ritratto. In altri termini il ritratto fotografico sostituisce il ritratto pittorico ma la posa rimane, come per natura, classica «come se fosse dipinto». A partire da Nadar, la fotografia resta un mezzo per cogliere il reale. Ruolo principale che gli è assegnato ancora e che corrisponde alla visione di Barthes. La fotografia ci mostra «quel che era ma non è più e pertanto là». Questo ruolo autorizza, come nella pittura, la molteplicità degli stili e dunque l'espressione del fotografo. Il mondo fotografico è ricco di partiti presi formali che spesso compensano la ripetizione monotona dei soggetti trattati. La fotografia, già con Nadar, non è soltanto un modo di fissazione del reale ma anche un modo d'espressione per un autore. È forse a questa condizione che diviene arte allo stesso titolo della pittura. Nadar è presente nelle sue opere, lo si riconosce. Ed è quanto avviene per i fotografi che presentiamo. Tutti manifestano delle posizioni stilistiche singolari. È ben questa la nostra intenzione, mostrare delle differenze, perfino delle opposizioni o delle rotture. Dal prodotto bruto che esce dall'apparecchio analogico, passando per i procedimenti di filtraggio, d'illuminazione e le manipolazioni della luce durante la stampa, siamo arrivati col digitale ad una molteplicità di mezzi tecnici messi a disposizione del fotografo. I programmi d'edizione, qualificati di creazione, offrono considerevoli possibilità d'azione sull'immagine, quando già l'apparecchio digitale permette delle regolazioni complesse che hanno un'influenza sullo scatto. Dopo la ripresa, la post-produzione allarga il potenziale creativo del fotografo, aumenta il suo controllo e, di fatto, rimette in causa l'importanza di «l'instant décisif», il momento cioè in cui la foto è presa. Nel risultato fotografico anche la parte d'imprevedibilità è ridotta. Le opere esposte presentano un panorama dell'utilizzazione delle diverse tecniche inerenti alla creazione fotografica e dei missaggi generati da queste diverse tecniche. La differenza non è sempre sensibile e si deve constatare che se, dopo Nadar, la tecnica è in funzione del tempo che passa, la qualità, invece, rimane atemporale ed è determinata dal solo talento dei fotografi qualunque siano i mezzi di cui dispongono.
Félix Nadar & Co - Postcart
Ferdinando Scianna: Quelli di Bagheria (da Sguardi 13)
Ho sempre considerato molle, ipocrita, fortemente egoista la nostalgia. Non mi appartiene. Mi appartiene, invece, e mi sembra di scoprirla anche nelle mie fotografie più vecchie, ancora adolescenziali, la consapevolezza di avere vissuto - che in quegli anni stavo vivendo - un passaggio storico e culturale epocale.
É ormai un luogo comune, già approdato alle definizioni storiche del nostro tempo, che in questi quarant'anni la vita delle persone, il loro paesaggio fisico e culturale, di conseguenza la loro maniera di essere, pensare, sentire, è cambiata più che nei precedenti duemila. Al tempo lento e lungo si è sostituito il tempo tecnologicamente e forsennatamente accelerato che stiamo ancora vivendo. Ne conosco che ne sono impazziti. Quanti come me siamo alle soglie della vecchiaia abbiamo vissuto dentro questo portentoso e spaventoso passaggio; la nostra maniera di essere, sentire, pensare, inevitabilmente risente di entrambe le realtà. Chi è nato trent'anni fa ha difficoltà a figurarsi, non dico a comprendere, il famoso "da dove veniamo". Noi abbiamo il discutibile privilegio di essere gli archeologi ancora vivi di noi stessi e di quel mondo che era durato così a lungo e si è volatilizzato quasi di colpo, come il fumo di un falò in una sera di vento. Facendo quelle fotografie, non sapevo, inconsciamente sapevo, che avrebbero fatto parte di tanti altrigesti di memoria, che avrebbero costituito un ultimo saluto a quel tempo, a quel mondo. Un saluto per nulla nostalgico. Io credo nella memoria. Potrebbe uno che fa il fotografo non crederci? A parte tutto, mi è sembrato, recuperando certe immagini, che dentro ci fosse già tutto quello che ho continuato a fare nei successivi quarant'anni. Ma non si ricorda solo per se stessi, si ricorda per tutti. Ho tentato con questo libro, che mi è sembrato il più difficile fra quanti ne ho fatti, ma anche il più appassionante da fare, e spero anche il più sincero, di scavare, come Sciascia suggeriva, nella camera oscura della memoria attraverso le mie stesse fotografie, riportandone frammenti verbali a loro volta simili a istantanee.
Ho cercato di ricostruire, di immaginare, il mio paese, la mia infanzia, la mia adolescenza, in quel tempo, in quel luogo. Le fotografie non restituiscono "ciò che è stato", piuttosto ripropongono in una sorta di lancinante presente ciò che non è più. Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia. Magari, se è una grande immagine, verrà simbolicamente incollata nell'album di famiglia di noi tutti. Naturalmente, questo è un libro su Quelli di Bagheria, sugli uomini, sulle donne, sui bambini, sugli animali.
Spero, tuttavia, che molti altri, e non soltanto fra coloro che hanno vissuto quel tempo, vi scopriranno il loro paese, la propria infanzia, i volti di altri, diversi e simili uomini, donne, bambini, animali anche, che finché permangono nella memoria individuale e collettiva continuano a esistere, a determinare il nostro presente e il nostro futuro.
© Ferdinando Scianna
Gianni Berengo Gardin e Elliott Erwitt: Un'amicizia ai sali d'argento (da Sguardi 97)
Una mostra, un libro. Un'amicizia ai sali d'argento di Gianni Berengo Gardin e Elliott Erwitt. Un'esposizione presso l'AuditoriumExpo di Roma (fino all'1 febbraio) e un libro che l'accompagna, edito da Contrasto (20 x 24 cm, 200 pp., euro 29). Dove, per la prima volta, si mettono a confronto due grandi interpreti della fotografia, due maestri della camera oscura. Nella loro lunga carriera, Berengo Gardin e Erwitt ancora oggi percorrono il mondo guardandolo attraverso il visore di una macchina fotografica, strumento e pretesto di vita, per poi scegliere, sui provini a contatto, le foto migliori di cui la stampa finale, quella definitiva, avrà i segni, le luci e le ombre dei sali d'argento e della realtà. Molte celebri, altre poco note, altre ancora appena realizzate e mai mostrate finora, in questa mostra le immagini di Berengo Gardin e quelle di Erwitt dialogano una con l'altra, in un percorso incrociato di stili, recuperando il senso di uno sguardo, quello partecipe e intenso dei fotogiornalisti, e di un legame forte, come appunto l'amicizia. Un'amicizia fatta di camera oscura, di acidi di sviluppo e di sali d'argento. Centoventi fotografie ripercorrono la carriera dei due fotografi, dai primi anni Cinquanta fino agli ultimi reportage realizzati in questi recenti mesi sulle grandi navi a Venezia per Berengo Gardin e uno reportage sulla Scozia per Erwitt. Ma in mostra ci saranno anche i provini delle più importanti immagini dei grandi fotografi e una ricostruzione del loro studio: il luogo magico dove tutto avviene o meglio, tutto si rivela. Di seguito, alcune considerazioni, tratte dal volume, dei due grandi autori sulla e attorno alla fotografia.
USA. New York. 1955. Empire State Building © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto
National Geographic: Il Mondo in un secolo di grandi immagini (da Sguardi 13)
National Geographic, che per oltre un secolo ha stabilito uno standard di eccellenza nel campo della fotografia naturalistica e culturale, pubblica - in ottobre - quello che annuncia come il più grande volume di immagini della sua storia: Through the lens - Il Mondo in un secolo di grandi immagini. Il volume, che sarà dato alle stampe simultaneamente in venti paesi (in Italia sarà edito dalle Edizioni White Star), contiene 231 fotografie che illustrano il lavoro di 110 fotografi, fra i quali Sam Abell, William Albert Allard, Jodi Cobb, David Doubilet, Stuart Franklin, David Alan Harvey, Chris Johns, Emory Kristof, Frans Lanting, Gerd Ludwig, Steve McCurry, Nick Nichols, James Stanfield e molti altri.
Per il presidente della National Geographic Society, John Fahey, "le fotografie riflettono la passione e la dedizione di uomini e donne che sono i migliori nel loro campo. I professionisti di National Geographic si impegnano a produrre le più straordinarie immagini mai realizzate e i risultati che ottengono sono spettacolari. Per catturare i loro soggetti vanno fino ai confini della Terra, spesso con grave pericolo per se stessi: diversi sono stati coinvolti in incidenti aerei, uno è stato attaccato da uno squalo, altri hanno contratto patologie serie come la malaria e la meningite. Recentemente la nostra inviata a Baghdad ha evitato per poco di essere ferita mentre le forze statunitensi bombardavano l'hotel in cui alloggiava".
"Scattare fotografie in missione ti porta più vicino alla gente", osserva George Steinmetz, uno dei fotografi presenti nel libro. "Non solo offre una via d'accesso privilegiata che a un viaggiatore normale manca, ma spinge a guardare le cose in un modo diverso, più analitico. Obbliga ad ampliare se stessi, a calarsi nelle situazioni". Cosa rende grande una fotografia? Joel Sartore, altro fotografo presente nel libro, sostiene che sono tre le componenti essenziali: buona luce, buona composizione e uno sfondo che non confligga con il soggetto principale.
E poi l'attimo, che può essere un'emozione o qualcosa che emerge potente sulla scena". Il tempismo è decisivo. "Infatti", continua, "gli scatti migliori sono quelli apparentemente impossibili". "Gli istanti bizzarri che i nostri professionisti scoprono mentre lavorano sul campo per lunghi periodi è una caratteristica di importanza primaria, che pone National Geographic in una posizione del tutto distinta nel campo fotografico", afferma Leah Bendavid-Val, editor del libro. "I nostri fotografi trattano le altre culture con grande rispetto e hanno la capacità di mettersi in relazione con i loro soggetti sul piano umano".
© National Geographic
Mario Calabresi: A occhi aperti, quando la Storia si è fermata in una foto (da Sguardi 99)
«Cosa potremmo sapere, cosa potremmo immaginare, cosa potremmo ricordare dell'invasione sovietica di Praga se non ci fossero, stampate nei nostri occhi, le immagini di un "anonimo fotografo praghese", che si scoprì poi chiamarsi Josef Koudelka? Quanta giustizia hanno fatto quelle foto, capaci di raccontare al mondo la freschezza e l'idealismo di una primavera di libertà. Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c'è una fotografia che li racconta». Così ha scritto Mario Calabresi che, appassionato di fotografia, ma anche e soprattutto di giornalismo e realtà, ha intrapreso un viaggio profondo nella storia recente, cercando alcuni dei "testimoni oculari" (Abbas, Gabriele Basilico, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Don McCullin, Steve McCurry, Josef Koudelka, Paolo Pellegrin, Sebastião Salgado, Alex Webb) che con il loro lavoro, e la voglia di scavare tra le pieghe della cronaca, hanno raccontato alcuni momenti straordinari del nostro presente in una serie di immagini realizzate con gli occhi ben aperti sul mondo. Ne è nato un libro, A occhi aperti (Contrasto, 208 pp., 122 foto a colori e in bianco e nero, 19,90 euro), che ha raccolto le interviste a dieci grandi fotografi, dieci testimoni del nostro tempo. Il progetto del libro è diventato una mostra, a cura di Alessandra Mauro e Lorenza Bravetta, (all'Auditorium di Roma fino al 10 maggio) in cui Calabresi guida il visitatore a scoprire il lavoro degli autori che ha incontrato, il loro approccio speciale e intenso, le loro storie, e a condividere la possibilità di osservare il mondo da una prospettiva privilegiata, lo sguardo del fotoreporter. Di seguito, l'introduzione di Mario Calabresi: «Nell'estate del 1982 Tonino Milite, che stava per sposare mia madre e da tempo era diventato il nostro papà, organizzò una serie di corsi per me e i miei fratelli: pesca, canottaggio e fotografia. Io partii da quest'ultimo e, per un mese, ogni giorno passavo due ore a imparare la messa a fuoco, i tempi di esposizione, le inquadrature. Il premio finale arrivò a Natale: una robusta macchina fotografica russa. Avevo 12 anni e non sarei mai diventato un fotografo, anche se per un certo periodo tormentai amici e parenti con le mie diapositive e il bianco e nero, ma la passione per l'immagine non mi avrebbe più lasciato.
Robert F. Kennedy funeral train, 1968. © Paul Fusco/Magnum Photos/Contrasto
Peter Beard: Art Edition (da Sguardi 50)
Art Editiondello statunitense Peter Beard, innamorato della wilderness africana, inventore di una forma espressiva propria: il taccuino-diario con foto, disegni, dipinti, racconti, note, pezzi incollati di alberi, foglie, ossa o pelle di anima. […] Fotografo, collezionista, scrittore di diari, autore di libri, Peter Beard ha fatto della sua vita un'opera d'arte. Idiari illustrati che teneva da ragazzo hanno trasformato la sua vita, facendogli conquistare una posizione centrale nel mondo artistico internazionale. È stato ritratto da Francis Bacon e Dalì. Ha scritto diari con Andy Warhol. Ha collaborato con Truman Capote e i Rolling Stones, creato libri con Jacqueline Onassis e Mick Jagger. Come fotografo di moda ha portato modelle come Veruschka in Africa e ne ha portate di nuove in Occidente, come per esempio Imam negli Stati Uniti. Il suo amore per la natura selvaggia, che caratterizza gran parte del suo lavoro, iniziò quand'era adolescente. Dopo aver letto i libri di Karen Blixen e aver soggiornato in Kenya, acquistò un pezzo di terra vicino alla residenza della scrittrice. Erano i primi anni ‘60 e i grandi cacciatori guidavano i safari come aveva letto in Out of Africa della Blixen. Ma i tempi stavano cambiando. L'esplosione demografica sfidava le scarse risorse del paese e creava fortissime pressioni sugli animali, inclusi gli elefanti di Tsavo che morivano a decine di migliaia in deserti di alberi mangiati. Beard documentò ciò che vedeva con diari, foto, collage. Andò controcorrente pubblicando lavori talvolta scioccanti sull'argomento, con cadaveri che giacevano a terra, fatti descritti accuratamente a macchina o a mano, talvolta con il sangue. Art Edition è un libro realmente fuori dall'ordinario (dal formato presentato come XXL, 34,5 x 50 cm, 200 pagine di diari e 294 pagine di collage, con tanto di cavalletto speciale in legno), un'opera d'arte in se stessa, un'edizione opulenta e limitata (2.500 copie numerate e firmate) meravigliosamente lavorata, in inglese tedesco e francese, dal prezzo per pochissimi: 2.000 euro.
© Peter Beard - Fayel Tall, Lake Rudolph, Kenya, February, 1987
Steve McCurry: Le storie dietro le fotografie (da Sguardi 90)
Una nuova pubblicazione su uno tra i più conosciuti fotografi contemporanei. Uno sguardo inedito sul dietro le quinte del lavoro del fotoreporter americano Steve McCurry. Un'esplorazione del modo in cuitrova, scatta e seleziona le sue immagini. 14 fotoreportage, realizzati in diversi angoli del mondo, scandiscono il ritmo del volume appena uscito Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie (Electa/Phaidon, 264 pp., 320 illustrazioni, euro 59): storie di cui McCurry è stato testimone, altre che è andato faticosamente a cercare, altre ancora apparse davanti ai suoi occhi quasi inaspettatamente. Dal Pakistan alla Cina, dall'India all'Afghanistan, attraverso l'area montuosa dell'Himalaya, dal Nepal all'Australia, dall'Indonesia al Bangladesh, fino allo Yemen o in Kuwait, il centro di ogni scatto è l'uomo radicato nel proprio contesto d'origine, la sua vita sociale, le sue abitudini, i drammi, i sogni e tanta imponente natura. Ogni storia è illustrata con appunti, immagini, ricordi - messi insieme da McCurry durante i suoi lunghi viaggi - e circa 120 tavole fotografiche con i suoi lavori più significativi. Accanto alle foto per ogni reportage il libro presenta un vasto archivio formato da materiali non fotografici, molti dei quali inediti: oggetti, diari, documenti, come articoli di giornale, mappe, i lasciapassare iracheni per la stampa, ecc. Un libro fotografico, ma anche storico, che spiega i contesti sociali e storico-politici in cui il reportage è stato effettuato. Le vicende raccontate abbracciano una vasta gamma di temi e soggetti, tra cui le ferrovie indiane (1983), gli effetti del monsone (1984) e gli eventi legati all'11 Settembre (2001). Il volume presenta anche lavori meno noti, come quello sulle conseguenze ambientali della prima guerra del Golfo (1991) e sulla tribù hazara in Afghanistan (2007). Ad esempio sono descritti la ricerca e il ritrovamento nel 2002 da parte di McCurry e di un team del National Geographic della famosa ragazza afghana (che era stata sulla copertina della rivista nel 1985), Sharbat Gula, la cui identità era stata sconosciuta per 17 anni. Attraverso la narrazione critica, basata sugli appunti che il fotoreporter ha raccolto sul campo in situazioni talvolta entusiasmanti, talvolta estreme o pericolose, il lettore può cogliere gli spunti, le idee sulla ricerca, l'esperienza e gli eventi che si nascondono dietro ogni scatto, svelando una nuova visione del lavoro del fotografo.
© Steve McCurry - Dust storm
Jimmy Nelson: Prima che scompaiano (da Sguardi 93)
Il nome del progetto è poeticamente drammatico: Before they pass away, prima che scompaiano. Esprime un pericolo, e la volontà di fare memoria, documentare. Cosa, chi? Alcune culture tribali esistenti in diverse aree del mondo, a cui Jimmy Nelson ha dedicato oltre due anni di viaggi per raccontare il loro stile di vita ancora in armonia con la natura, gli usi e i costumi preservati in un mondo sempre più globalizzato. Fotografia che si vuole documentaria e ritratti con tratti di epicità che presentano, «nella loro gloria e senso di orgoglio», gli eredi di nobili e antiche culture, i guardiani di una cultura che essi sperano - e noi con loro - sarà tramandata alle future generazioni. Una vetrina di culture tribali, una significativa testimonianza storica sulla grande varietà di esperienze umane ed espressioni culturali, sullo sfondo di alcuni tra i paesaggi più primitivi al mondo. Un libro (edito da TeNeues), un'esposizione (ora a Berlino, Camera Work e CWC Gallery, e poi dal 12 aprile in Olanda al Rijksmuseum Volkenkunde di Leiden), un progetto nato dalla convinzione dell'autore che la purezza dell'umanità esiste. È lì, tra le montagne, i ghiacciai, la giungla, lungo i fiumi e nelle vallate, che Jimmy Nelson racconta di aver trovato gli ultimi uomini tribali e li ha osservati, ha sorriso e bevuto i loro infusi prima di estrarre la sua macchina fotografica, ha condiviso, ha adattato la propria antenna alle loro frequenze. Man mano che la fiducia aumentava, si sviluppava un'interpretazione comune della missione: il mondo non deve mai dimenticare il modo in cui sono/erano le cose. Perché è da lì che noi, abitanti delle città, veniamo. Un mondo - secondo la visione di Nelson - dove la giustizia e l'onore sono ingredienti naturali. Dove le guerre si combattono per sopravvivere. Un mondo con regole e rituali rigidi. Un mondo trasparente, libero dall'ipocrisia. Culture e tribù dimenticate possono riportare l'attenzione su alcuni aspetti fondamentali dell'umanità: l'amore, il rispetto, la pace, la sopravvivenza, la condivisione. C'è una bellezza pura nei loro scopi e nei legami familiari, nella loro fede negli dei e nella natura, nella loro volontà di agire correttamente, nella certezza di essere accuditi dalle generazioni più giovani quando verrà il momento. In Papua Nuova Guinea così come in Kazakhistan, in Etiopia o inSiberia, per Nelson le tribù rappresentano l'ultima risorsa di autenticità naturale. Le sue foto danno un contributo per vedere, ricordare. Prima che scompaiano.