Viaggiare per fotografare o fotografare per viaggiare.
Il dilemma pesa quanto i 10
chili della cara, vecchia 6 x 6, con relativo corredo di
obiettivi e accessori ed immancabile treppiede, attraverso
paesi e continenti, città (poche) e terre disabitate
(molte). Come quella volta in Australia,
da Darwin a Adelaide, poi di nuovo su, sino a Sydney: 9.500
chilometri in auto; o quell'altra, 8 mila chilometri e passa
nella Nuova Zelanda (non era
piccola?) misconosciuta del pre-Luna Rossa: 1800 foto in
5 settimane nel primo caso, 1500 in 4 nel secondo, sembrano
un'enormità, ma in fondo sono solo uno scatto ogni
5-6 chilometri. Niente, rispetto agli oltre cento partiti
dall'otturatore in un pomeriggio di fine maggio trascorso
davanti al duomo di Orvieto,
a scrutare luci, ombre e colori, a cercare di cogliere l'essenza
del capolavoro di Lorenzo Maitani e Andrea Pisano, "Finché
notte non li ha separati".
Il peso dello zaino (un monumento, comunque, all'inventore
di quello per reporter) non permette un'andatura da sprinter:
ma proprio il ritmo forzatamente
blando aiuta a riflettere, a guardare sia fuori che dentro
l'obiettivo, a cercare ossessivamente il taglio, a immaginare
orizzontale e verticale, quando davanti si ha una cornice
quadrata, salvo poi scoprire che è proprio il quadro
la forma migliore per riprodurre un ambiente - come il Geiranger
Fjord - dove la grandiosità del tutto non riesce
a prevalere sulla verticalità delle sue parti.
Vivere con un chip, incorporato nel sistema occhio-cervello
e capace di riprodurre il punto di vista di un 600 F4, sarebbe
il sogno di qualunque fotografo
appena evoluto. Perché il gusto
del particolare, dell'effetto grafico, del pattern
è quello che ti salva il viaggio quando, dopo migliaia
di chilometri, trovi piombo e pioggia a sovrastare il soggetto
dei tuoi sogni. Magari non funzionerà sotto al monte
McKinley o al Cervino, ma in quasi tutti gli altri casi
è manna pura. Come nella piovosa e fuligginosa Bilbao
di inizio maggio (sempre lui, il mese che preferisco per
scattare), davanti allo scioccante Guggenheim,
incorniciato da uno squallido soffitto lattiginoso e piatto:
braccia in caduta libera dopo due anni di attesa trasognante,
ma è solo una fugace concessione al pensiero in formato
cartolina. Basta mettere un tele appena normale e alzare
lo sguardo di 30 gradi per accorgersi che il cielo evolve
sino a un bel tono tempesta. Poi ci si concentra
sulle piastrelle di titanio, studiate sui libri, agognate
per mesi e finalmente apparse il pomeriggio precedente,
quando l'orizzonte era del miglior indaco possibile, ma
pesavano le 12 ore al volante.
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È la rivelazione: quel
metallizzato grigio-bluastro, che sembrava il felicissimo
frutto di un salto nel ventritreesimo secolo, ha ben poco
a che vedere con il titanio che ricordi su orologi, attrezzatura
sportiva e componentistica postmoderna varia, semmai simile
ad acciaio appena imbrunito. Proprio in quella nuance
si mostrano le curve disegnate da Gehry sotto un cielo neutro
che non falsifica i colori: una pellicola onesta e il gioco
è fatto, è un Guggenheim strano ma bellissimo
e "in esclusiva", se è vero chi lo trova
tra nuvole e diluvio di solito storce il naso e passa oltre.
Ecco, chi fotografa per piacere
puro ha il lusso di poter sperimentare:
non devi piazzare il lavoro ad ogni costo, puoi selezionare
i soggetti evitando quelli che non ti stimolano ma sarebbero
comunque da raccontare per la completezza del servizio,
addirittura partire per un viaggio, anche fossero i luoghi
più remoti, dove più difficilmente si torna,
con l'ultima pellicola nata, succeda quel che ha da succedere:
tanto va quasi sempre bene, nella maggior parte dei casi
porti a casa qualcosa di inusuale, che comunque a te piace
molto... e questo basta.
La serie di scatti che amo di più nasce proprio
dalla voglia di sperimentare, di cercare soluzioni, tagli,
colori personali, diversi. L'Antelope
Canyon è uno dei meravigliosi figli naturali
del Colorado River, a Nord-Est del Grand Canyon, vicino
al Lake Powell. È il più famoso e visitato
tra gli slot canyon, cioè "a fessura":
lungo non più di duecento metri e alto 30-40, quasi
mai raggiunge il metro di larghezza. La luce arriva e no,
disegnando geometrie, giochi di ombre e colori in eterno
divenire, il tutto per il sollazzo di chiunque ami guardare
attraverso una reflex. La sabbia, poi… basta un passante
a generare un piccolo tornado, rimescolando di continuo
le carte: e se fuori c'è vento lo spettacolo è
al cubo. Non a caso, tra le varie opzioni di visita è
previsto, con un costo extra di pochi dollari, il "Photographers'
tour": ci si trattiene più del doppio
rispetto agli altri ospiti, accompagnati da una guida Navajo,
che, all'inizio, fornisce consigli su tempi, diaframmi,
punti di vista e obiettivi, tutto di livello assolutamente
professionale. Suggeritori o meno, da 10 mila chilometri
di distanza si parte ad handicap, rispetto a chi gioca in
casa.
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Armato dell'indispensabile cavalletto (e quasi non basta,
perché sei sulle sabbie mobili) e della 100 VS, trovi
la quantità di luce e l'ambiente rosso-arancio che
più o meno aspettavi. Mentre le pareti rosate scorrono
attraverso la classica cornice formata dal pollice e dall'indice
chiusi, i giochi luce-ombra,
complice il riaffacciarsi del sole all'esterno, si fanno
entusiasmanti. Con un colpo di mano, il 100 millimetri sostituisce
il 60 che la guida, prima di entrare nel cunicolo, aveva
indicato, a chi stava usando una medio formato, come lente
ottimale per quell'ambiente (soprattutto, raccomandando:
"Mettete pure il vetro che volete, ma andateci avanti
fino alla fine, perché se lo cambiate qui sotto la
polvere vi bloccherà la macchina…").
Per un'ora il feeling è assoluto, sembra di essere
un tutt'uno con l'ambiente: la luce è da sogno e
le inquadrature arrivano da
sé. Persino i disturbatori sembrano dissolti nel
nulla. Ma poi l'Hassel si insabbia (tornerà a funzionare
molte ore dopo) e il finale è da tragicommedia: sedicente
fotografo a girare i pollici per venti minuti, maledicendo
se stesso, la sabbia, il turismo di massa e la guida Navajo
che avrebbe dovuto rivolgersi solo a lui e in dialetto genovese
stretto… Seguono due settimane a rimuginare sulla
grande occasione perduta, prima che dal fotolab arrivi la
sorpresa: i colori più saturi mai riusciti; (det)tagli
che suscitano la curiosità e l'apprezzamento di amici,
curiosi, viaggiatori ed esperti (l'ultimo è proprio
Antonio Politano, che pretende la serie); mesi trascorsi
a stabilire quale tra le inquadrature dell'Antelope Canyon
abbia diritto d'accesso al "portfolio".
È l'ora del brusco risveglio: per un attimo, avere
avuto libero accesso a "Sguardi" ha fatto sentire
l'ultimo fotografo della domenica una sorta di reincarnazione
di Ansel Adams. Meglio tornare sulla terra. E, a proposito
del dubbio scespiriano, in realtà è dall'età
di cinque anni che visito saloni dell'auto e vedo gare di
Formula 1 dal vivo: forse sarebbe meglio riconoscere che
il viaggio e la fotografia altro non sono che due scuse
per sedere su un ammasso di ferraglia con cilindri e pistoni.
Chi sono
Genovese, quarant'anni. Giornalista professionista, ho iniziato
a scrivere sul "Lavoro" di Genova occupandomi
di sport, cronaca e spettacoli. Passato alla sede romana
della "Repubblica", lavoro nel supplemento "Salute",
dove mi occupo di alimentazione e dieta (ho in preparazione
un libro sul corretto stile alimentare). Amo viaggiare da
sempre e, fotograficamente, ho ripreso una passione brevemente
coltivata nell'adolescenza. Quando posso, esploro i grandi
spazi fuori dal vecchio continente, dove invece preferisco
l'architettura, in particolare quella medievale-gotica,
ma non sono insensibile a icone contemporanee come il Guggenheim
di Bilbao o l'Opera House di Sydney. Ho sporadicamente pubblicato
fotoservizi di accompagnamento ai miei articoli di cronaca
sul "Lavoro" e collaborato con "i Viaggi
di Repubblica" e il "Venerdì".