© Marco Citron
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ARTèVISION fotografia, settore della Associazione
Koine, presenta la rassegna ARTèVISION
Contact Photos, incentrata quest'anno sull'architettura
e sottotitolata Urban Vision.
La rassegna torinese inizia il 14 gennaio con una mostra
personale di Marco Citron, che attraverso
un sapiente uso del banco ottico nobilita le forme abitative
e industriali di un'architettura contemporanea anonima e
massificante decontestualizzandole e trasformando il grigiore
e la rigidità del cemento in una fluttuante dimensione
fiabesca. A seguire altre tre personali di Luca
Cesco, Fabrizio Sillano, Alessandra
Dosselli, anch'essi ispirati dalle forme architettoniche
e dal fascino delle vedute metropolitane.
“Irregolare è
il nome di un lavoro fotografico in divenire, una galleria
di ritratti urbani, un viaggio
nella città contemporanea, forse più vicino
al ricordo dell'espressionismo che non alla ricerca oggettiva
di Bernd e Hilla Becher”, afferma Marco Citron, “Irregolare
è il modo di ritrarre le forme,
alterando analogicamente tempi e spazi, prospettive e simmetrie,
tonalità e cromatismi. Irregolare è il tentativo
d'interpretazione, in cui l'architettura originaria
si perde per arrivare a qualcosa d'altro.”
www.associazionekoine.it
© Marco Citron |
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Giovanni Fiorentino
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Le immagini belliche appartengono di fatto alla storia
dell'uomo. Bisogna tornare al corto circuito premediale
della metropoli ottocentesca per comprendere il presente
della guerra dei media. Oggi
l'occhio fotografico non è solo quello del reporter
incollato all'evento, modello Robert Capa: è l'occhio
comune, voyeurismo e affetti,
turismo e stereotipo, esotismo e controllo, ricordo e tortura,
possesso e bisogno morboso di contemplare. Abbiamo consumato
lo spettacolo della guerra,
siamo passati alle stragi, alle torture, ai rapimenti e
agli sgozzamenti mediatici. Da una parte la manutenzione
della paura dall'altra la costruzione delle sicurezze passano
a colpi di video digitali e comunicati in rete. Ma i media
hanno memoria corta: il rapporto
guerra-fotografia attraversa coerentemente il Novecento,
tranne nascondersi nelle pieghe della storia e scomparire
dalla scena mediale. Non vedremo mai fotografie delle Falklands
inglesi e della guerra d'Algeria dei francesi. Con buona
volontà potremmo recuperarne qualcuna dell'Afghanistan
prima del 2001, della Cecenia di Putin, degli orrori tra
i civili della prima guerra del Golfo. Le atrocità
che non si vedono scompaiono.
Eppure gli ultimi anni non parlano solo di guerre controllate
dai media, raccontano fotograficamente punti di vista altri
rispetto all'immaginario consolidato dell'Occidente.
Per Giovanni Fiorentino, autore de L'occhio
che uccide (Meltemi, 144 pp., 14 euro), la distanza
che separa Abu Ghraib dai lager nazisti, dalla bomba atomica,
dai Gulag, dal Vietnam e persino dall'ex Jugoslavia è
la penetrabilità interstiziale della fotografia
digitale, l'istantaneità del suo flusso globale,
è la rottura del circuito
del controllo, è la possibilità di modificare,
alterare, sabotare l'immagine ufficiale destinata alle masse
infinite di consumatori mediali per determinare e condizionare
il presente.
In memoria di Susan Sontag
Ricordiamo la figura di Susan Sontag, scompasa qualche
settimana fa, scrittrice statunitense da sempre attenta
alla cultura dell'immagine, riproducendo parte di un capitolo
del suo libro, edito in Italia nel 2003 da Mondadori, Davanti
al dolore degli altri (pp. 112, euro 13), dedicato
alla fotografia di guerra.
«Catturare la morte nell'attimo stesso in cui sopraggiunge
e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le
macchine fotografiche possono
fare, e le immagini scattate sul campo che registrano il
momento della morte (o quello
immediatamente precedente) sono tra le foto
di guerra più celebri e riprodotte. Non può
esserci alcun dubbio sull'autenticità
di ciò che mostra una fotografia scattata da Eddie
Adams nel febbraio del 1968: il capo della polizia
sudvietnamita, il generale di brigata Nguyen Ngoc
Loan, che uccide un sospetto vietcong in una strada
di Saigon. Eppure, si trattò
di una messinscena, orchestrata dallo stesso generale Loan,
che condusse il prigioniero, le mani legate dietro la schiena,
nella strada dove erano riuniti i giornalisti;
non avrebbe portato a termine quell'esecuzione sommaria
se non ci fossero stati loro a testimoniarla. Collocatosi
accanto al prigioniero in modo
che il suo profilo e il volto della vittima fossero visibili
alle macchine fotografiche poste alle sue spalle, Loan sparò
a bruciapelo. La fotografia di Adams mostra il momento in
cui il proiettile è
stato esploso; l'uomo morto, la bocca contratta in una smorfia,
non ha ancora cominciato a cadere.
Quanto a chi guarda, a questa osservatrice,
anche molti anni dopo che la fotografia è stata scattata...
be', è possibile scrutare a lungo quelle facce senza
riuscire a comprendere il mistero,
e l'indecenza, dello spettacolo a cui siamo chiamati ad
assistere. Ancor più sconvolgente è l'opportunità
di guardare chi sa di essere
condannato a morte: si pensi
alla collezione di seimila
fotografie scattate tra il 1975 e il 1979 in una prigione
segreta ubicata in un ex liceo di Tuol Sleng, un sobborgo
di Phnom Penh, dove vennero
sterminati più di quattordicimila cambogiani accusati
di essere “intellettuali” o “controrivoluzionari”
(la documentazione di questa atrocità ci è
giunta per gentile concessione degli archivisti dei khmer
rossi, che costrinsero ciascun prigioniero a posare per
una fotografia poco prima di essere giustiziato). Una raccolta
di queste foto, pubblicata in un libro intitolato The
Killing Fields (Campi di sterminio), ci offre la
possibilità, a decenni di distanza, di fissare i
volti che fissano l'obiettivo
- e dunque noi. Se dobbiamo prestare fede a quanto sostenuto
da Capa a proposito della celebre fotografia
che egli scattò a una certa distanza dal soggetto,
il miliziano repubblicano spagnolo
è appena morto: scorgiamo poco più che una
figura sgranata, un corpo e una testa, un'energia che si
allontana con uno scarto dalla macchina fotografica mentre
il soldato cade. I cambogiani
e le cambogiane di ogni età, tra cui numerosi bambini,
fotografati a un paio di metri di distanza, di solito a
mezzo busto, sono - come nello Scorticamento
di Marsia di Tiziano, in cui il coltello di Apollo
è perennemente sul punto di abbattersi - per sempre
intenti a guardare la morte,
per sempre sul punto di essere assassinati, per sempre vittime
di un'ingiustizia. E l'osservatore si ritrova nella stessa
posizione del tirapiedi dietro l'obiettivo; l'esperienza
è nauseabonda».