Che cosa non
si può fotografare
Ragazza di etnia Peul fotografata da Diego Garzone
nel nord del Senegal |
Distinguiamo: che cosa non
si può per legge fotografare, e che
cosa, per una serie di motivi, non
è opportuno fotografare. Praticamente
ovunque non si possono fotografare residenze
presidenziali (fa eccezione il palazzo presidenziale
di Dakar, dove le guardie d'onore in giubba rossa
si fanno volentieri fotografare a fianco dei turisti,
e soprattutto delle turiste), personale
e mezzi militari e della polizia, caserme,
antenne, ponti,
depositi, stazioni,
aeroporti, carceri…
La lista è lunga e varia da
zona a zona: in Kenya
non si può fotografare la bandiera, in Gambia
il traghetto che attraversa l'omonimo fiume e che
costituisce praticamente (a meno di non compiere un
giro di circa 700 km) l'unico mezzo per raggiungere
la regione meridionale del Senegal,
la Casamance, dal Nord del Paese. In Casamance
potreste trovare, a causa della guerriglia indipendentista
peraltro molto soft, una maggiore
rigidezza nei confronti delle cose fotografabili
rispetto al resto del tollerantissimo Senegal. Mai,
comunque, puntare l'obiettivo contro un posto di blocco
militare. Perché potrebbe capitarvi d'immortalare
anche un baldo esponente della Legione Straniera,
e questo fa imbufalire i militari senegalesi ma soprattutto
i francesi che, a rigore, quel tipo di servizio non
dovrebbero farlo.
È meglio non fotografare, in genere,
la gente che dimostra chiaramente di non gradirlo,
donne velate in zone musulmane, luoghi di culto chiusi
ai non praticanti la religione. Una legge del Kenya
proibisce di fotografare i Maasai,
in pratica è un modo per lucrare copiose mance
alle comitive di turisti. Che in genere vengono utilizzate
dalla comunità per opere d'interesse comune,
per esempio per mantenere la scuola del villaggio,
quindi è un obolo che - vedete voi –
si può anche versare a cuor leggero.
Aggiungo quanto ho scritto di recente
a un utente del Forum che raccontava come, durante
un viaggio in Mali, avesse
trovato difficoltà notevoli nel fotografare
persone. È un'esperienza comune
con la quale chiunque abbia viaggiato in Africa si
è trovato a fare i conti. Non mi avventuro
in spiegazioni di carattere sociologico: certo, in
quei Paesi la povertà
è un dramma reale e quotidiano, "morire
di fame" è tutto fuorché un modo
di dire.
Fotografia di Carlo Macinai in Namibia |
È anche vero che il turismo è visto come
una delle poche occasioni per guadagnare quei pochi
spiccioli che consentiranno, magari, di mettere qualcosa
sotto i denti quel giorno. È verissimo che della
"mole" di denaro spostato dall'industria
delle vacanze solo poche briciole arrivano alle popolazioni
locali. È vero che, se mi trovassi nel giardino di
casa e una comitiva di turisti giapponesi di passaggio
si mettesse a fotografarmi anch'io mi infastidirei.
Fotografia di Carlo Macinai in Namibia |
Insomma, è vero un po' tutto. In quasi trenta
viaggi in Africa sono certamente molte di più
le foto alle quali ho rinunciato
di quelle che ho scattato.
All'inizio con un po' di malumore, lo ammetto, poi,
col passare del tempo, senza che la rinuncia mi pesasse
più di tanto. Ho imparato qualcosa: al di là
di qualsiasi valutazione di carattere "etico",
la foto "rubata" è
qualcosa che, anche quando riesce, non lascia alcuna
soddisfazione. Almeno a me.
Meglio una foto "guadagnata"
dopo aver cercato di comunicare, dopo aver stabilito
fra noi e il soggetto una relazione che non sia costituita
solo dall'obiettivo della reflex, di dieci foto "carpite",
magari con quello sguardo, fra l'offeso e il deluso,
di chi si accorge d'esser stato ritratto a tradimento
e che ti senti sulle spalle anche quando te nei vai,
quasi ti dicesse "anche questo ci portate via...".
Con gli anni ho scoperto che il tele (al di là
del suo aspetto oggettivamente "aggressivo")
trasmette al soggetto un messaggio del tipo "Non
mi fido di te, voglio mantenere le distanze, tutto
quello che m'interessa di te è la tua immagine
da mostrare agli amici".... Sappiamo che molto
spesso non è vero, ma innegabilmente il tele
è, per definizione, l'ottica che ti consente
di "avvicinare" artificialmente ciò
che non puoi o non vuoi avvicinare di persona.
Dunque, il mio suggerimento
è questo: avvicinarsi, presentarsi, stringere
sempre la mano (molti europei danno la sensazione
di rifuggire il contatto fisico, e per popolazioni
che esprimono una forte fisicità nelle relazioni
interpersonali è un messaggio negativo), cercare
di comunicare: le cose che ti piacerebbe sapere
della vita di un abitante di Bamako sono senz'altro
molte, ma sempre meno di quelle che lui vorrebbe sapere
da te. Spesso i turisti - i pochi che "perdono
tempo" a parlare con i residenti locali - sono
l'unico "ponte" fra di loro e un mondo lontano,
sconosciuto e per questo affascinante.
Rotto questo muro, vedrai, il tele non ti servirà
più: scattare la foto sarà un momento,
non il più importante, di un'esperienza
che ricorderete in due. E quando rivedrai la
foto, a mesi di distanza, non sarà solo la
foto di un pescatore o di un pastore, ma l'immagine
di una persona che hai conosciuto, della quale
conosci la storia, e che ti conosce. Ho parecchi ritratti
di africani e africane, nei miei "plasticoni".
Di molti di loro ho anche l'indirizzo, un numero di
telefono, le lettere che ci scriviamo.
Fotografia di Carlo Macinai in Namibia |
Come riferisce Alessandro Fais nel
contributo che segue, la situazione è molto
diversa se ci spostiamo di qualche migliaio di chilometri,
in Giappone:
"I giapponesi sono persone cordiali e spesso
sorridenti e disponibili (fin troppo se ci interessa
coglierle nella loro naturalezza...) ma hanno delle
regole piuttosto ferree che è consigliabile
rispettare per evitare spiacevoli rimproveri da parte
delle onnipresenti guardie. State molto attenti ai
cartelli poiché è sempre ben specificato
dove si può e non si può fotografare
(come all'interno dei templi scintoisti...). Dove
non è presente alcuna indicazione sentitevi
pure liberi di usare il vostro buon senso ricordando
di essere in un paese dalla cultura e dai modi di
fare radicalmente diversi dai propri. Dopo una foto
concessa ringraziare con un Doomo arigatoo ad uno
o più inchini (a sguardo rigorosamente basso)
è sempre benvisto e consigliato".
Fotografia di Alessandro Fais in Giappone |