Dieci domande a Fosco Maraini (etnologo, orientalista,
professore universitario, narratore, fotografo, viaggiatore,
alpinista), con i nostri migliori auguri di buon
compleanno.
Lo scorso 12 novembre, infatti, Fosco Maraini, figura singolarmente
poliedrica nel panorama culturale non solo italiano, ha
compiuto 90 anni.
L'intervista è accompagnata da dodici immagini scelte
nel suo sconfinato archivio fotografico,
che spazia dalla Sicilia al Giappone. Ancora auguri, professore!
La vita di Fosco Maraini sembra un romanzo.
Nato a Firenze nel 1912 dallo scultore Antonio Maraini e
dalla scrittrice Yoi Crosse, bilingue e dalla doppia nazionalità,
Fosco Maraini ha iniziato giovanissimo a "vedere
tanto mondo". Spinto
da grande curiosità e desiderio di avventura, a ventidue
anni s'imbarca sulla nave scuola Amerigo Vespucci come insegnante
d'inglese per i ragazzi dell'Accademia Navale di Livorno
e ha l'occasione di visitare l'Egitto, il Libano, la Siria
e la Turchia.
Nel 1935 sposa Topazia Alliata (da cui avrà le tre
figlie Dacia, futura celebre scrittrice, Yuki e Toni) e
nel 1937 parte per una spedizione
in Tibet, che lo convincerà a dedicarsi alla
ricerca etnologica e allo studio delle culture orientali.
Laureatosi in Scienze Naturali all'Università di
Firenze, si trasferisce con la famiglia
in Giappone dove, in seguito al rifiuto di aderire
alla Repubblica di Salò, viene internato in un campo
di concentramento.
Tornato in Italia alla fine della guerra, riparte per il
Tibet e per altri numerosi viaggi tra i quali quelli che
lo porteranno in Corea, a Gerusalemme e di nuovo in Giappone.
Ai suoi viaggi e agli studi sull'Oriente
Fosco Maraini ha dedicato molti libri (tra cui Segreto
Tibet, Ore giapponesi e Case, amori, universi), alcune
mostre fotografiche e una serie di documentari etnografici
andati però quasi tutti perduti.
Dopo essere stato "a bagno in
mondi completamente diversi" e aver vissuto
a lungo "di qua e di là",
questo elegante e ironico signore anglo-toscano-giapponese
vive ora a Firenze con la moglie Mieko Namiki nella grande
casa di Poggio Imperiale che fu del padre. Qui lavora alla
sistemazione del materiale raccolto nel corso dei suoi viaggi
e delle sue ricerche.
Non so, un essere umano. Ho sempre avuto una certa antipatia
per le definizioni troppo limitate, sia etniche, sia geografiche,
religiose, politiche. Scherzosamente mi definisco Citluvit,
cittadino della Luna in visita di
istruzione sul pianeta Terra.
In visita di istruzione per cercar di capire.
Mi pare che la cosa che più soddisfa, che più
è importante per gli esseri umani, sia capirsi. È
la molla che mi ha spinto fin dall'inizio, perché
ho subito visto che andare in un altro paese è completamente
diverso che leggere di quel paese. Si legge e si resta sempre
imbevuti del posto dove si legge, dell'atmosfera in cui
si legge.
Invece, quando si va, si è a bagno in un mondo completamente
diverso. Sono cittadino della Luna perché è
abbastanza lontana e abbastanza vicina, Marte o Saturno
sarebbero troppo lontani.
La Luna invece è alla
giusta distanza, si vede la Terra, si vedono i continenti.
Guardo alla Terra con grande passione.
Che l'avrà detto come una boutade, per essere originale.
Non credo sia così. Io ho viaggiato
molto, soprattutto in Tibet, il primo amore, il primo
contatto, e poi in Giappone. E ho fotografato
molto.
In Tibet fotografavo in bianco e nero;
all'epoca non c'era ancora il colore, cominciava appena.
In Giappone ho fotografato a colori. A me piacciono molto
le belle immagini conoscitive,
che rivelano qualcosa. Il linguaggio fotografico e il linguaggio
della scrittura sono diversi, ma sono due modi
complementari che si integrano per captare la realtà.
Il fine è lo stesso: cercare di cogliere
l'animo di un posto, di una persona, di una cerimonia,
di un evento, tanto più e meglio se le immagini sono
carpite nel momento di ciò che io chiamo empresente.
L'empresente è il momento che
viviamo, è il presente che emerge e che si
srotola nel futuro, cioè proprio adesso. È
una questione fisica, è l'attimo che fugge, diverso
dal presente filosofico, ed è caratterizzato dal
fatto che non sappiamo cosa succederà anche fra cinque
minuti. Il futuro ci è totalmente sconosciuto, il
giornale di domani non può esistere prima.
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Mah, non direi. Semmai mi pare che oggi diventa sempre più
difficile, ma in passato in certi casi viaggiare era anche
spostarsi nel tempo oltre che nello
spazio.
Se si visitavano, che so io, i Piaroa del Venezuela si poteva
tornare indietro nel tempo di diecimila anni.
Certo, è la comprensione della diversità.
Questo è il punto fondamentale. Moltissimo dipende
dall'imparare o no la lingua di
un'altra civiltà, che per me è una cosa fondamentale
perché non si imparano solo termini, ma modi di pensare,
un'altra ricostruzione dell'universo. È
però difficile imparare una lingua straniera;
se ne possono imparare una o due, non di più.
Ciò che dice mi fa pensare alla
questione del tempo che si ha a disposizione o che comunque
ci si dà, discriminante fondamentale quando si va
in giro per il mondo, anche per chi vuole fotografare per
esempio.
Ci sono persone che anche non avendo vissuto di là
per anni, ci vanno decine di volte. In questi casi si può
parlare di approfondimento. Dovunque
si sia, se si svolazza di qua e di là ho paura che
non si riesca a entrare nel posto. L'importante è
approfondire.
Di prendersi del tempo, di fare delle
scelte. A un certo momento bisogna decidere
cosa si vuole fare nella vita. Se uno vuol fare il dirigente
d'azienda e si prende quindici giorni e se ne va in Nepal
è una cosa. Se invece vuoi veramente andare a fondo,
puoi fare altre cose; in genere la via migliore è
la lingua e allora diventi indianista o islamista e fai
la carriera universitaria in quel ramo.
È una questione di velocità, di tempo. Per
approfondire è comunque importante riuscire a esprimersi
nella lingua locale. Diventa tutta un'altra cosa. È
come far l'amore vestiti o far l'amore spogliati. È
un contatto intimo, il vero contatto.
Per approfondire si dovrebbe cercare di polarizzarsi su
un paese, un'area geografica, soprattutto un'area culturale:
la Cina, per esempio, o l'India, anche se è forse
troppo vasta, un continente: c'è il mondo indoeuropeo
del nord e quello tamilico del sud, che sono veramente come
nord e sud d'Europa.
Forse quello tibetano del '37. Nel Tibet di oggi, con tutto
il male che si può pensare della situazione, ci sono
strade, veicoli, negozi. Allora era veramente un
tuffo nel medioevo. Quando si lasciava Gantok, ai
confini dell'India, si diceva addio alla civiltà
e al mondo per sei mesi. Potevano essere scoppiate dieci
guerre, non l'avremmo saputo; era affascinante quel tuffo
nel nulla.
Anche per fotografare era diverso. A quei tempi non esisteva
il lampo elettronico, il flash. Si usava la polvere
di magnesio conservata in barattolo. Si versava su una specie
di piastrina, che aveva una pietra focaia che si comandava
con un dito, si accendeva e bruciando faceva luce
al cospetto di lama e monaci tibetani. Il lampo di magnesio
era un procedimento molto incerto, difficile.
Stavo con il terrore di tornare in Italia dopo sei mesi
con tutto il materiale sovraesposto o sottoesposto, perciò
mi ero portato tutti gli acidi necessari per sviluppare
sul posto le pellicole. E l'ho fatto rubando le ore al sonno,
perché si viaggiava sempre e poi la sera dovevo cercare
una stanza per sviluppare le pellicole.
Certe volte le ho dovute rifare. Le mie prime esperienze
in montagna sono state nelle Dolomiti
e nelle Alpi Occidentali. Poi
ci sono state le spedizioni in Asia, nella catena del Karakorum
e nell'Hindu-Kush, alla frontiera
tra Pakistan e Afghanistan.
Il senso dell'immensità,
la grandezza smisurata. Per
me il ghiacciao del Baltoro,
nel Karakorum, è come un'opera di arte; io lo chiamo
gli "Uffizi della montagna",
ogni giorno si scopriva un nuovo capolavoro.
E poi il Payu, il Gasherbrum,
il K2, architetture che ricordavano
cattedrali, una cosa fenomenale.
La montagna è più varia
del mare. Le montagne sono oggetti
tridimensionali, diverse una dall'altra, ognuna ha
una personalità sua.
Il mare, invece, ha elementi di continuità; le sue
tempeste sono simili, nell'Atlantico come nel Pacifico.
Ricordo con piacere anche il viaggio in motocicletta
in Sicilia per andare a trovare Topazia. Allora era veramente
un'impresa epica: ci volevano tre giorni e da Salerno in
poi erano solo strade sterrate. Ricordo anche il viaggio
in nave fino a Shanghai, quaranta
giorni di traversata lunga e lenta, a volte anche noiosa.
Ma si vedeva tanto mondo, costumi, odori e cieli diversi,
l'Egitto, Bombay, Colombo, Manila.
Naturalmente la lentezza di un tempo
era migliore perché si approfondiva. I quaranta giorni
in nave verso il Giappone furono quaranta giorni di contatti
prima con l'India, poi con l'Asia del sud-est, poi con le
Filippine e la Cina, insomma si faceva un vero corso di
asiologia. Tra i due sistemi, l'antico
- non c'è dubbio - era migliore. Siamo sempre legati
al fattore tempo, ma ancora oggi si può trovare il
modo di attraversare l'Asia a piedi o in bicicletta.
Tutto è ancora possibile.