Un viaggio in Etiopia, da outsider a tempo determinato. Oltre 3200 km nell'Etiopia tribale, lungo il corso del fiume Omo. Un libro, delle foto. Ricostruzioni storiche e analisi antropologiche, raffronti tra quanto descritto nella spedizione di fine Ottocento di Vittorio Bòttego e la realtà attuale delle tribù incontrate, l'arretratezza economica e i contrasti etnici tuttora esistenti, il passaggio dalle lance al Kalashnikov, la descrizione dei turisti occidentali, citazioni colte (da Lévi-Strauss a Cartier-Bresson, da Baudelaire a Kapuściński). Tutto questo contiene Etiopia. Saggio di un outsider a tempo determinato (Mimesis, pp.316, euro 24) scritto da Massimo Rossi e accompagnato dalle immagini dello stesso Rossi e di David Marciano. Di seguito, proponiamo alcuni estratti dal testo di Massimo Rossi e una doppia galleria di immagini.
Su viaggio e percorso
Nessuno di noi sembrava essere affetto da la grande maladie de l'horreur du domicile di Baudelaire, ma ad ognuno era stata offerta l'occasione di visitare culture altre. A noi ora la prova: riuscire a godere della terra raggiunta e dei suoi paesaggi umani, percorrerne solchi già tracciati da altri, non consumarla soltanto lasciandovi i detriti del nostro mondo occidentale. Sapevamo che saremmo stati sempre considerati stranieri, che per poter arrivare a comprendere altre culture dovevamo tentare di sospendere l'assenso alla nostra matrice culturale, giungere a distaccarcene. Ma sapevamo anche, molto realisticamente, che non è semplice né scontato farlo e che il tempo per riuscirvi era poco. Eravamo outsiders a tempo determinato.
© Massimo Rossi
Sui farenji
Sentiamo i bambini comunque festosi, forse per la stranezza delle persone o forse perché lo sarebbero stati comunque, chiamare farenji anche i giapponesi. Ma non era una definizione riservata agli uomini bianchi? Poi gli altri farenji di un altro colore salgono sulle loro jeep che si apprestano a tornare verso Tum, da dove stiamo salendo noi. Non rispondono al nostro saluto amichevole di turisti che si incontrano in luoghi difficili da raggiungere e ci chiediamo perché siano venuti sin qui, dentro la loro "bolla ambientale", in uno zapping tra villaggi e scene diverse. Dentro la bolla – quel microambiente protettivo formato da abitudini, riti e protezioni dal mondo esterno – non ci siamo noi, gli original farenji, e tra noi tutti abitanti del fuori si scatena un contatto allegro, pieno di saluti e sorrisi, di bambini che corrono ovunque e stavolta gridano farenjiii con un tono sicuro. Senza alcuna esitazione.
© David Marciano
Sulla fotografia
È il nostro primo incontro con i Suri. Chiediamo a Milion se può spiegare loro che vorremmo poter fare alcune fotografie e da loro arriva, aspettata, la richiesta di pagamento. Nessuno si scandalizza. Nessuno si scandalizzi. È ben lontana da noi l'idea di trasformarli in oggetti considerandoli "primitivi", così come è ben chiara nei Suri (come nelle altre popolazioni abituate al passaggio più o meno rapido dei turisti) l'idea di possedere qualcosa che è desiderato e quindi ritengono sia giusto che l'Homo turisticus paghi per averlo. Anche perché ne ha certo le possibilità. In fondo, provando a spogliarci dei nostri panni, soprattutto mentali, lo riteniamo giusto anche noi. Il tempo di un incontro avvenuto per caso, unito ad una lingua sconosciuta, non consente certo l'approfondire di conoscenze che potrebbero far assumere alle fotografie altri significati.
© Massimo Rossi
Alain De Botton, riferendosi al pensiero dello scrittore, pittore e poeta John Ruskin (Londra 1819-1900), scrive: [...] ad ogni clic dell'otturatore sentiamo scemare l'ansia di perdere per sempre una scena preziosa. [...] La tecnologia può mettere la bellezza alla portata degli uomini, ma non semplifica affatto il processo che ci porta ad apprezzarla e possederla [...] L'entusiasmo di Ruskin scemò quando si accorse della diabolica conseguenza in cui incorreva la maggior parte di coloro che scattavano foto. Anziché usare la fotografia come supplemento alla vista attiva e consapevole, infatti, essi la usavano come alternativa, finendo così, in virtù della fede nel possesso della bellezza garantito dalla tecnica, per prestare ancora meno attenzione al mondo di quanto avessero fatto in precedenza. [...] La macchina fotografica confonde la differenza che c'è tra vedere e notare, tra vedere e possedere, e se da un lato è un ineguagliabile strumento di conoscenza, dall'altro rischia, per assurdo, di far apparire superfluo lo sforzo di acquisizione della conoscenza stessa. La macchina fotografica infatti ci porta a credere di aver fatto il nostro lavoro con un semplice clic, mentre per cibarci davvero di un luogo, per esempio un terreno boscoso, dobbiamo porci domande quali «In che modo steli e fusto sono collegati alle radici?», «Da dove viene la foschia?», «Perché un albero sembra più scuro di un altro?».
© David Marciano
Concetti espressi nel secolo scorso ma tutt'ora validi. La velocità di esecuzione concessa dalle macchine fotografiche di ultima generazione, a confronto con quelle di Ruskiniana memoria (metà dell'800), forse lascia ancora meno tempo per farsi domande su chi e cosa fotografiamo. Aime cita l'etnologo francese Marc Augé: "Nel fotografare e produrre immagini i turisti proclamano la loro adesione ad un mondo dominato dalla televisione [...]. Il turista che fotografa o filma aliena gli altri e aliena se stesso" e mette in evidenza come oggettivando gli altri il turista oggettivi se stesso. Difficile accettare questo punto di vista (giochiamo in difesa?). Per molti di noi la foto è il ricordo legato al momento ed all'incontro, o, come dice Henri Cartier-Bresson: "Ero lì, ed ecco la vita così come l'ho vista in quell'istante". A noi stare attenti, quindi, a non perdere la storia e la bellezza che è intorno ad ogni foto, cercando di capirla per mezzo della consapevolezza dei fattori (psicologici e visivi) che concorrono a crearla, domandandoci il significato dello sguardo ritratto così come Ruskin si chiedeva "in che modo steli e fusto sono collegati alle radici". Compito difficile, ma credo di condividere con i miei compagni di viaggio, oltre alla buona attrezzatura fotografica, una altrettanto buona attrezzatura mentale.
© Massimo Rossi
Tipologia del viaggio
La scelta, fatta a suo tempo da ognuno di noi, è stata quella di un viaggio improntato alla condivisione ed alla ricerca di alterità, che avrebbero compreso anche quelle dei componenti di quella piccola tribù in transito rappresentata dal gruppo stesso. Il contenuto del saggio antropologico di Aime portato con me e le discussioni derivanti, ci hanno reso consci del rischio, palpabile, legato alla spersonalizzazione, mentre non siamo stati concordi su quanto una visione antropologica, usata come riferimento per interpretare gli incontri, avrebbe potuto falsarli. Geertz descrive la visione dell'antropologo come di "secondo grado", cioè soggettiva ed influenzata dalla propria preparazione, cultura e sensibilità. Anche Wittgenstein scrive: "già al momento dell'esposizione dei fatti veri e propri [...] noi stiamo già dando spiegazioni: e quel che è peggio, spiegazioni di spiegazioni". Sulla base di quanto dicono i due autori, l'uso di un testo come riferimento, poteva fuorviare le nostre osservazioni?
© David Marciano
Un aspetto del turismo
La presenza dei turisti serve ai Mursi solo per integrare i guadagni derivanti dalla attività agro-pastorale, soldi considerati "facili", da impiegare poi per acquistare gli AK-47 di rimanenza sudanese che utilizzeranno nelle faide con le altre tribù o come pura ostentazione di potere. È un aspetto del turismo che non mi piace. Il turismo credo debba essere una buona occasione perché siano migliorate le condizioni socio-economiche delle popolazioni oggetto di visita, perché si migliorino le strade esistenti, si costruiscano scuole ed ospedali. Abbiamo assistito ad una mercificazione culturale umiliante per noi e per loro, e ci sentiamo corresponsabili per le nostre brevi soste che non creano interrelazione ma la conseguente distruzione di una memoria culturale. O questa è l'evoluzione e la mia è solo una visione eurocentrica? Come saranno i Mursi nel retroscena, nel loro villaggio non di cartapesta, non destinato alla rappresentazione? Questo viaggio continua a far sgorgare domande mentre è avaro di risposte. Di certo oggi siamo stati (ci hanno reso?) più turisti che visitatori. Chissà se tutto è accaduto perchè i Mursi tendono ad esaltare l'immagine diffusa di selvaggi per rispondere alle immagini create da altri (nel passa parola tra turisti si legge che sono – devono essere? – selvaggi, duri, armati, intrattabili). Il loro dimostrarsi accoglienti potrebbe esporli al rischio di una flessione nelle visite degli avventurieri che sfidano il rischio per poterlo raccontare ai nipotini che fanno ooh...? Difficile avere una risposta: o sono davvero duri ed intrattabili o sono attenti al business. Forse questa è davvero evoluzione, un pessimo (inevitabile) aspetto. E da quando è iniziato il nostro viaggio è la prima impressione negativa che ricevo.
© Massimo Rossi
Concetto del "tempo"
Poi, entro poco, abbiamo lasciato che la nostra mente tecnologica si trasformasse in più naturale, basata su altri ritmi (a dormire con il buio, svegli con l'alba, ritmo del fiume) dato che il tempo percepito qui, il senso della durata, appariva ora come soggettivo perché si era adeguato rapidamente a delle consuetudini. Ci eravamo spostati in un area dove il tempo, come dice Cantoni, è "il riflesso del sentimento che vive l'avvenimento che in esso si svolge", come il passare delle stagioni, il lavoro, le piene del fiume, la navigazione, la cadenza dei mercati. Riferimento, quest'ultimo, sul quale si orientano le attività in questa parte d'Etiopia e definito "un esempio di strutturazione del tempo secondo ritmi di natura sociale". Un tempo qualitativo quindi, che con il proseguo della globalizzazione, delle strade cinesi, del turismo, ed il conseguente venir meno dell'isolamento residuo delle popolazioni, diventerà quantitativo e dominante, astratto e frazionabile, e non ci spiazzerà più, destinato a cancellare quella naturalità nella quale stranamente anche noi menti tecnologiche ci stavamo perdendo senza timore.
© David Marciano
Chi sono
Massimo Rossi (Lucca, 1957) ha compiuto viaggi in solitaria e realizzato progetti sanitari avanzati all'interno della foresta amazzonica, tra Brasile, Perù e Bolivia. Nel 2000 pubblica con successo il suo primo libro, Pioggiafangomerdasoleblues, un'Amazzonia senza Sting, dove racconta la sua permanenza nella miseria e nelle contraddizioni di quelle terre, mentre suoi racconti sono stati pubblicati su silloge (es. Il filo della dorsale, 40 racconti sull'identità, 2007). Un presente di coordinatore nel progetto europeo Ospedali Interculturali dell'Health Promoting Hospitals e di viaggiatore – recenti i suoi percorsi in Tibet, Patagonia, Etiopia, Nord Africa, dove ha contribuito anche in qualità di fotografo con reportage sui paesi visitati – affascinato dalla conoscenza di culture altre nella loro fase evolutiva, dalle loro forme simboliche e strutture societarie.
David Marciano nasce nel 1971 in un paese della provincia pisana, dove tutt'oggi vive e lavora. Incomincia a interessarsi alla fotografia, nei primi anni Novanta, quando prima della partenza per una breve vacanza, acquista la sua prima reflex. Da allora viaggio e fotografia andranno di pari passo. Autodidatta, attento e curioso, si interessa da subito alla fotografia in bianco nero, curando sia lo sviluppo che la stampa. Stessa passione che oggi dedica alla fotografia digitale. Marciano è iscritto al "Photoclub 5", uno dei circoli più conosciuti della provincia di Pisa. Tutte le sue fotografie sono legate ai suoi viaggi, che spesso fa insieme ad organizzazioni umanitarie, con cui collabora. www.davidmarcianophoto.it
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