La Fondazione Giov-Anna Piras approfondisce il percorso a ritroso nella storia della fotografia del XX secolo per esplorarne peculiarità, incertezze e grandiosità - prima ospitando nelle sale espositive del Fondo ad Asti, poi proseguendo con un percorso itinerante in Italia - una grande retrospettiva dal titolo 99 Click+1. Novantanove (+ uno!) capolavori di fotografia moderna che hanno segnato il percorso di evoluzione storico-artistica della fotografia del XX secolo, concorrendo a suggellare l'ingresso a pieno titolo del nuovo media nel novero delle tecniche espressive tradizionali. Fotografie di prestigio internazionale, tra le più famose e riprodotte a livello planetario: dallo scatto "verista" d'oltre oceano Alabama 1938 di Walker Evans, il mitico Bacio all'Hôtel de Ville (1950) di Robert Doisneau, una delle foto più riprodotte degli ultimi sessant'anni, i Funerali di Gandhi (1948) di Henry Cartier-Bresson, l'inquietante Gemelle di Diane Arbus o ancora uno dei celebri lavori in distorsione allo specchio di André Kertész. C'è anche la Migration Mother, Nipomo California del 1936 di Dorothea Lange, testimonianza documentaria sul trionfo dell'istinto di sopravvivenza umano filtrato dalla sensibilità psicanalitica dell'autrice.
Dorothea Lange, Migrant Mother, 1936, Gelatin silver print
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Di seguito, Sguardi propone ampi estratti dal testo critico elaborato da Giuseppe Pinna nell'occasione: «99 click +1: una raccolta, una storia, un'idea della fotografia. Una raccolta - per quanto è possibile conoscere, nel mondo, ancora un po' clandestino, del collezionismo fotografico nazionale - fra le massime in Italia, di respiro museale come forse nessun'altra, con opere notissime, anche ai non specialisti, di molti dei maestri internazionali più acclamati. Una raccolta proposta, nell'occasione, in una selezione storica essenziale, quasi simbolica, dettata dalle scelte personali di chi l'ha collezionata, comunque ridottissima rispetto al complesso delle disponibilità, in particolare nel settore contemporaneo.
Una storia, una delle possibili. Di un collezionista, innanzitutto, imprenditore, artista, uomo dalle molteplici, travolgenti passioni intellettuali, un bon vivant dalla sincera vocazione altruistica; del gruppo e della struttura che l'ha sostenuto; di come ha confrontato, da oltre trent'anni a questa parte, di circostanza in circostanza, la propria storia personale, emotiva, culturale, intellettuale, con quella "grande", di riferimento collettivo. Una storia di storie, perché ogni fotografia ne ha una diversa, e ne genera di diverse negli altri, rinnovandole continuamente. Una storia che rimane, dunque, aperta a nuovi sviluppi, nuovi discorsi, nuovi possibili contributi. Un'idea, una delle possibili; estetica, certamente, ma anche sociale, culturale, testimoniale, sentimentale, secondo i differenti modi con cui gli uomini, fino ai nostri giorni, si sono messi in relazione con le singole fotografie, prima ancora che con la Fotografia, determinandone i diversi sensi. Imbastiti su altri sensi, quelli che propongono le regole del gioco, tutt'altro che scontate, sulle quali non è mai inutile ritornare. Quasi tutte le fotografie citate nel testo che segue sono comprese nella selezione 99 click+1.
Si spera di affermare un'ovvietà, ma se le fotografie ci intrigano, subdole, e ci seducono, comprese le tante, nella formidabile selezione di 99 click +1, che sono state concepite per finalità eminentemente estetiche, dai Telephone Poles di Paul Strand al nudo di Bill Brandt, la cui "produzione lirica di senso" è oggetto di una specifica lettura da parte di Floch, dalle distorsioni naif di André Kertész ai balconi costruttivisticamente inquadrati di Alexander Rodchenko, dalle agricolture informali di Giacomelli all'atleta pompeiano di Jodice, dalla natura espressionista di Minor White a quella romantica di Ansel Adams, tanto per dire delle prime immagini che mi capitano sotto gli occhi, non è certo perché si è convenuto di attribuire loro il valore aggiunto, facoltativo, di espressioni artistiche. Semmai, quel valore traspone l'intrigo e la seduzione su un piano diverso, quello estetico, che, abusando un po' delle parole, li anestetizza, convertendoli rapidamente, senza farsi troppe domande, alle ritualità che la mistica dell'arte - perché tale è rimasta, anche in un'epoca di arrembante commercializzazione dell'Artworlde di estetizzazione di massa come l'attuale - comporta.
Diane Arbus, Teenage couple on Hudson Street, New York, 1963, Gelatin silver print
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Quando consideriamo una fotografia secondo un metro esclusivamente estetico, ci comportiamo in un modo non troppo diverso da chi assume un atteggiamento religioso di fronte al fenomeno, ormai in buona parte codificato, delle guarigioni spontanee. Giustifichiamo l'evento secondo motivazioni che lo scavalcano, proiettandoci verso altro, ritenuto, evidentemente, di entità superiore rispetto all'evento in-sé-e-per-sé. Saltiamo a piè-pari, per non capire, o, forse, perché crediamo che capire possa compromettere il fascino del gioco, il "mistero" del non-capito. Possiamo obiettare sulla razionalità di certe disposizioni, non sul loro diritto di esistere, ampiamente legittimato dalla loro presenza, pressoché costante, nel corso della storia dell'uomo. In fondo, la funzione primaria dell'arte, nobilissima, è quella di renderci il mondo più gradevole, comunque lo faccia, cosa che solo in particolari, estreme condizioni potrebbe apparirci inaccettabile. Così come la religione fornisce risposte consolanti, per chi si faccia consolare, all'eterna ingiustizia di male-dolore-morte. Illudersi è pur sempre una forma d'ottimismo, diceva qualcuno.
Se non sono necessariamente arte, allora le fotografie sono documento. È quanto dicono, in particolare, quelli che "la fotografia è verità", "oggettività", "informazione", esponenti di un fronte che, in divergenza da quello della "fotografia è arte", potrebbe essere considerato "non-estetico", se non lo si ritrovasse, regolarmente, a celebrare le opinioni e le iniziative fotografiche che estetizzano il quoziente informativo. Anche qui, bisogna andarci cauti, senza farsi prendere la mano da riduzioni che ci farebbero crogiolare in altri, facili luoghi comuni, favorendo un'imprudente religione del documento fotografico.
La fotografia è un documento molto particolare, per nulla soggetto, come alla regina degli inganni piacerebbe far credere, a comprensioni automatiche. Fa specie notare quanto, di ciò, abbiano una coscienza precaria anche coloro che per mestiere si trovano a studiare documenti fotografici, compresi coloro che hanno dedicato all'argomento riflessioni di tipo metodologico. Pensiamo, per esempio, al modo in cui certe immagini, tipiche soprattutto della fotografia giornalistica, vengono interpretate come documenti impareggiabili non solo di cronaca, oggi di storia, ma, in senso più lato, di "vita vera". Nella selezione di 99 click +1, possiamo individuare diverse fotografie di questo genere, alcune celeberrime: il bacio della Parata del V-J Day di Alfred Eisenstaedt, quello de l'Hôtel de Ville di Robert Doisneau, Gli italiani si voltano di Mario De Biasi, con la maggiorata Moira Orfei, allora appena maggiorenne, a solleticare uno dei pochi costumi che erano in grado far sentire Nord, Centro e Sud un'unica nazione, il gallismo "stradale", come già si era accorta la turista Ruth Orkin, seguendo, a Firenze, un'American Girl in Italy (1951); e ancora, il newyorkese "Revolver Boy" di William Klein, le straordinarie immagini speculari di Franco Pinna e Luciano Mellace, l'uno mentre riprende l'altro nel pieno di una carica di celerini, il secondo su uno scooter guidato dall'esordiente Tazio Secchiaroli; il quale Secchiaroli, fattosi forte anche di quella precoce esperienza di blitz, sarebbe poi diventato demiurgo di un fenomeno fotografico di enorme interesse, il "paparazzismo", proprio nei termini, plateali, in cui Elio Sorci lo riprende mentre provoca l'amico Walter Chiari, evitando il suo gigionesco scatto d'ira.
Elliott Erwitt, Segregated water fountains, North Carolina, 1950, Gelatin silver print
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Sono fotografie che, in diversa maniera da caso a caso, secondo intenti che possono essere anche molto diversi fra fotografo e fotografo, e fra modo e modo d'interpretare la fotografia, anche professionalmente, fanno comunque leva, in maniera determinante, sull'elemento dell'istante, base temporale della poetica fotografica più caratteristica del Novecento, il decisive moment di Henry Cartier-Bresson. Poetica espressa à la sauvette non solo con immagini esemplari, ma anche con suggestive istantanee aforistiche ("fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere"; "… è trattenere il respiro per captare la realtà che fugge: una gioia fisica e intellettuale", e così via), dal piglio involontariamente santonesco (inizialmente, erano estratti di un'intervista radiofonica), che diventano Buona Novella non solo per una nuova generazione di fotografi (fra i quali Enzo Sellerio, presente nella selezione 99 click+1, uno dei primi italiani, con Caio Garrubba, a sposare i dettami di Cartier-Bresson, verificandone l'estrema versatilità alle diverse situazioni locali), ma, ancora più significativamente, per tutto un ambito di non-addetti-ai-lavori che aveva avuto difficoltà, fino a quel momento, a riconoscere nel photographicon una specificità estetica originale.
A questo ambito, determinante nelle sorti dell'intero movimento fotografico, Cartier-Bresson mette a disposizione una concezione anti-intellettualistica eanti-tecnicista della fotografia, "fisicizzata", emancipata dagli studi professionali e dai circoli surrealisti in favore del reportage e del plein air della vita vissuta ("la fotografia non ha bisogno di testa, bastano un dito, un occhio e due gambe"), per favorire la disposizione dell'apparecchio, le maître de l'instant, "lo strumento dell'intuito e della spontaneità", a farsi maieuta di una maniera inedita di avvertire visivamente il mondo, dalle non-celate valenze liriche, frutto della perfetta sintesi intuitiva di ragione, percezione e sentimento (mente-occhi-cuore).
La conversione umanistica della macchina è il leitmotiv del discorso di Cartier-Bresson. In apparenza, Cartier-Bresson sembra concedere molto alla "logica" dell'apparecchio, ai suoi automatismi, alla casualità post-surrealista di certe sue rivelazioni, immuni da volontà umane, nell'intenzione di individuare una forma espressiva totalmente diversa da quelle che il soggettivismo dell'arte moderna aveva concepito fino a quel momento, con la kunstwollen individuale, interiorizzata, che riduce al minimo la sua incidenza.
Mario Giacomelli, dalla serie “Presa di coscienza sulla natura”, 1964, Gelatin silver print
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In realtà, il controllo dell'umano sull'apparecchio non viene mai perso di vista da Cartier-Bresson, neanche per un istante. Perché è all'umano, e solo all'umano, alla mente in primo luogo, maître della comprensione del contesto complessivo, fisico-culturale-emotivo, in cui la ripresa viene eseguita, educata all'organisation rigoureuse de formes, che spetta il compito, primario, di signifier le fotografie, tanto nell'a-priori della loro intuizione, condensato nel vitalistico frisson del "momento decisivo", quanto nell'a-posteriori della loro elaborazione, materiale (come la maggior parte dei suoi colleghi, Cartier-Bresson operava la selezione delle riprese eseguite, stabilendo, eventualmente, attraverso tecniche come il recadrage, i nuovi loro testi, in previsione del passaggio alla fase della stampa) e intellettuale (tutto l'ambito inerente all'interpretazione). D'altronde, anche l'individuazione dell'istante come nuova frontiera della sensibilità visuale, capace di catturare distillati di "vita vissuta" per trasformarli in epifanie di più ampia portata, non solo estetica, è essa stessa un signifier che converte l'endemica "disumanità" della frazione di secondo, percepibile e fissabile da un apparecchio, non dal nostro occhio. La stessa disumanità che, invertita, nel soggetto in movimento, dall'esposizione breve alla lunga, è avvertibile nella famosa Delage dell'adolescente Lartigue, ripresa al Grand Prix de France del 1912.
A Cartier-Bresson, però, non dispiaceva far credere che il suo modo di vivere l'atto fotografico fosse quanto di più naturale e spontaneo potesse esistere, "come-se-l'uomo-fosse-macchina-e-la-macchina-uomo", al punto da dissimulare la centralità del signifier, quando conferiva, nel rapporto con il mezzo, un peso eccessivo a vantaggio del fattore tecnico-intellettuale. Cosa che ha favorito, insieme alla diffusione universale del suo metodo, anche una certa sua retorica, "veristica" e "istintivista", dall'idealismo romanticamente ingenuo, semplicizzante, e non sempre in maniera disinteressata, nei confronti dei meccanismi di base del signifier fotografico.
Per esempio: la "realtà che fugge", presupposto su cui Cartier-Bresson non ha personale interesse a porsi troppe domande, fino a che punto è davvero tale? Vediamola nell'istante, quanto mai vitale, del Baiser di Doisneau, icona della Parigi anni Cinquanta, del romanticisme existentialiste alla Prévert, della cosiddetta fotografia "umanista", oggi anche di una certa immagine del turismo parigino, visto che è riprodotta all'infinito nelle cartoline dei negozi di souvenirs. Chi ci è rimasto male quando si è saputo che la posa dei due baciatori, tutta mente-occhi-cuore, è stata combinata, su richiesta di Doisneau? Non ve ne sarebbe motivo. Due anni prima, dopo paziente appostamento dietro la vetrina di un gallerista, Doisneau era riuscito a pescare, da una serie in precoce candid camera, il jolly del Regard oblique: una vignetta umoristica da petit journal, di piccola-grande arguzia borghese, de rue, come piaceva ai longanesiani-pannunziani-flaianiani di casa nostra, ma troppo faticoso da replicare per poter pensare di fondare una carriera su certi colpi di fortuna. Doisneau, allora, deve essersi industriato, decidendo di aiutare il par hasard con un po' di ingegno creativo.
Robert Doisneau, Le baiser de l'Hotel de Ville, Paris 1950, Gelatin silver print
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Così, et voilà, ecco la posa combinata del Baiser. Cosa cambia nel sapere che non è spontanea, che quel momento è stato decisivo non nel catturare la realtà che fugge, ma nel farla scappare definitivamente, sostituendola con un'ingannevole finzione? Cosa cambia, rispetto al Regard oblique, o anche alle fotografie di Pinna e Mellace, che, fino-a-prova-contraria, sono le uniche, del gruppo "istantaneo" precedente, a non essere sospettabili, miracolosamente, di essere combinate?
Cosa cambia sapere se il miliziano di Capa sia morto davvero, dopo la ripresa? Solo la fiducia, mal riposta, sulla fotografia come strumento di una verità - per gli usi che qui se ne fanno, la si intende in una generica accezione di "corrispondenza del reale" - incondizionata, e su chi ci ha fatto credere che potesse esserlo. Troppo facile barare con le fotografie. Troppo facile sfuggire alle verifiche, scavalcandole con la - presunta - evidenza inconfutabile non di ciò che effettivamente si vede, ciò di cui possiamo essere, realmente, informati (un uomo e una donna con le bocche accostate, per strada, a Parigi, vicino all'Hôtel de Ville; un fuciliere che scivola da una collinetta, a braccia aperte, gettando l'arma sulla sua destra), ma della loro "trascrizione" comunemente accettata. Trascrizioni che non sono tanto interessate a letteralizzare fedelmente il visibile, quanto a canalizzarne la percezione, fornire istruzioni per il suo uso, anzi, l'uso già istruito: è ciò che ti dicono si debba vedere, di cui devi essere informato, che deve essere simboleggiato (il Bacio, il Miliziano morente)».