© Sandro Becchetti - Ingrid Thulin
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Protagonisti, Storie di ritratti in bianco e nero (Postcart, pp. 240, formato 24x32 cm, euro 45) è un viaggio attraverso la storia della cultura e dello spettacolo degli ultimi decenni con lo sguardo di Sandro Becchetti, fotoreporter romano dagli Anni Sessanta, che con la sua piccola Leica ha fermato sguardi, movimenti, ambientazioni, tracce della vita complessa e unica di quei testimoni speciali diventati protagonisti della nostra epoca.
Immagini e racconti, una sorta di autobiografia, un viaggio fotografico scandito dai volti più o meno celebri di quei protagonisti che Becchetti ha ritratto in oltre quaranta anni di lavoro segnato da una passione spesso conflittuale per un mestiere, quello del fotografo, capace di sintetizzare in uno scatto menzogna e verità. Come quando, all'inizio del libro, racconta di uno sconosciuto fotografo polacco incontrato a Jaffa, fotografo a Wraclaw negli anni '30, che in posa contro il muro gli disse: «Mio padre era un cabalista dilettante. Per me la Leica è stata quello che per mio padre fu l'alfabeto: ogni lettera conteneva il cuore di tutte le parole. Ogni immagine contiene il principio di tutte le immagini possibili». Come suggerito dalle parole dello sconosciuto fotografo polacco, anche per Becchetti la fotografia racchiude in sé "l'inganno del vero". «Questa per me è stata la fotografia: la menzogna, una componente essenziale della verità. Le mie macchine fotografiche contenevano - per me, intendo dire - tutte le immagini possibili, ma come le platoniche ombre contenevano anche il loro contrario».
Ritratti di personaggi celebri (Federico Fellini, Alfred Hitchcock, François Truffaut, Joseph Beuys, Gunther Grass, Pier Paolo Pasolini, Ornella Vanoni, Claudia Cardinale, Dustin Hoffman, Amos Oz), ricordi personali, aneddoti, riflessioni sul senso del proprio lavoro. «Per quanto riguarda la fotografia, questo modo di sentire significa vivere arbitrariamente di ricordi, accumulati come realtà che il successivo tempo si incarica di smentire» - dice Becchetti - ed è per questo che il ritratto di Alfonso Gatto non è più soltanto quello di un poeta dagli occhi "degni di Elizabeth Taylor" ma diventa la memoria di momento condiviso. O che una lezione di poesia di Andrea Zanzotto al Teatro Argentina diventi occasione per una riflessione ironica sul mestiere del fotoreporter.
© Sandro Becchetti
François Truffaut
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© Sandro Becchetti
Pierpaolo Pasolini
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Tra un ritratto e l'altro, un ricordo e una digressione, Becchetti rivela un rapporto spesso conflittuale con il proprio mestiere, scelto, abbandonato, poi ripreso: «Quando iniziai questo mestiere, nella seconda metà degli anni '60, io non avevo il mito del "Fotografo". Non mi ero neanche mai posto la domanda: la fotografia è un'arte? Penso solo, in proposito, che avendo avuto la possibilità di acquistare in due rate una vecchia Retina, ad un certo punto trovai più interessante fotografare gli uomini che i monumenti romani. Gli anni in cui - dopo la Retina, una Contax regalata e, infine le due Asahi Pentax che ancora ho - lavorai, rappresentano, nel bene e nel male, uno dei periodi più interessanti della nostra storia. Nel profondo cessai di essere fotografo ai funerali di Piazza Fontana perché, nella sequela degli orrori che continuarono, la consapevolezza di non riuscire a spostare di un'acca la paura e l'indifferenza, l'assuefazione a conciliare cibo e sangue davanti al televisore, mi diedero netta l'impressione che nella società italiana il potere (chi, quale?) stesse sperimentando un'operazione genetica. La creazione di uno scadente materiale umano, refrattario a progetti che non fossero confinabili fra gli occhi e lo stomaco. Diventai ritrattista, anche bravo, a detta di molti. A mio giudizio, mediocre, proprio per la mediocrità dell'inganno: un clic non condenserà mai una vita e spesso (salvo rare eccezioni) i segni di una faccia dissimulano più che rivelare. Poi, nel lontano 1980, tagliai ogni rapporto con la fotografia, e, soprattutto, con il mondo della fotografia. Fu solo nel 1995 che, in occasione di un viaggio in Portogallo, ripresi in mano una macchina fotografica (una piccola Olympus prestata da un'amica). Da allora ho rispolverato Pentax e Leica e ho anche maturato la volontà di esporre le mie foto. Nella vita non c'è età per mutare pelle».
© Sandro Becchetti - Claudia Cardinale
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Fino al 5 aprile la galleria Kunsthalle Harry Graf Kessler di Weimar, una delle gallerie più prestigiose d'arte moderna in Germania, ospita una personale di Sandro Becchetti. 70 ritratti di personaggi italiani e stranieri della cultura, dell'arte e dello spettacolo fotografati dagli Anni Settanta ad oggi.
Alfonso Gatto, 1970
Lo conoscevo soltanto perché me ne aveva parlato Libero De Libero, fustigandone il dongiovannismo, reso possibile, secondo lui, da due occhi degni di Elizabeth Taylor. E così mi apparve, nell'atrio di un albergo a due passi da piazza di Spagna: occhi di zaffiro, cappottone fino alle caviglie. Mia prima gaffe: "E' arrivato in orario?" "Orario?..." "Non viene da Bologna?" "No, da piazza del Popolo, la mia compagna mi ha cacciato da casa" "Pensavo che lei fosse di Bologna" "Io?! Magari, tutte quelle belle donne… No, guaglio', io songh'e Salerno, sud sud…" . Ce ne andammo a braccetto, dandoci del tu. Ci vedemmo per due giorni di seguito, giocammo a pallone davanti ad una biposto. Guardandola mi disse: "Per una macchina così darei tutto quello che ho". Nel '76 la morte lo accontentò: lo prese a bordo di una cabriolet, sulle stesse strade dove Risi aveva girato Il sorpasso.
Andrea Zanzotto, 1999
Al Teatro Argentina Zanzotto teneva una lezione di poesia. La grande platea era affollatissima – critici, professori, intellettuali, insomma quelli che contano. Evidentemente io, malgrado la tessera professionale, contavo meno di zero, perché un omone mi bloccò all'ingresso del grande corridoio che gira tutto intorno alla platea. Fortunatamente, allo squillo di un telefono, l'omone scomparve a passi svelti lungo la rotonda. La ragazza del guardaroba, con un sorriso da volpe, mi fece cenno di passare ed io mi accomodai accanto ad una tenda semiaperta. Nel buio spiccava, illuminato, il tavolo del conferenziere posto sul palcoscenico. Mi allontanai quel tanto necessario ad impostare il grandangolo e, contando i passi dell'omone che tornava, scattai appena lo ebbi nell'obbiettivo. Me ne andai in fretta prima che mi cacciasse.
Federico Zampaglione, 2003
Il famoso leader dei Tiromancino. Mi fu presentato da Anna Marcello, scatenata attrice napoletana e ci pesammo in silenzio, trovandoci consoni. Lo fotografai nello "studio" di via Monterone, che poi era la cucina di casa mia. Molti ne ho cucinati lì, alle 16 orario estivo o alle 14 invernale, in virtù di una straordinaria luce obliqua che – lo dico per gli addetti – mi costringeva a diaframmare a forchetta: uno stop fisso, uno stop sopra ed uno sotto.
Sandro Penna, anni Settanta
Umbro di nascita, viveva a Roma in un appartamento del Comune, residuo dell'acquisizione del patrimonio ecclesiastico del 1870 e da quel tempo mai restaurato: una stamberga cadente alla Mola dei Fiorentini, circostanza che gli faceva attribuire ai toscani la sua miserabile condizione abitativa. Declamava: "Questi puttanieri che si rifanno su di me del tradimento del Baglioni da Forgiano che passò ai francesi!". Mi veniva da ridere, mentre lo osservavo immobile ai bordi di una laguna di giornali e cartacce sparsi sul pavimento, che celavano qui un De Pisis, lì un Morandi. "Attento, che mi rompi Casorati!". Sandro Penna era malato e passava le sue giornate fra brevi uscite di casa e l'abbandono su una cuccia lercia dove, al di sopra del cuscino, troneggiavano bottiglie di plastica piene di brodaglie colorate, dalle quali suggeva attraverso lunghe cannucce. Ruggero Guarini mi chiese di proporgli una collaborazione alla terza pagina de "Il Messaggero" per ottantamila lire a pezzo. Quando glielo dissi, Penna andò su tutte le furie: "Ottantamila lire a me, alla voce più alta della poesia italiana ed europea". Cocciuto, disperato, abbandonato a se stesso, Penna lo sarebbe rimasto fino alla morte. Mi regalò alcuni versi scritti a mano su un fogliaccio, riconoscente per tutte le volte in cui lo avevo accompagnato al canile municipale ad abbracciare il suo amato cane.
Benedetta Barzini, 2006
Bert Stern, Ugo Mulas, Irving Penn, Michel Comte. I Padri Pellegrini che fondarono la colonia della moderna fotografia erano lì, davanti a me, nelle trame sottili e fitte della pelle di quella signora ossuta, occhio scintillante da rapace sospettoso, una sigaretta dopo l'altra, che mi parlava con la sua affascinante voce roca. L'ho fotografata senza altra committenza che l'ammirazione, il rispetto e l'amicizia verso questo monumento nobile alla modernità femminile.
Gore Vidal, 1974
Abitava in via di Torre Argentina, nell'attico di un palazzo che affacciava sull'omonima piazza. Insopportabile, di una pignoleria psicotica, tutto proiettato sulla propria immagine come la star hollywoodiana che non era, col suo completino perfetto per un party tra snob della Quinta Strada. Le mie foto non gli piacquero e pronunciò un termine che reputai un'offesa imperdonabile: paparazzo. Su di lui il mio giudizio è assolutamente arbitrario e preconcetto: occhio per occhio, dente per dente.
Chi è
Sandro Becchetti, nato a Roma nel 1935, ha iniziato la sua attività di fotografo nella seconda metà degli Anni Sessanta. Ha collaborato con i maggiori periodici e quotidiani nazionali (tra cui L'Espresso, Il Mondo, Il Messaggero, L'Unità, Paese Sera, Il Secolo XIX), con la RAI, la BBC e France Presse; sue foto sono apparse su Life e Liberation. La sua attività è documentata nel volume della Storia d'Italia Einaudi dedicata a "L'immagine fotografica 1945-2000". Ha esposto i suoi lavori in mostre (personali e collettive) presso gallerie private e istituzioni pubbliche in Italia e all'estero (Nuova Pesa di Roma, Cinecittadue Arte Contemporanea di Roma, Galleria Scarbata di Lipsia, Biblioteca Malatestiana di Cesena, Festivaletteratura di Mantova, Festival Internazionale della Fotografia di Savignano, FotoLeggendo, Museo d'Arte Moderna di S. Etienne, GAM di Torino).
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Sandro Becchetti
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