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L’assenza dei confini, l’essenza dei confini: un libro e una mostra
Indagare sotto una nuova luce le frontiere dismesse, 'aperte' terre di confine che separano l'Italia dai paesi di area Schengen è il principio ispiratore dell'opera dell'antropologa Stefania Seghetti, autrice dei testi del libro e di questo articolo, e del fotografo Paolo Soriani, un progetto che si compone di un volume (Dueffe Edizioni) e di una mostra fotografica itinerante. Il lavoro raccoglie gli scatti e le riflessioni sollevate dal viaggio degli autori nelle zone di frontiera.
www.assenzadeiconfini.com |
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Volevamo capirli, i confini. Perché ad attraversarli semplicemente non si intuisce bene. Non sai mai se ti trovi alla fine o all'inizio di qualcosa, perché dipende da quale prospettiva li guardi, in fondo, i confini. Figuriamoci poi pensare all'identità di chi ci vive intorno. «Sono una cittadina europea», mi ripeto mentre passo la frontiera di Prato alla Drava in uno dei tanti momenti di vacanza nel paesino del Trentino Alto Adige che conosco da quando ero una ragazzina. «Quindi – continuo – posso circolare in modo libero sul territorio comunitario». Bene, ma questo cosa significa al di là della specifica questione politica? Cosa c'è oltre il processo di creazione dell'Europa iniziato cinquanta anni fa? Cosa è un confine e come lo si vive?
Gorizia, la Piazza Transalpina - Photo©Paolo Soriani |
La mia è una generazione di persone abituate a pensare al mondo come ad un grande spazio agito, fatto di ponti più che di barriere, di passaggi, di spazi attraversati e attraversabili in mille direzioni. Ma forse è proprio per questo che è nata la curiosità di soffermarsi su un tema così vasto come quello delle vecchie frontiere che si aprono a una cittadinanza ormai europea. Io non lo so cosa significhi vivere un confine, avercelo scritto sulla pelle, sentirne il peso a volte doloroso, sopportare le limitazioni alle quali ti obbliga. Per questo ho scelto di venirlo a cercare lungo i bordi dell'Italia, in una delle sue mille accezioni, quella di spazio comune tra paesi che hanno abbattuto le proprie frontiere, quella che porta il nome di Trattato di Schengen.
Ormai abituata alla velocità delle esperienze di viaggio contemporanee, agli aeroporti o al clic di un mouse che in meno di un secondo può portare all'altro capo del mondo, ho avuto paura di non essere più in grado di apprezzare il lento avvicinarsi alla meta, senso ultimo di un viaggio, tempo mentale e fisico che permette di intravedere le sfumature delle tappe intermedie. Sfumature che sono esperienze individuali di persone radicate in zone di passaggio di cui, in alcuni casi, neanche avevo mai sentito il nome; che sono spazi della memoria e patrimoni di immagini. Schengen non è solo un cartello all'uscita degli aeroporti che indica la corsia preferenziale per il controllo doganale dei cittadini europei. Ma non è neanche solo il punto di arrivo di un progetto politico e sociale iniziato non molto tempo fa e conclusosi recentemente in Italia con la caduta della frontiera che ci separa dalla Slovenia. È invece – per me – soprattutto la voglia di ri-disegnare il suo percorso fisico di abbattimento dei confini, affinché di ognuno di questi ultimi rimanga una traccia viva. Un mondo senza confini che è libero perché ha la capacità di conservarne comunque il ricordo. La potremmo chiamare una geografia delle border lines, dove sono i punti di contatto ad assumere significato, quei luoghi ponte ora chiamati a sostenere in parte il peso dell'integrazione europea.
Rudi, il proprietario del Ristorante "Al Confine" - Photo©Paolo Soriani |
Con queste premesse è cominciato il mio viaggio in compagnia di un fotografo lungo una linea rossa a volte morbida e a volte rappresa in un grumo di dolore difficile da lenire. Siamo partiti dal Trentino Alto Adige per provare a capire i confini e per cercare di rappresentarli. Volevamo tracciare – e l'uso di questa parola non riesce a nascondere l'ansia di definire implicita in ogni discorso sul confine – una sorta di raffigurazione delle vite di quei luoghi. Il nostro primo incontro con questa esperienza tra le frontiere, preclusa a chi come noi ha sempre vissuto in una metropoli lontana dall'estremo limite nazionale, ha avuto il colore sbiadito di un giornale vecchio appeso ai vetri di una garitta vuota e il suono di un valzer dall'interno di un ristorante demodé a pochi passi dal confine di stato.
Tarvisio, la vecchia stazione - Photo©Paolo Soriani |
Rudi Hörmann, gestisce il suo locale "Al Confine" da oltre cinquanta anni e anche oggi che la caduta delle frontiere si è portata dietro una buona fetta di avventori, lui continua a tenere aperto ogni giorno – ad esclusione del martedì – dalle otto alle undici di sera. Gli occhi liquidi di chi ormai ha chiuso i conti con le sfide della vita, Rudi ci ha accolto con gentilezza cercando tra i suoi ricordi quelli meglio adatti a soddisfare il nostro interesse verso le storie di confine, sforzandosi in un italiano un po'arrugginito di dare un nome al suo stato d'animo nei confronti della riunita Europa. Volevamo catalogare, noi, e allora ci siamo lasciati travolgere dai suoi racconti su storie legate al piccolo contrabbando perse tra realtà e finzione. Certi che alla fine della giornata avremmo trovato il modo di spiegare quell'identità transfrontaliera che tanto cercavamo. È un luogo particolare, il Trentino Alto Adige, perché in fondo, da osservatore esterno, è facile pensare che qui, l'apertura delle frontiere sia stata un avvenimento accolto con unanime soddisfazione. Sembra quasi scontato dire che le identità dei due paesi (Austria e Italia), nel loro punto di contatto hanno molto in comune una con l'altra tanto da rappresentare quasi un amalgama perfetto. In effetti è proprio questa la sensazione che abbiamo avuto fermandoci in queste terre e chiacchierando con la gente. E così, vuoi perché è la storia che forgia le culture, vuoi perché Prato alla Drava è un valico tutto sommato secondario, vuoi ancora perché tutti quelli che abbiamo incontrato hanno mostrato un rapporto sereno con i propri vicini di casa, siamo ripartiti di lì pensando ad un'identità pacificata e condivisa dagli abitanti del luogo, come se ci trovassimo di fronte a un unico popolo finalmente riunito grazie a Schengen.
Ventimiglia, il bar al confine - Photo©Paolo Soriani |
Poi però sulle tracce dell'assenza dei confini ti ritrovi a Gorizia e le cose si complicano, cambiano, perché la storia con la esse maiuscola lì ingarbuglia tutto quanto e tra minoranze linguistiche, storie di guerra, divisioni tra famiglie, cortina di ferro e tristi ricordi ti senti un po' sperso e incapace di afferrare quell'essenza che altrove ti era sembrata più chiara, più definita. A Gorizia il confine è un peso presente e non puoi evitare il confronto con questa evidenza storica neanche quando capisci il grande sforzo dei suoi cittadini di tenere vicini i due lembi di una stoffa che si vuole a tutti i costi ricucire. Chiacchiero con il signor Mario, da sempre edicolante al valico internazionale della Casa Rossa, e mi sforzo di dare un colore alle sue emozioni mentre con aria un po' sorniona mi dice che questa benedetta questione dei confini aperti a lui mica lo convince fino in fondo, perché alla fine tutto dipenderà da come si comporteranno gli "altri", quelli di là, gli sloveni insomma. Che poi sono i suoi vicini di casa, gli stessi che in una triste notte di settembre del 1947 una ragione politica superiore ha deciso di separare dall'Italia: un popolo che lui definisce di mentalità dura e fredda. E mentre lo ascolto ripenso invece alla dolcezza della signora Marika che gestisce il museo del muro alla Stazione Transalpina, della cui mezz'ora di spiegazioni sul doloroso passato di Gorizia ricordo l'abbondanza del termine sogno da lei pronunciato a indicare la prospettiva aperta dalla caduta - lo scorso 21 dicembre - dell'ultimo confine della cortina di ferro.
Ventimiglia, il confine sul mare - Photo©Paolo Soriani |
«Io credo che ci siano persone che hanno il dono di vedere un sogno», è la frase con cui mi saluta e non posso fare a meno di pensare che non finiremo mai di capirli i confini, soprattutto noi che non li abbiamo mai realmente subiti. Clifford Geertz - un antropologo contemporaneo - ha avuto la grande intuizione di dire che quello che noi scriviamo (o cerchiamo di scrivere) non è il discorso sociale bruto a cui non abbiamo accesso diretto, non essendone gli attori se non in modo molto marginale o eccezionalmente, ma soltanto quella piccola parte di esso che i nostri informatori possono portarci a capire. Così, passeggiando tra i confini, ho vissuto la concretezza di questa profonda verità letta nei miei libri di antropologia, riconoscendo passo dopo passo quel senso di inadeguatezza e anche di fastidio – a volte - che ha invaso tutti i più grandi maestri della materia alle prese con il racconto dell'altro. Nel nostro viaggio non sono state rare le volte in cui abbiamo sentito il peso dello sguardo di chi pensava a noi come a quelli che vengono da fuori a raccontare una realtà che non gli appartiene, ma molte sono state anche le situazioni in cui la voglia di aprirsi al ricordo di un tempo inevitabilmente passato ha accolto, le nostre domande e i nostri scatti con calore e con partecipazione. No, non li abbiamo capiti a fondo i confini, ma li abbiamo compresi un po' di più questo sì. Ed è per questo che il viaggio cerca parole altrui mentre ferma in immagini un nostro modo di rappresentare e osservare la realtà.
Frontiera Italo-Slovena - Photo©Paolo Soriani |
Chi sono
Stefania Seghetti si è laureata in Antropologia all'Università "La Sapienza" di Roma ed ha consolidato la propria preparazione attraverso un tirocinio svolto presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico "L. Pigorini" oltre che in vari corsi e seminari. Da sempre incantata dal potere della narrazione, ha affiancato ai suoi interessi professionali anche una passione per la scrittura e per la sua capacità di generare emozioni. Lavora in una agenzia di comunicazione e come free-lance scrive di cinema e spettacolo per il Magazine di un portale web.
Frontiera Italo-Slovena - Photo©Paolo Soriani |
Paolo Soriani ha collaborato con le più importanti case editrici italiane per le quali ha realizzato foto di architettura per cataloghi e pubblicazioni. Noto per i suoi ritratti di jazzisti, ha pubblicato con ECM, CAM records, Label Bleu, VVJ, CNI. Warner. Negli ultimi anni ha tenuto seminari e corsi sulla fotografia presso l'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Roma e presso le sedi romane dell'Iowa State University e della John Cabot University. Ha esposto i suoi lavori presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna, presso il Progetto Arti Visive del festival Internazionale "Time in Jazz" diretto da Paolo Fresu e al Festival Internazionale di Fotografia di Roma. Nel 2005 ha realizzato "Cities & Island", progetto multimediale con il musicista americano Ralph Towner presentato a Roma presso il Goethe Institut.