Quello del fotografo è un mestiere difficile. Spesso si è sviati dalle esigenze di mercato, dalla frenesia e dalla superficialità dei media che cercano sempre di stupire senza dare l'opportunità di riflettere, di approfondire. La fotografia è un mezzo eccezionale per appagare la propria curiosità, il proprio desiderio di testimoniare, di creare. Tuttavia ciò che spesso ha l'ambizione di essere uno strumento per mostrare tutto di un soggetto, si rivela in realtà come un disvelatore di segreti, di elementi apparentemente nascosti in ciò che si presenta ai nostri occhi con evidenza.
È la capacità formidabile e delicatissima della fotografia. In qualunque immagine si possono raccontare non uno ma migliaia di mondi, semplicemente perché migliaia sono i mondi che costituiscono ogni istante della nostra vita. Quell'immagine quindi esiste in modo diverso, non solo per ogni fotografo ma all'interno della stessa persona, secondo la sua capacità percettiva del momento.
Questo è una sorta di battito vitale che il fotografo, testimone di ciò che osserva, trasmette sempre a coloro che osservano le sue immagini.
La macchina fotografica può dunque essere un eccezionale strumento per sviluppare un altro tipo di occhio, un occhio interiore che ci aiuti a vedere nell'ambiente le stesse molteplici realtà che costituiscono la vita di ciascuno di noi per giungere ogni tanto a quell'istante decisivo di cui parla Cartier-Bresson: la capacità di percepire in una frazione di secondo, in uno schioccare di dita, che esiste una realtà più profonda di quella che ci appare e che inevitabilmente ci somiglia e al tempo stesso è fondamentalmente la decisione che in quell'istante avvenga qualcosa di inaspettato che sveli questa verità.
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Ciò non significa che bisogna temere le proprie emozioni o considerarle estranee alla storia che si racconta. Tomasz Tomaszewski, conosciuto ad un corso di fotografia in Toscana e fotografo del National Geogaphic, caro amico nonché mio maestro, mi ha insegnato che le emozioni forti anche se negative aiutano a realizzare immagini forti. Le foto migliori vengono dalla sofferenza non necessariamente nella realtà che ci circonda ma, del fotografo stesso, dal suo disagio nel raccontare.
L'essenza di un'immagine significativa, ciò che finisce con il colpire l'osservatore, è il "battito vitale" del fotografo stesso; l'obiettivo è il mezzo attraverso il quale dare forma e trasmettere queste pulsazioni. Io ritengo che siano interessanti solo le fotografie che comunichino questa energia.
La capacità di trasformare le proprie emozioni in creatività ci porta a realizzare fotografie intensissime. È necessario entrare nelle situazioni, creare un legame con i soggetti che si riprendono, mostrare un vero interesse verso di loro, per sentire la loro vita, per trovare degli elementi che possano rendere una storia semplice e allo stesso tempo complessa, sofisticata. L'aggressività o il nascondersi dietro una lunga focale, spesso allontanano dalla gente. Più sincerità si riesce a infondere in un lavoro più le immagini saranno intime, emozionanti. Spesso il fotografo, seppure abilissimo e di grande talento, fotografa solo per se stesso, per appagare il proprio senso estetico, il proprio ego. Il mio obiettivo è quello di usare questo mestiere per conoscermi e per conoscere la realtà che mi circonda e dal momento che quest'ultima è anche lo specchio della mia interiorità, per conoscere meglio me stesso. E in questo processo non esiste limite, né tecnico, né visivo o interpretativo.
Nota biografica
Massimo Mastrorillo nasce a Torino nel 1961. Attualmente vive a Roma. Fotogiornalista specializzato per lo più nel reportage geografico-sociale, è rappresentato dalle agenzie Corbis-StockMarket, Contrasto e Sie. Per i lavori commerciali è rappresentato dall'agente Anna Contestabile.
Ha pubblicato il libro "Kurdi, un popolo in esilio" edito da Mazzotta. Lavora prevalentemente in 24X36 e utilizza per lo più una Nikon F100 con uno zoom 20-35 e una Leica M6 con un 35mm. Usa pellicole Fujichrome Provia e Velvia e Kodak Tri-x per il b/n.