Leila e Mohammed raccontavano/raccontano - per immagini - le vite degli altri, con quella sensibilità unica che viene dall'essere uno degli altri, in questo caso un privilegio per narrare da dentro, da una posizione di intimità. Leila era una giovane fotografa franco-marocchina, è morta in seguito alle ferite riportate durante l'attacco terroristico di metà gennaio a Ouagadougou, in Burkina Faso, dove si trovava per Amnesty International. Mohammed è un giovane maliano, riparato prima in Costa d'Avorio con la famiglia e poi in fuga da solo attraverso il Sahara verso il sogno europeo, approdato in Italia e qui diventato fotografo. Rendiamo omaggio alla scomparsa di Leila, segnalando il suo lavoro più importante (Les Marocains, esposto anche alla Maison Européenne de la Photographie) e cogliamo l'occasione del libro di Luca Attanasio, appena uscito per Albeggi Edizioni - Il bagaglio. Migranti minori non accompagnati: il fenomeno in Italia, i numeri, le storie - dove si descrive la storia di Mohammed, per parlare delle vite degli altri e mostrarle.
Il giorno dopo la morte di Leila, i vertici della Maison Européenne de la Photographie e dell'Institut du Monde Arabe hanno diffuso un comunicato essenziale: «È con grande tristezza che abbiamo appreso che Leila Alaoui è morta ieri per le ferite riportate a Ouagadougou. Era giovane, era bella, aveva talento. È stata un'artista splendente. Ha condotto una lotta per far rivivere i dimenticati della società, i senza tetto, gli immigrati, con la sola arma della fotografia».
Leila, nata nel 1982, aveva studiato fotografia a New York, viveva tra Marrakech e Beirut. La sua fotografia esplorava l'identità, la diversità culturale e la migrazione nel Mediterraneo. Così spiegava il suo lavoro principale: «Les Marocains è una serie di ritratti fotografici a grandezza naturale realizzati in uno studio mobile che ho portato in giro per il Marocco. Attingendo al mio retaggio, ho soggiornato in varie comunità e usato il filtro della mia posizione intima di marocchina di nascita per svelare, in questi ritratti, la soggettività delle persone che ho fotografato. Ispirata da The Americans, il ritratto dell'America del dopoguerra realizzato da Robert Frank, ho intrapreso un viaggio attraverso il Marocco rurale per fotografare uomini e donne di diverse etnie, berberi come arabi. Il mio approccio, che cerca di svelare più che affermare, rende i ritratti realizzati doppiamente documentari, perché il mio obiettivo - il mio sguardo - è contemporaneamente interiore e critico, vicino e distante, informato e creativo. Il progetto, ancora in corso, è un archivio visivo delle tradizioni e degli universi estetici marocchini che tendono a scomparire sotto gli effetti della globalizzazione.
Questo modo ibrido di concepire la fotografia documentaria fa eco all'approccio correttivo postcoloniale che molti artisti contemporanei portano avanti oggi per eliminare dall'obiettivo l'esotizzazione del Nord Africa e del mondo arabo molto diffusa in Europa e negli Stati Uniti. Il Marocco ha occupato a lungo un posto speciale in questo uso della cultura storica - soprattutto gli elementi architettonici e i costumi nazionali - per costruire delle immagini di un altrove esotico. I fotografi utilizzano spesso il Marocco come contesto per fotografare occidentali, quando vogliono dare una sensazione di glamour, relegando la popolazione locale in un'immagine di rusticità e folklore e perpetuando in tal modo lo sguardo accondiscendente dell'orientalista. Si è trattato per me di controbilanciare questo sguardo adottando per i miei ritratti tecniche di studio simili a quelle usate da fotografi come Richard Avedon nella sua serie In the American West, che mostrano soggetti fortemente autonomi e dalla grande eleganza, mettendo in risalto la fierezza e la dignità innate di ciascun individuo».
Dal Marocco all'Africa nera. Da Leila Alaoui a Mohammed Keita. Come scrive Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, nell'introduzione a Il bagaglio, «Mohammed vede morire padre e madre e si trova costretto a fuggire senza la possibilità di seppellire e piangere i propri genitori. Non ha una famiglia sicura con cui crescere e vive in un paese instabile e pericoloso. Eppure il giovane Mohammed, minore e orfano, è solo e niente più di un migrante economico da rispedire tra le macerie di una casa distrutta dalle stesse armi che hanno ucciso i suoi genitori. Il racconto, in prima persona, del giovane Mohammed emoziona come un romanzo d'avventura, ma non si tratta di un romanzo. L'autore dà voce alla storia vera di un bambino di nove anni, originario del Mali, la cui famiglia viene distrutta in Costa d’Avorio durante gli scontri del 2002». E poi arriva in Italia nel 2010, a diciassette anni, «dopo tre anni e mezzo, oltre 8.000 km percorsi, circa 5.000 dollari pagati, attraversati sei Paesi, deserti, mari, montagne, pene, dolori e vuoti incolmabili, dopo aver perduto tutto, la famiglia, la casa, gli amici, l'infanzia, l'adolescenza, le mie fotografie», come racconta Mohammed nel libro, «toccavo il suolo della Sicilia con l'ultimo rotolo di soldi infilato nelle mutande e i soli vestiti che avevo indosso. Ero sano e salvo e, senza nemmeno rendermene pienamente conto, ero finalmente arrivato in Italia.
A Roma, naturalmente, non conoscevo nessuno e i primi giorni mi sistemai a dormire alla Stazione Termini. Un periodo strano. Quando partii non avrei mai immaginato di vedere tanta miseria, gente buttata in terra tra sporcizia e malattie. Tanti uomini, donne, ragazzini, anche bambini, un'intera popolazione di disperati, tutti concentrati in poche centinaia di metri, con i loro fagotti colorati, le coperte lacere, il cartone di vino, odori forti. Eppure, in mezzo a quella situazione così disperata, riuscii a farmi degli amici. Lo feci tramite l'obiettivo della mia macchina fotografica usa e getta che avevo comprato in un negozietto di souvenir qualche giorno prima. Sapevo che dietro a ognuno di quei poveri cristi c'era una storia, che dentro di sé ognuno aveva un'anima e sentii l'impulso di fotografarla. Li riprendevo mentre dormivano o raccoglievano i cartoni, mi sorridevano perché mi accorgevo di loro. Poi ci parlavo, mi facevo raccontare le loro storie e tra mille difficoltà riuscivo a capirli, a entrare in sintonia.
Ed ero felice. È incredibile ma lì trovai degli amici. Barboni, uomini soli, signore matte. Soprattutto ragazzi africani come me con i quali creammo una specie di buon vicinato. Ci sistemammo a dormire tutti vicini, ognuno scelse un angolo di stazione non più distante di qualche metro dall'altro. Ciò ci permetteva di difenderci e aiutarci, ma anche di provare un minimo di calore la sera, al termine della giornata, quando tornavamo dai nostri viaggi alla ricerca di cibo, un bagno in un internet point, una coperta, un paio di pantaloni, consigli, documenti.
Quasi naturalmente, quella specie di gioco che mi ero inventato appena giunto a Termini, complice la mia macchinetta usa e getta, si trasformò in passione irrefrenabile. Sentivo in maniera sempre più chiara che mi prendeva da dentro, forse era il mio modo di colmare il vuoto creatosi in me quando mi tolsero con violenza le fotografie dei miei genitori. Seppi che a CivicoZero organizzavano dei corsi e mi iscrissi subito. Mi affidarono una macchina più seria e ancora una volta presi a fotografare la mia prima fonte di ispirazione, il popolo delle mille solitudini. Presi a girare nelle ore notturne per fotografare i miei "vicini di casa", per fissare l'immagine di quell'umanità dolente che popola la notte della Stazione Termini di Roma. La foto dedicata a me, invece, quella in cui avevo immortalato il mio angoletto, con la mia borsa, la coperta e il cartone, esposta a CivicoZero, fu notata da un'artista americana e fu esposta a New York. La disperazione, la voglia di riscatto avevano prodotto in me il miracolo dell'arte.
Si faceva strada dentro di me la consapevolezza di stare diventando un artista. Nel giugno 2010, la Commissione stabilì finalmente la mia vera età: ero un ragazzo di 17 anni al massimo, avevo diritto alla protezione dello Stato italiano. La tristezza svanì in un istante. Sorrisi per quasi tutto il giorno. Fui accolto in una casa famiglia dove ricevetti dei vestiti, una stanza, un letto, la possibilità di iscrivermi a scuola e ripartire. Un nuovo inizio. Yves mi iscrisse a una scuola di lingue e al corso da privatista per prendere il diploma di terza media. Nel 2011, mi sono iscritto alla Scuola Superiore di Studi Alberghieri Rossellini e tre anni dopo mi sono diplomato.
Quando il professore mi disse: "Keita, complimenti, ora sei maturo", sorrisi. Ripensai a quella bomba, alle schegge che mi hanno lasciato segni indelebili sulla fronte e a sinistra della bocca, ai tamburi del villaggio, all'obeche. Mi tornò alla mente il lavoro come facchino a Nzérékoré, il volto sorridente di Sumaila, le montagne tra il Mali e l'Algeria, i foyers in cui cucinavamo il nostro cibo e dormivamo sereni, come fossimo a casa, non nel deserto. Rividi uno a uno i volti di quei ragazzi che cadevano giù dai pick-up e quelli dei giovani libici che ci avevano aggredito. Mi passarono davanti agli occhi come un cortometraggio tutti i soldi pagati e quelli che a Tripoli regalai al ragazzo, le fatiche, le violenze, l’arrivo a Malta e gli impulsi a farla finita. Poi Catania e Murat, la Stazione Termini e Yves e dissi: "Sì, lo sono”. Proprio all'ultimo, mentre stavo per uscire con il mio diploma in mano, mi ricordai di mamma, del suo viso dolce che metto a fuoco a stento, di papà che un giorno mi disse: “C'è un bagaglio pronto che ti aspetta e puoi portarlo solo tu"», conclude Mohammed il suo racconto.