Due libri-raccolta, che ripercorrono per intero i rispettivi percorsi creativi, celebrano due maestri della fotografia italiana: Ho fotografato per capire di Lisetta Carmi e Il giro dell’occhio di Piergiorgio Branzi. Edito da Peliti Associati (pp. 240, euro 59, a cura di Giovanna Chiti, con testi di Antonio Gnoli e Maria Francesca Bonetti), Ho fotografato per capire raccoglie per la prima volta in maniera articolata ed esaustiva tutto il lavoro di Lisetta Carmi: dalle prime fotografie del 1960, in occasione di un viaggio in Puglia, alle ultime realizzate in India nel 1979. Le immagini testimoniano il desiderio di vicinanza, comprensione e rispetto verso le persone, specie quando costrette in condizione di estremo disagio.
Suddivisa in 17 sezioni, la raccolta - che ha vinto il Premio Marco Bastianelli 2015 - presenta i diversi temi affrontati da Lisetta Carmi durante la sua ventennale e significativa carriera. Oltre al reportage di documentazione e denuncia sociale sulle terribili condizioni dei portuali di Genova e a quello dedicato ai travestiti del 1972, il libro presenta la serie del Cimitero Monumentale di Staglieno, quella dei ritratti del poeta Ezra Pound realizzati in un breve incontro con il poeta nella sua casa di Rapallo, la sequenza temporale di un parto ripresa nell’ospedale Galliera, lo straordinario Quaderno musicale di Annalibera dedicato a un’opera di Luigi Dallapiccola e il libro d’artista sulla metropolitana di Parigi realizzato nel 1965.
Lisetta Carmi nasce a Genova nel 1924 da una colta famiglia ebrea laica. A quattordici anni, a causa delle leggi razziali è costretta ad abbandonare la scuola; questo episodio segnerà fortemente la sua vita. Destinata a una brillante carriera di concertista, la abbandonerà presto per la fotografia con la quale riuscirà esprimere il suo pensiero di donna libera delle convenzioni del tempo e il suo interesse per la sofferenza della gente.
Svolgendo il suo lavoro in modo intelligente sensibile e rigoroso, gira il mondo realizzando reportage di grande impatto ancora oggi all'avanguardia per i temi trattati. «Come nella musica, nelle mie foto c'è ritmo, il ritmo della musica che ho studiato per trentacinque anni», afferma. Da molti anni vive la sua “quinta vita” in un centro spirituale da lei fondato in Puglia dedicandosi alla calligrafia cinese e alla pittura, alla bellezza e al sapere.
Passando a Piergiorgio Branzi, scrive Alessandra Mauro nell'introduzione a Il giro dell’occhio (Contrasto, pp. 240, euro 35), «il fotografo deve soprattutto osservare, contemplare, numerare quasi, quel che vede per poi riprodurre, trascrivere quella stessa bellezza. Per alcuni fotografi poi, tutto sta nell'osservare con pazienza e ammirazione, attenti al dettaglio come al profilo delle cose all'orizzonte o alla combinazione diversa delle forme nello spazio, per poi riportare su un foglio quelle occasioni della vista. Ecco, Piergiorgio Branzi è un fotografo così, uno che sa come osservare la natura e il mondo, che capisce come poter continuare a sorprendersi di quel che vede e, soprattutto, come fare a trascriverlo su un foglio di carta fotografica.
Questo libro raccoglie gran parte delle sue realizzazioni, quelle che potremmo chiamare le “osservazioni attive” di Branzi. Insieme a una serie di ricordi, di brevi e lunghi scritti, di polemiche non veementi ma invece spesso pensate ed elaborate con intelligenza nel tempo, ci sono i suoi sguardi sul mondo, i suoi tentativi di fermare quelle sequenze di forme - case, alberi, persone, cose - che a volte si disegnano armoniosamente di fronte al suo sguardo e si dispongono in modo tanto perfetto da sembrare proprio alla ricerca di qualcuno che sappia coglierne la particolarità: un interprete d’eccezione, una sorta di sismografo dell’eleganza che ne registri la cadenza.
Un intreccio di temi e tempi - i lavori divisi e assemblati per serie e interessi e, dall’altra parte, la cronologia esistenziale - annoda e svolge il racconto di una vita piena di meraviglie e di scoperte. La scoperta che il mondo possa essere quel groviglio sensato di linee, quella danza ritmica di masse contrastanti che si fronteggiano e la meraviglia di poter fermare questo groviglio, di cercare di ricordare, per sé prima ancora che per gli altri, i passi e le diverse figure di quella danza. […]
Fotografare è disegnare, dirà della sua attività prediletta, trasformando la congiunzione in un verbo, una necessità, un’evidenza. Il disegno diventerà quindi una pratica da non abbandonare mai, soprattutto quando la macchina fotografica sarà la grande amica, il pretesto e il motivo per scoprire con lei l’Italia, quella delle feste campestri, delle strade di Firenze coi suoi improvvisi giochi d’ombre e chiaroscuri. Ma anche quello assolato e ancora misterioso di un sud misero e ricco di immagini e storie, come quello del sud d’Europa.
Ma il disegno sarà anche il conforto quando il mestiere di giornalista televisivo non gli permetterà di avere quella frequentazione costante che la fotografia esige. Guardare, osservare, percorrere, con una linea mentale prima ancora che con la mano, il profilo di una montagna o le linee di un muro; sorprendersi ad ammirare i piani sovrapposti o paralleli dei solidi nell’aria tersa e cristallina di un mattino: così come avrebbe detto Henri Cartier-Bresson, maestro riconosciuto di Branzi, quello di Piergiorgio è sempre stato un disegno dal vero, realizzato con la fotografia, con il bulino dell’incisione, con la matita e, pure se più sporadicamente, con l’immagine in movimento. […]
Con il disegno, del resto, si può tenere allenato lo sguardo e la memoria. Perché la pratica del fotografo non consiste solo nel registrare bellezza e armonia ma anche nel mantenere vivo il ricordo, conservare la freschezza e la complessità mirabile di immagini forti e struggenti perché ne rimanga traccia, perché si possa dire che così è stato, che quella scena è accaduta e che lì, in quel punto, in quel momento, l’esperienza è stata viva e precisa. Il giro dell’occhio in cui ci conduce Piergiorgio Branzi con le sue fotografie è allora un turbine d’immagini e memorie, di ricordi, impressioni e scelte meditate. Di osservazioni coerenti in cui lo sguardo è sempre pronto a percorrere il mondo, tracciare e nominare la visione di profili di terre e di pietre. Una serie di vedute e “rivedute” che comunicano la stessa esperienza esistenziale dell’autore, il suo respiro. Quello di un corpo profondamente attento, lieto di continuare a vivere di meraviglia e di osservazione».
Come scrive lo stesso Branzi, «non è sacrilegio usare questo termine: nell’atto di fotografare è presente un “officiante” e una “seconda presenza” che, volente o nolente, accoglie o rifiuta un messaggio. Ogni cultura, ogni pratica trascendentale, infatti, si affida soprattutto all’immagine (come anche a riti, comportamenti e oggetti ai quali affida ruoli di sacralità), per manifestarsi e perpetuarsi. […] Fotografare in consapevolezza è un atto solitario, in un certo senso compromettente per l’autore: la realtà la osserviamo attraverso il fondo di bottiglia dell’obiettivo, ma la creazione dell’immagine attiva le corde della nostra sensibilità, della nostra cultura non solo figurativa; coinvolge la coscienza sociale, il livello etico dell’autore.
In ultima analisi l’immagine finale proviene dal più profondo del nostro essere, della nostra stessa identità, e ci scopre e ci smaschera. Ci responsabilizza. In fotografia la solidità tattile del supporto è assicurazione della durata del suo messaggio: la si guarda, la si riguarda, ci dice qualcosa. La si riprende in mano e ci vediamo sempre qualcosa di più o di meno, comunque di diverso. E se l’immagine è "consapevole", dietro ad essa potremo intravedere l’uomo che l’ha scattata e la sua intenzione di raggiungere, attraverso la sintesi di forma e contenuto, la comunicazione di un messaggio, di disegnare, appunto, un’icona possibilmente leggibile e durevole nel tempo».
Lisetta Carmi. Nasce a Genova da una famiglia borghese di origine ebraica. Nel 1960 abbandona l'attività di pianista per la fotografia, ravvisando in essa uno strumento di impegno politico e un mezzo per compiere, attraverso lo sguardo sugli altri, un profondo percorso di ricerca esistenziale.
Dopo una prima esperienza al teatro Duse, firma reportage di documentazione e denuncia sociale come quello sui portuali genovesi e fotoracconti.
Fra il 1958 e il 1967 visita diverse volte Israele, nei primi anni 70 viaggia in Afghanistan e in India. Nel 1972 pubblica per l'editore Essedi Editrice di Roma Travestiti, un libro che fece scandalo.
I suoi viaggi in Oriente culminano nell'incontro con il maestro Babaji e segnano la seconda svolta della sua vita. Nel 1979 fonda a Cisternino, in Puglia, l'ashram Bhole Baba, e si dedicherà alla diffusione dell'insegnamento del suo maestro.
Piergiorgio Branzi. Cresciuto a Firenze, comincia a fotografare negli anni cinquanta. Formatosi nella tradizione figurativa toscana, si identifica nel “realismo-formalista”.
Nel 1955 intraprende un lungo viaggio in motocicletta, attraverso l'Abruzzo e il Molise, la Puglia e la Lucania, la Calabria e Napoli, ma anche verso le zone depresse del Veneto. L' anno successivo attraversa la Spagna.
Collabora all'esperienza editoriale de Il Mondo di Mario Pannunzio, registrando con le sue immagini la nascita convulsa della società di massa, il formalismo nei comportamenti della nuova borghesia, il graduale processo di omologazione consumistica.
Verso la fine degli anni cinquanta, dopo aver abbandonato gli studi di giurisprudenza, rallenta l'attività fotografica cercando uno sbocco nel giornalismo scritto. All'inizio degli anni sessanta è assunto dalla RAI. Nel 1962 il direttore del Telegiornale, Enzo Biagi, lo invia a Mosca, quale corrispondente televisivo occidentale nella capitale sovietica.
Nel 1966 lascia Mosca per assumere l'incarico di corrispondente da Parigi. Dopo il maggio 1968, rientra a Roma come conduttore e inviato speciale del Telegiornale. Realizza inchieste e documentari in Europa, Asia, Africa.
Dopo l'esperienza moscovita lascia la fotografia sperimentando la pittura e l'incisione. Riprende a fotografare a metà degli anni novanta per una rivisitazione dei luoghi pasoliniani.
Dal 2007 sperimenta le possibilità della tecnica digitale. Numerose mostre personali delle sue immagini sono state ospitate in Gallerie private, Musei, Istituzioni pubbliche.