Wildlife Photographer of the Year 2013
Wildlife Photographer of the Year torna al Museo Minguzzi di Milano, dal 19 ottobre al 22 dicembre. In esposizione le 100 immagini premiate al più prestigioso concorso di fotografia naturalistica del mondo, indetto dal Natural History Museum di Londra con il Bbc Wildlife Magazine. Il premio si tiene ogni anno dal 1964 e in questa edizione ha visto la partecipazione di 98 paesi, con oltre 48.000 concorrenti selezionati da una giuria di esperti e fotografi naturalisti. Tra le opere finaliste esposte spicca il premio più ambito, il Veolia Environnement Wildlife Photographer of the Year, assegnato al fotografo canadese Paul Nicklen per la sua fotografia Bubble-jetting emperor: un’immagine spettacolare di pinguini imperatori, nel loro caotico mondo sottomarino, scattata nel Mar di Ross, in Antartide. Paul è rimasto immobile, con le gambe bloccate nel ghiaccio, aspettando i pinguini. Improvvisamente gli uccelli sono saltati fuori dalla profondità e, con le dita congelate, il fotografo ha catturato questa incredibile immagine che, secondo il parere espresso dalla giuria, “ti trascina per un attimo nel privato mondo dei pinguini imperatori: un caos infinito e perfettamente organizzato”. Lo stesso premio per la categoria junior, 11-14 anni, è stato vinto dall’inglese Owen Hearn con Flight paths: una splendente aquila e sullo sfondo di un aeroplano in lontananza. La foto è stata scattata nel luogo originariamente scelto per il terzo aeroporto di Londra, nel 1960, quando le aquile rischiavano l’estinzione. L’opposizione alla costruzione dell’aeroporto e la reintroduzione delle aquile, ha fatto sì che oggi questi uccelli possano volare ancora. Due fotografi italiani hanno ricevuto menzioni speciali: Fortunato Gatto con la foto Celebration of a grey day, un paesaggio che ritrae la Laig Bay, in un’isola della Scozia nord-occidentale, menzionata nella categoria Paesaggi incontaminati; e Hugo Wassermann con la foto Positioning che immortala un’upupa su un tronco, nella nebbia, menzionata nella categoria Visioni creative della natura.
Robert Capa in Italia 1943-1944
Considerato da alcuni il padre del fotogiornalismo, da altri colui che al fotogiornalismo ha dato una nuova veste e una nuova direzione. Robert Capa il famoso fotografo ungherese, pur non essendo un soldato, visse la maggior parte della sua vita nei campi di battaglia, seguendo i cinque maggiori conflitti mondiali: la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana del 1948 e la prima guerra d’Indocina. Settantamila foto scattate in quasi quarant’anni di vita. Questa è l’eredità custodita a New York, all’International Center of Photography. Da questo enorme patrimonio proviene la selezione di 78 fotografie ospitate fino al 6 gennaio nel Museo di Roma Palazzo Braschi. Capa, esiliato dall’Ungheria nel 1931, inizia la sua attività di fotoreporter a Berlino e diventa famoso per le sue fotografie scattate durante la guerra civile spagnola dal 1936 al 1939. Quando arriva in Italia come corrispondente di guerra, ritrae la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio: un viaggio fotografico, con scatti che vanno da luglio 1943 a febbraio 1944 per rivelare, con un’umanità priva di retorica, le tante facce della guerra spingendosi fin dentro il cuore del conflitto. Ed è così che Capa racconta la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti. E i soldati alleati, accolti a Monreale dalla gente, o in perlustrazione in campi opachi di fumo. Settantotto fotografie nelle quali l’obiettivo di Capa mostra una guerra subita dalla gente comune, piccoli paesi uguali in tutto il mondo ridotti in macerie, soldati e civili vittime della stessa strage.
Wim Wenders, Appunti di viaggio
Uno dei principali protagonisti del Nuovo Cinema Tedesco, uno dei registi più attenti alla fotografia. La sua attività di film maker è da sempre accompagnata dalla fotografia che riveste nei suoi celebri film un ruolo fondamentale nella descrizione di atmosfere sospese, nella realizzazione di immagini pregnanti di paesaggi desolati o di scenari urbani in cui il tempo è all’opera. Appunti di Viaggio è il titolo della mostra allestita a Napoli, a Villa Pignatelli, fino al 17 novembre, che raccoglie una selezione di 20 fotografie di diverso formato scattate nell’ultima decade e tratte dalla pubblicazione più recente di Wim Wenders, Places Strange and Quite edita nel 2011. Le opere esposte, realizzate in Germania, Armenia e Giappone sono accompagnate da brevi appunti dell’artista che “immortalano” il pensiero al pari delle immagini. La fotografia è per Wenders strumento per fissare la realtà dalla quale l’uomo si sta progressivamente allontanando rapito dalla virtualità dell’epoca contemporanea e favorito dall’utilizzo delle nuove tecnologie digitali. L’apparente staticità delle immagini, confrontata con quelle in movimento dei film, è superata divenendo spunto per un racconto. Frammenti di una verità personale dichiarata attraverso l’“angolazione” che stimolano però la capacità immaginifica dello spettatore, accompagnato in questo viaggio anche dagli appunti dell’artista. Il corpus di opere in mostra rispecchia i filoni principali della ricerca di Wenders: la percezione diretta della realtà nel vedere e nel viaggiare. Immagini sospese che raccontano il passaggio dell’uomo attraverso la sua assenza, la memoria dei luoghi in un silenzioso flusso del tempo.
Francesco Comello, Oshevensk
Fino al 9 novembre la Galleria San Fedele di Milano ospita Oshevensk, mostra fotografica di Francesco Comello. Ecco come la curatrice, Gigliola Foschi, la presenta: «Oshevensk, un nome che appare remoto, lontano, mai ricordato e mai dimenticato. Nessuno, presumibilmente, ha sentito parlare di questo villaggio, eppure esiste. Indicato solo sulle carte più dettagliate, si trova lassù, nella fredda Russia del nord, 650 chilometri a est di San Pietroburgo. Eppure, una fredda mattina d’agosto, Francesco Comello lo ha raggiunto una prima volta, per poi tornarci ancora e ancora. Voleva rinsaldare i rapporti con la gente semplice e generosa che vi abita, capace di amare la natura del Nord nonostante la sua implacabile durezza. Voleva tornare a respirare quell’aria, quelle atmosfere sospese nel tempo. Desiderava farsi parte di questo umile villaggio rurale, sorto nel XV secolo attorno a un monastero fondato da un monaco che poi ha attribuito il proprio nome al villaggio stesso. Arrivare a Oshevensk è stato per Comello “compiere un salto indietro nel tempo, è stato come entrare dentro le suggestioni di un film di Tarkovskij, o in un romanzo di Tolstoj” - così ci racconta. Eppure è difficile non pensare che anche qui il comunismo dell’era dei Soviet non sia intervenuto in modo violento: il monastero, infatti, è stato in parte distrutto; la religione proibita; forse qualcuno sarà stato mandato ai lavori forzati; forse saranno stati eliminati i kulaki spiegando che questi proprietari terrieri “non erano uomini” (come scrive Vasilij Grossman). Ciò non di meno, lentamente, a Oshevensk tutto è tornato come nei tempi di sempre, quando non si parlava di rivoluzione, ma solo di fede, affetti famigliari, feste da celebrare assieme. La luce è tornata a splendere nelle tenebre: quella luce di una vita semplice, tenace, dove la religiosità fa parte della vita, dei gesti quotidiani come il mangiare e il dormire. Dove non ci si chiede se credere o no in Dio, ma ci s’impegna a servirlo. In sintonia con le atmosfere di questo paese, le fotografie di Francesco Comello sono rispettose e quasi ovattate, a loro volta anacronistiche e volutamente non allineate con le tendenze contemporanee del reportage. Nel suo lavoro, infatti, non si trovano immagini dure, volutamente espressive, al limite della falsità. Lui usa il classico bianco e nero con delicatezza. Non impone la sua presenza, ma lascia che l’obiettivo della sua macchina diventi un sensore capace di accogliere piccole storie quotidiane, atmosfere, emozioni. Nel suo sguardo non c’è nessun senso di superiorità e neppure di lontananza: non scopre Oshevensk, la ri-trova come una parte di sé, come un luogo dell’anima, dove riavvertire il senso della vita che scorre lentamente. Mai nostalgico, il suo lavoro ci esorta a riscoprire la lezione del passato e della semplicità, per provare a dare un senso nuovo al nostro stesso futuro».