America dell'Ovest anni Settanta, esterno giorno, a volte qualche interno. È questo il contesto delle immagini di Stephen Shore, in mostra fino al 25 aprile al Museo di Roma in Trastevere dopo un lungo tour che dagli Stati Uniti ha attraversato l'Europa. Biographical Landscape, 164 fotografie, realizzate tra il 1969 e il 1979, una metodica esplorazione dei "luoghi insoliti" dell'America di quegli anni. Un catalogo della normalità, influenzato dall'arte concettuale e dalla cultura pop: incroci stradali, parcheggi, esterni di cinema, interni di stanze e locali, l'assenza sostanziale di presenza umana.
La lezione di Shore, se ce n'è una, è quella del minimalismo, dell'essenzialità dello sguardo, una poetica della sottrazione dell'istante il più possibile speciale (per combinazione di luce, volumi, soggetti, azione, segni, sensi), la scelta della registrazione-fissazione del presunto reale, quello che lo sguardo composto dell'autore sceglie di cogliere, con rigore, senza estetizzazioni.
© Stephen Shore
Come ha scritto Robert Venturi, per l'occasione, «Shore cattura l'essenza del panorama americano fotografando il particolare, gli elementi ordinari che si rivelano universali e straordinari. Il punto di vista del suo obiettivo non è mai speciale. È quello dei nostri occhi distratti, che vagano attraverso luoghi familiari facendo cose ordinarie - aspettando un autobus o concentrati su un incarico. Negli scatti di Shore, scopriamo immagini smarrite che abbiamo ignorato per la loro familiarità o rifiutato per la loro banalità. La nostra mente cosciente cerca scene più o meno interessanti: vette alpine o piazze italiane; nell'arte di Shore confrontiamo ciò che usualmente non notiamo, strade e facciate che ben conosciamo e vagamente, mediamente ricordiamo e mediamente dimentichiamo. Shore è l'arte dell'impassibile - rifiutando composizioni esotiche, abilmente artefatte o di facile interpretazione. Egli accetta la logora banalità dello scenario americano, fino agli stanchi talloni dei nostri panorami rurali e la rilassatezza spaziale delle nostre città, ricatturandone l'intimità, rendendola intensa, coerente, pressoché amabile».
© Stephen Shore
Le 164 fotografie esposte sono suddivise in ordine cronologico, a partire dal primo viaggio attraverso l'America. I lavori raccolti nella prima sezione, nati nell'ambito della Pop Art, sono affiancati da parte della collezione di cartoline di Amarillo (Texas) e dalle fotografie All the Meat You Can Eat, una mostra curata da Shore nel 1972. La seconda sezione raccoglie immagini in cui il fotografo sviluppa un diverso approccio alla realtà, più concentrato su una prospettiva lineare dove le composizioni e i titoli delle fotografie enfatizzano la natura biografica dei paesaggi. Il terzo periodo è caratterizzato invece dal rifiuto di ogni punto focale o di singoli punti di prospettiva; in questo modo Shore allude alla realtà che si trova dietro le immagini, estendendole oltre il confine della fotografia. Nel 1980 l'artista si concentra su paesaggi che sono molto diversi dalla serie Uncommon Places, radicalizzando ancora di più il rifiuto della prospettiva dei suoi ultimi lavori.
© Stephen Shore
Chi è
Stephen Shore è considerato uno tra i più rilevanti e influenti fotografi americani della seconda metà del secolo. A soli sei anni riceve in regalo una vera camera oscura, a 9 inizia ad usare una 35mm, a 17 già frequenta la Factory di Andy Warhol e a 24 è il primo fotografo vivente a ottenere una mostra personale al Metropolitan Museum of Art di New York. Una vita di avanguardia quella di Stephen Shore che nel 1972, a 25 anni, diventa pioniere delle fotografie a colori in grande formato scattate attraverso l'America, da New York fino al Texas.
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