L'Editrice Progresso - fondata alla fine dell'Ottocento(1894) da Rodolfo Namias, come strumento di comunicazione delle proprie ricerche nell'ambito della chimica fotografica - è oggi la principale casa editrice italiana nel settore della fotografia. Pubblica le riviste Tutti Fotografi, Zoom, PC Photo, Progresso Fotografico e Classic Camera, oltre al sito internet www.fotografia.it; uno dei suoi punti di forza è il Centro Studi Progresso Fotografico, per le sue misurazioni di fotocamere e obiettivi.
Di seguito, oltre ad alcuni contenuti e immagini estratti dalle riviste, due chicche speciali per i lettori di Sguardi: il test MT dell'obiettivo 14-24mm, realizzato dal Centro Studi Progresso Fotografico (pubblicato su Tutti Fotografi) e il link, sfogliabile, a un estratto della rivista Tutti Fotografi di novembre 2009, la cui consultazione è di norma riservata agli abbonati: http://www.fotografia.it/images/riviste/Tf/TFzzdd1109/index.html.
Nikon AF-S Nikkor 14-24mm f/2.8 G ED SWF IF Aspherical
Precisiamo innanzi tutto che questo zoom Nikon è progettato per il formato Full Frame FX; la minima focale raggiunta, 14 mm, ha in questo caso una copertura angolare enorme, ben 114 gradi. È la prima volta che Nikon rilascia uno zoom grandangolare così estremo, e lo fa guardando agli utilizzi professionali, per cui non trascura di dotarlo di una luminosità molto elevata, f/2.8. La realizzazione è estremamente curata dal punto di vista meccanico, con un'ottima ghiera di messa a fuoco manuale che rimane abilitata anche durante l'utilizzo autofocus (full time manual focus). Il motore AF è ad ultrasuoni SWM (Silent Wave Motor) e consente una messa a fuoco silenziosa. La baionetta dispone di una guarnizione in gomma che protegge la fotocamera dall'infiltrazione di acqua e polvere. Lo schema ottico prevede 14 lenti raccolte in 11 gruppi; 2 gli elementi realizzati in vetro a bassa dispersione ED e ben 3 le lenti asferiche. Il diaframma è realizzato con 9 lamelle, per la massima piacevolezza dello sfuocato. Manca la ghiera di controllo del diaframma, come avviene per tutti gli obiettivi Nikon G. La minima distanza di messa a fuoco è di 0,28 metri, a cui corrisponde un ingrandimento massimo di 1:6,7. La messa a fuoco avviene tramite il movimento di gruppi di lenti interne (internal focus). Il trattamento superficiale di una lente utilizza la tecnologia Nano Crystal Coat, particolarmente efficace nella riduzione dei riflessi delle ottiche grandangolari su un'ampia gamma di frequenze della luce. Il paraluce a tulipano è solidale con il barilotto e varia la sua copertura col variare della focale. A 14mm infatti la protezione deve essere minima, per evitare di introdurre vignettatura. È impossibile montare dei filtri in quanto la lente frontale, che ha un diametro molto grande ed una forte curvatura, sporge frontalmente dal barilotto; inoltre rimane esposta ad urti e graffi, nonostante il paraluce fornisca una certa protezione. Per risolvere questo problema sono forniti a corredo un buon tappo in plastica da montare sopra il paraluce, ed una custodia imbottita semirigida, realizzata in tessuto impermeabile. La resa ottica è splendida, con una nitidezza sul pieno formato eccellente già da 16mm. È soprattutto la qualità ai bordi ad impressionare: infatti, mentre abitualmente nelle focali corte i bordi presentano un netto calo di definizione, qui hanno una resa pressoché identica a quella del centro del fotogramma. Come noterete, non pubblichiamo i risultati MTF alla focale minima sul Full Frame (partiamo da 16mm); il nostro banco di prova infatti, benché estremamente sofisticato, non ci consente per ora l'analisi di un angolo così ampio come quello coperto da questo obiettivo. La focale 14mm l'abbiamo invece esaminata sul formato DX. Qui possiamo notare prestazioni allineate con quelle della focale immediatamente più corta, da cui possiamo presumere un analogo eccellente comportamento sul pieno formato anche a 14mm. Buona la correzione della distorsione, ed ottima quella della vignettatura. Perfetta la corrispondenza della massima apertura del diaframma con i valori dichiarati. È in conclusione un grande obiettivo, che ha come unica controindicazione il prezzo elevato.
Gianni Berengo Gardin
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su Tutti Fotografi Dicembre 2009)
Abbiamo incontrato Gianni Berengo Gardin in occasione della presentazione del suo ultimo libro, Reportrait. Incursioni di un reporter nel mondo della cultura e abbiamo affrontato con lui il tema del reportage e della "vera fotografia".
Che cosa è per lei il reportage?
Il reportage è tutto ciò che ruota attorno alla vita dell'uomo, nei suoi vari aspetti. Può essere reportage anche la foto di architettura, sempre che ci sia la presenza dell'uomo.
Si vede ancora del buon reportage oggi?
Sì, ma purtroppo poco, anche perché i giornali non sono disposti a pagare il tempo necessario per realizzare buone fotografie di reportage. Per esempio, un tempo per fare un reportage su Budapest si veniva inviati un mese, oggi due giorni. Il fotografo così è obbligato a fare foto "sceme", con gente magari impalata davanti all'obiettivo. Non c'è più azione. Koudelka dice sempre che nelle fotografie dovrebbe succedere qualcosa, invece non succede più niente. L'altro aspetto negativo è che i giornali sono interessati in gran parte solo a politici e a personaggi della televisione.
Il tema di questo libro, il ritratto, è un po' "insolito" per lei. Una carrellata di personalità del Novecento, da Eco a Pasolini, da Warhol a Dario Fo, da Calvino a Fernanda Pivano fino a De Chirico, Pavarotti, Ungaretti, Fuksas...
È nato un po' per gioco, perché appunto il ritratto non è il genere di foto che faccio, visto che da sempre mi dedico prevalentemente alla fotografia di reportage. I personaggi che compaiono nel libro erano o sono soprattutto amici, e ho voluto così raccogliere le foto degli amici. Non si tratta neppure di veri ritratti, li definirei piuttosto "figure ambientate".
Il suo è un archivio immenso, è stato difficile scegliere le fotografie che appaiono nel libro?
Sì, decisamente. Nel volume sono raccolti circa 210 scatti e per decidere quali pubblicare ho deciso di limitare la scelta al mondo dell'arte e della cultura. Tanti personaggi sono stati esclusi proprio in virtù di questo criterio di scelta.
In che contesti sono state scattate queste fotografie?
La maggior parte in situazioni di amicizia, alcune in veste professionale. Il legame di amicizia a volte è nato proprio fotografandoli, frequentandoli. Renzo Piano, per esempio, l'ho fotografato per quindici anni, ed alla fine è diventato un amico.
Il ritratto: spontaneo, posato o rubato?
Non sono quasi mai per il ritratto posato. Cerco la spontaneità, non la posa classica.
Per lei è molto importante la contestualizzazione della persona, i suoi oggetti...
Certamente. I pittori sono legati ai quadri, un architetto come Renzo Piano ai suoi modellini, altri ad oggetti personali: Giorgio Soavi, che era un poeta e collezionava quadri, è ritratto con le sue tele.
C'è uno scatto a cui è legato in modo particolare?
No, decisamente. È come chiedere a una persona che ha dieci figli quali preferisce... li preferisco tutti.
C'è stato qualcuno particolarmente difficile da ritrarre?
Direi di no. Federico Fellini ha fatto un po' di storie, non mi aspettavo che mi dicesse "mi fotografi solo a destra, che a sinistra vengo male".
Claude Nori
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su Zoom Novembre-Dicembre 2009)
Di origine italiana, amante del nostro cinema a cui dedicherà un libro fotografico, è appena stato al festival di Venezia dove ha assistito in anteprima alla programmazione di una serie di film. Tra cui Deserto rosa di Elisabetta Sgarbi, dedicato a Luigi Ghirri, suo grande amico.
Come nasce il tuo amore per il cinema?
Per me il cinema e la fotografia sono molto legati e ho sempre pensato che la fotografia avesse più attinenza con il cinema che con la pittura. Non è un caso che molti registi siano anche fotografi, si pensi a Depardon, a Klein, a Wim Wenders, a Tornatore. Ma con la fotografia le storie si raccontano anche attraverso i libri. Fare un libro è come fare un film. La fotografia negli anni '70 si era stufata di seguire i canoni pittorici che promuovevano posti belli da suddividere in proporzioni, sezioni e quarti. La fotografia aveva più sintonia con la cinepresa o con la letteratura, con il caso, la vita, il movimento, l'imperfezione della realtà. E a Venezia ci sono andato con un po' di nostalgia; volevo rivivere i luoghi di certi film, sono stato per esempio all'Hotel des Bains di "Morte a Venezia". Continuo a fare foto con la mia Nikon degli anni '70, sono affezionato al bianco e nero. Quando ho cominciato a fare cinema, nel '69, usavo una piccola cinepresa. Giravo dei filmini amatoriali sulle spiagge italiane; giocavo a fare il neorealista, ma in maniera leggera, ironica, senza autocompiacimento.
E riguardo al tuo prossimo libro sul cinema italiano?
Uscirà nel 2010 e si chiamerà "Il mio cinema italiano". Racchiude vent'anni di lavoro. É cominciato tutto quando vidi una ripresa ravvicinata di Monica Vitti in un film in bianco e nero. Sarei stato a guardarla per ore, così bella. Mi dissi che dovevo assolutamente ritrarla anch'io. Ma è un libro anche sui luoghi del cinema, non solo sugli attori. Mia madre, nata vicino a Verona, ha lavorato nelle risaie con le mondine e da piccolo mi raccontava le sue esperienze. Ne ho fatto tesoro, e mi sono riallacciato a "Riso amaro", per naturale attinenza. Poi sono finito per caso sul set di "Novecento", ho fotografato Stefania Sandrelli e Maria Schneider giovanissime, ho percorso tutti i lungomari della penisola alla ricerca di momenti magici. Durante il fascismo, nel '45 ci siamo spostati a Tolosa, in Francia, ma ogni estate mi portavano in vacanza al mare in Italia, con la Simca blu di mio padre. Ebbene, nel mio viaggio fotografico interiore, ho voluto rivedere quei luoghi in cui avevo provato così tanta meraviglia e felicità.
Cheyco Leidmann
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su Zoom Novembre-Dicembre 2009)
Di Cheyco Leidmann, l'artista che vive e lavora tra Parigi e gli Stati Uniti, molti conoscono le immagini di "Foxy Lady", il titolo del volume pubblicato negli anni '80 che in breve tempo divenne un cult. Grande amante del colore forte e delle tinte sature, fluorescenti, abile creatore di giochi di luci e ombre, in quel periodo creò uno stile assolutamente riconoscibile, d'avanguardia. Con il lavoro più recente, "Toxytt", volume dato alle stampe lo scorso anno, Cheyco Leidmann ha abbandonato in gran parte quello stile per sperimentare un linguaggio visivo tutt'altro che convenzionale, quasi disarticolato. Concepito come una sorta di romanzo realista, ambientato tra Los Angeles, Miami, New York e Parigi, affronta il tema della pazzia, della violenza, dell'oscenità, della rabbia, del sesso, e della furia in tutti i loro aspetti. Lo stesso coraggio che lui chiede a se stesso nell'affrontare questi temi, le immagini di Toxytt lo chiedono all'osservatore. Alla Wave Photogallery di Brescia sono esposte, dal 28 novembre, ottantacinque immagini di Cheyco, da Foxy Lady, Sex is Blue, Freeze, Silicon, Toxytt. Il titolo enigmatico di questa antologica è SYZYGY: il codice di Cheyco Leidmann.
Christophe Gilbert
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su Zoom Novembre-Dicembre 2009)
«Puoi dire che sono un fotografo che si è fatto da sé, ma la verità è che ho studiato, un sacco, lavorando come assistente per un noto fotografo di automobili, all'inizio degli anni '80. Le macchine riflettono tutto ciò che gli sta attorno, così occorre destreggiarsi al meglio per trovare il modo in cui la luce può dar vita ad un pezzo di metallo. È una buona scuola. Ma ho presto realizzato che la fotografia non ha molto a che fare con la tecnica. Mi è sembrata molto più semplice: tutto quello che ti serve è un occhio, preferibilmente collegato a un cervello. Mi sono avvicinato alla fotografia pubblicitaria quasi dall'inizio, e questo mi ha fatto capire qualcos'altro: non c'entra cosa vedi e nemmeno come lo vedi, c'entra come vuoi che le cose siano viste. Fotografie con uno scopo. Ma raramente traduco un concetto esattamente come è stato abbozzato. Mi sentirei inutile. Provo ad afferrare l'idea, poi cerco la strada migliore per valorizzarla in un'immagine».
Anna Tomczak
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su Zoom Novembre-Dicembre 2009)
Anna Tomczak è famosa per i suoi still life poetici che contengono, come in un cofanetto prezioso, tutte le cose personali a cui lei vuole bene. Realizzati soprattutto con la Polaroid gigante ed il processo Polacolor Transfer Prints con trasferimento dell'immagine su carta per acquerello, il loro effetto è pittorico, spirituale e non bisogna aver fretta di guardarli se vogliamo che "ci arrivino dentro". Sono tableaux intimi che confinano col mistero e la segretezza. Sono opere un po' religiose e un po' alchemiche, perché contengono sassi, piume, foglie, petali, scheletri di piccoli animali raccolti in giardino, elementi botanici, candele votive ed immaginette religiose, schiene nude di donne in carne ed ossa, gatti vivi acciambellati, cartoline, scampoli di seta, manoscritti antichi, pezzi di vetro e frammenti di ceramica. Un amalgama solo apparentemente sconclusionato di materiali che l'autrice colleziona nel corso degli anni: souvenir da tutto il mondo, oggetti di famiglia, marionette folcloristiche, ninnoli scovati nei mercatini d'antiquariato, nei solai, alle aste, dai robivecchi. Nulla viene buttato. Anzi, secondo la sua filosofia generosa, tutto è degno di essere raccolto, aggiustato, salvato e immortalato in un ciclo coerente dove il passato può diventare futuro. Nel suo santuario ("Sanctuary" è il titolo della sua ultima serie fotografica) le cose immagazzinate non muoiono mai perché sono pluri-fotografate, rigenerate, riciclate, riconvertite a nuovo uso, resuscitate per nuovi destini.
Monica Silva
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su PC Photo Novembre 2009)
Dolcenera
Si tratta di uno scatto rubato, eseguito a Dolcenera con la Nikon F4. Erano i soliti scatti che faccio per me su pellicola in bianconero, con quei tagli inconsueti che faccio io, ma non pensavamo di usarli. Un mio assistente aveva scansionato tre fotogrammi, così per gioco, e sono finiti quasi per sbaglio nella cartella consegnata al cliente. Senza dirmi niente, hanno aggiunto l'effetto seppia e mi hanno consegnato la copertina così. Mi ricordo che mi avevano "proibito" di ritrarla sorridente perché l'immagine della rocchettara doveva essere dura. Oggi il suo look è cambiato, ma nel 2005 l'idea era quella, pensa.
Noemi
Noemi è una persona difficile da fotografare, perché non sta mai ferma, è sempre piena di smorfie, in più c'erano cinquanta persone intorno a guardare mentre la fotografavo. La Sony mi aveva chiamato per fare tutta la serie dei protagonisti di X Factor per una compilation e per i mini album di qualcuno. Io guardo pochissima TV e quando mi hanno chiamato non sapevo chi fossero e cosa facessero. Da un lato è anche bello, perché spesso non voglio prepararmi sulle persone da fotografare, preferisco l'impatto del momento e non arrivare con dei pregiudizi. Avevamo allestito un set nello studio Rai di X-Factor e mi concedevano cinque minuti per ogni cantante, prima di entrare in scena. Pensa te, capire una persona e fotografarla in cinque minuti! Nonostante tutto, sono venute delle belle foto, tutte diverse tra loro. Due domande per farli sciogliere, magari una provocazione per vedere il tipo di reazione e poi via, avanti il prossimo!
Enzo Dal Verme
(estratto dell'intervista e del portfolio pubblicati su PC Photo Dicembre 2009)
Laetitia Casta
Le persone come lei, abituate a farsi fotografare, spesso si muovono davanti all'obiettivo in maniera disinvolta ma anche un po' predeterminata. Prima di eseguire questo ritratto ho scherzato e l'ho fatta ridere, lei ha cominciato a farmi le boccacce e un sacco di gesti. Così è nata la foto.
Willem Dafoe
Se il soggetto non fosse un famoso attore di Hollywood questa fotografia perderebbe molto del suo impatto. Tuttavia, nella sua semplicità, è una immagine che rappresenta bene un aspetto fondamentale del mio lavoro, ovvero la ricerca di una intensa espressività.
Amanda Lepore Modella statunitense, nota transessuale, musa del fotografo David LaChapelle. Icona della moda, modella apparsa su numerose riviste patinate, grazie alla sua immagine eccentrica.
In occasione della prossima fine dell'anno, l'Editrice Progresso propone, a chi è appassionato di fotografia e vuole fare un dono che vive per un anno, di regalare un abbonamento a scelta tra le sue riviste - Tutti Fotografi, PC Photo, Zoom, Classic Camera – ricevendo poi in dono un altro abbonamento per sé. Per info:
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