Una masseria, qualche animale, una storia d'amore, una coppia di giovani siciliani, due immigrati (un marocchino, un albanese), la campagna agrigentina, il ritorno dai campi, gli interni della casa, la sera e la notte. Questi sono gli elementi di Iàvàivòi, il lavoro più recente di Franco Carlisi attualmente in mostra presso le Officine Fotografiche di Roma, che così lo presenta sinteticamente: "Iàvàivòi è un reportage su una piccola comunità multietnica che vive a Grancifuni, nell'entroterra siciliano. La globalizzazione ha indebolito la percezione del senso di appartenenza portando l'uomo a riconoscere la propria identità in una mera affiliazione etnica o religiosa. Negando una società fatta da individui in cui si sono stratificate diverse identità simultanee. A Grancifuni il bisogno di identità si estrinseca nella naturale necessità di relazione all'interno della comunità e porta a comuni appartenenze ad identità collettive. Individui diversi, dalle diverse origini, a Grancifuni, in una terra di nessuno si riconoscono in una sola identità: quella universalmente umana".
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Ecco il testo "Fotografie in versi" che Gigliola Foschi ha scritto per Iàvàivòi:
"Fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è accettazione…", ha sempre sostenuto la fotografa americana Nan Goldin. In sintonia con il lavoro di questa autrice, il siciliano Franco Carlisi crea immagini che sono a loro volta un viaggio di avvicinamento verso gli altri, verso la loro vita, le loro emozioni. Fatto di frammenti carichi di momenti intimi e intensi, di sguardi e carezze, il suo modo di narrare è come una poesia in cui ogni immagine diviene un verso capace di dar vita a un piccolo mondo aperto verso l'immaginazione di chi osserva. Protagonisti delle sue immagini sono Anna e Davide e la fatiscente masseria in cui vivono assieme a un marocchino e a un albanese. Isolati in campagna, nei pressi di Agrigento, coltivano la terra e allevano qualche cavallo, qualche gallina, un gallo, due cani, alcune pecore. Se il lavoro di Ferdinando Scianna sui riti popolari è stato – come egli stesso racconta – un modo "per salvare qualche cosa che si stava perdendo (…) un grande sventolio di fazzoletti già nostalgico nei confronti di un certo mondo che era poi quello contadino", nell'opera di Carlisi tale bisogno di salvaguardare la memoria della sua terra non trova più soggetti "forti" e neppure i profumi di un tempo. Anna e Davide conducono una vita certamente dignitosa, fatta di gesti che conoscono ancora il sapore delle cose e della natura, ma è come se su di loro, sulla loro vita di contadini radicati alla terra, fosse caduto una sorta di velo che li abbandona alla marginalità e li rende socialmente invisibili, ininfluenti.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Finiti gli anni dell'opposizione tra città e campagna, ora la città ha vinto su tutti i fronti e si è trasformata in una sorta di essere onnivoro che dilaga ovunque, che penetra anche là dove non appare. Così, questo imporsi della città diffusa come nuovo modello unico di vita, finisce per condannare all'abbandono casolari e cascine ormai inutili, riduce la campagna a una sorta di residuo inerte, come sopravvissuto per sbaglio tra capannoni e villaggi outlet, strade e svincoli, villette a schiera e complessi turistici. Una simile avanzata rende Anna e Davide, assieme a molti altri, simili a clandestini "rispetto a una società che confonde il bello con il funzionale, la gioia con il frastuono; dove non si afferma il vero, ma si esalta il verosimile" – come racconta l'autore. I viaggi di Carlisi, verso la masseria in cui loro abitano, nascono quindi dal bisogno di ridare voce, visibilità, a chi vive nell'ombra. E' come se l'autore avvertisse che la loro vita, forse proprio perché marginale, può ricordarci e far riemergere un mondo di valori, emozioni e sentimenti che ci appartiene intimamente, ma che stiamo dimenticando.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Abbandonati i neri materici squarciati da luci improvvise del suo precedente lavoro Altari di Sassi, in questa sua recente ricerca Franco Carlisi ha voluto affrontare il colore. Un colore non inteso dal punto di vista della seduzione, ma trattato come una materia porosa, sensibile alle minime vibrazioni, capace di assorbire e restituire atmosfere e umori. Anche lo stile della ripresa è volutamente meno forte e drammatico: qui non ci sono volti che baluginano all'improvviso dall'oscurità con sguardi intensi e ravvicinati, e neppure primi piani esasperati che paiono voler invadere l'inquadratura. Se nel lavoro Altari di sassi l'autore faceva riemergere volti simili a fantasmi di un mondo antico – volti che per l'ultima volta ci apparivano vicini e squarciavano l'oscurità dell'oblio – in questa sua recente ricerca ha invece adottato un registro più intimo, proteso all'ascolto e a un lento avvicinamento. Un desiderio d'ascolto che riecheggia anche nel titolo della sua opera, cioè Iàvàivòi, dal grido con cui Davide chiama i suoi animali. Ogni suo scatto è un gradino verso il superamento della distanza tra l'io del fotografo e le persone con cui è entrato in relazione. Esse non sono infatti "di fronte" a lui – cosa che presuppone sempre una distanza, per quanto attraversata da un'interrogazione – ma divengono parte delle sua stessa vita, come se attraverso di loro egli ritrovasse una sua, una nostra, memoria perduta.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Carlisi non fotografa infatti per descrivere, ma per superare la barriera che lo divide da quanto sta guardando, per infrangere la superficie della realtà ed entrarci dentro. Il suo è una sorta di sentire vedente che mette in discussione la visione logocentrica e la distanza dello sguardo, rivelando le possibilità tattili ed emozionali del fotografare. Notturne, attraversate da bagliori lontani, le sue immagini evocano momenti intimi e situazioni sospese, senza mai raccontarle con esattezza: sfocate, mosse, a volte troppo ravvicinate per poter essere a fuoco, è come se ci volessero dire che nel mondo della iper-visibilità, le immagini consapevoli di sé devono saper accettare il mistero della realtà, senza cercare di squarciarne il velo. Come ha scritto Luigi Ghirri: "Si rischia oggi di giungere a un punto di scomparsa, a un'insensatezza dello sguardo per eccesso di visibilità. (…) Il mondo da abitabile e conosciuto è di colpo divenuto sconosciuto. Una mutazione ha cambiato il suo volto, come in un film di fantascienza. C'è una anestesia dello sguardo dovuto ad un eccesso di descrizione". Ed è proprio questo eccesso di descrizione quel che Carlisi evita, per puntare invece a uno sguardo che si fa strumento del sentire. In altre parole, quella che lui ricerca è una prossimità empatica, capace di cogliere anche le cose destinate a eludere la presa del nostro sguardo cosciente.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Così le sue immagini riescono come ad accarezzare il tempo, sanno accettare il buio, sanno immergersi in una penombra dove con delicatezza possono scrutare volti, mostrare sentimenti, senza mai arrivare ad esplicitarne il senso. Quella in cui lui si muove è un'oscurità non estetica, non appositamente ricercata per ottenere in modo artificiale un effetto di magia o di mistero. Tutto all'opposto, il buio in cui lui fotografa è quello di una notte che s'impone come inevitabile conseguenza di una necessità di vita. Solo all'imbrunire, infatti, Anna e Davide possono tornare a casa dai campi, così l'autore per incontrarli deve aspettare il calar del sole. Il racconto che lui ci fa della loro vita più intima si svolge dunque adagio fra le ombre, sera dopo sera. Lontana da aspetti aneddotici, folcloristici o antropologici, la sua ricerca è quindi costretta a fare i conti con il nero del cielo, con interni malamente illuminati, con la luce biancastra della televisione accesa. Non voluta, non cercata, tale oscurità inevitabile finisce a poco a poco per divenire una metafora della voluta solitudine di Anna e Davide, circondati come sono da una campagna dove il buio non è più quello tenebroso di una natura antica, ma una semioscurità sempre attraversata dai bagliori artificiali che scintillano perenni laggiù in città, dove brillano le luci di Agrigento. E tuttavia, questa solitudine, questa condizione marginale in cui vivono Anna e Davide, i loro amici e pure gli animali, non significa mera tristezza, miseria ed abbandono. Osservando infatti le foto di Carlisi – quelle sue immagini scattate con tanta amorosa attenzione – noi ci accorgiamo che l'emarginazione in cui tutti loro si ritrovano a vivere risulta al contempo protetta, riscaldata, come accudita da quella stessa oscurità che pure li separa simbolicamente e realmente dal mondo attivo e rombante della città, delle notizie che si accavallano, delle vite sospinte solo dalla fretta e dall'ansia. Ci accorgiamo che queste immagini intrise d'ombra sottraggono le cose alla visibilità abituale, per ripresentarle segnate da una differenza che le rende al contempo enigmatiche e oniriche, come attraversate da una vita che ci riguarda da vicino ma che non possiamo afferrare, né tanto meno giudicare. Immagini segnate da inquietudini e avvicinamenti, preziose come è preziosa l'esistenza di ognuno di noi.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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Chi sono
Sono nato nel 1963 a Grotte (AG). Dopo la laurea in Ingegneria Elettrica a Palermo mi sono finalmente potuto dedicare professionalmente alla fotografia. In questi anni ho viaggiato e realizzato un'intensa attività espositiva in Italia e all'estero polemica nei contenuti ed orientata prevalentemente verso la ricognizione del sentimento di non appartenenza. Dal 2006 sono direttore del periodico di immagini e cultura fotografica Gente di Fotografia dove approfondisco una riflessione teorica che ha da sempre accompagnato la mia attività fotografica. Nel 1998 una mia prima ricerca personale sul senso del morire e dell'eterno rinascere proprio della spiritualità siciliana viene selezionata dall'Università di Cambridge (GB) e da li ho poi esposto variamente in Italia e all'estero. Ricordando le mostre e i premipiù importanti: Festival Off des Rencontres d'Arles 2002., 16°Internazionale Photoszene Colonia 2002, Venezia Immagine 2002,Talent Photo Europe 2003, FNAC di Napoli, Roma, Genova, Torino, Milano e Verona, FNAC Montparnasse di Parigi, Festival des Rencontres d'Arles 2003, Festival Internazionale della Fotografia di Roma 2004, Fotoforum di Innsbruck 2004. Ho esposto inoltre la mia ricerca sul tema della marginalità e dell'emarginazione a Firenze presso il palazzo Medici Riccardie a Roma al Palazzo Massimo. Ho pubblicato tra l'altro: Rahal 1997, Che vuol dire per sempre 1998, Itinerari fotografici nella Valle dei Templi 1997, Il tumulto del cuore nella luce smarrita ed. Centro Culturale Pier Paolo Pasolini 1999, Leonardo Sciascia e la dimensione della memoria 2000, Altari di Sassied. Gente di Fotografia 2001, Dispersione 2005 ed. Amici della Pittura Siciliana, Iavaivoi ed. Gente di Fotografia 2006.
© Franco Carlisi - Iàvàivòi
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