Per alcuni è la star della foto di nudo italiana. "Nudo-glamour", tiene a specificare lui, che sulle orme delle illustrazioni di Vargas, quello che disegnava le pin-up per Playboy e le donnine della Coca-Cola, si è inventato uno stile riconoscibile e addirittura un genere.
Da anni Giovanni Cozzi si occupa esclusivamente della figura femminile, alternando il ritratto glamour di personaggi dello spettacolo al nudo ed alla fotografia di moda e pubblicitaria, fino ai calendari di icone popolari come Sabrina Ferilli.
Nato a Roma nel 1959, Giovanni Cozzi inizia a fotografare giovanissimo condividendo la passione del padre fotoamatore.
A vent'anni lascia gli studi universitari in Architettura per dedicarsi completamente alla fotografia, occupandosi in prevalenza di ritratto d'artisti, musicisti e attori e di fotografia di scena.
Inizia la collaborazione con le principali testate giornalistiche italiane ed entra in un'agenzia fotogiornalistica romana (la Reporter Associati, specializzata in giornalismo rosa), per poi fondarne con altri colleghi una propria.
Dopo aver collaborato stabilmente alla stagione editoriale di "Moda" e "King", lavora oggi per molte testate italiane e straniere (in particolare per i femminili Rizzoli e la catena internazionale di Max). Lavora prevalentemente in 35mm (Nikon) o in 120 (Contax 645).
Su quale progetto stai lavorando in questo momento?
Negli ultimi dieci anni ho lavorato in grandissima prevalenza sull'universo femminile. In queste settimane si sta realizzando il progetto di un libro su questi anni, dieci anni di foto di donne, che sarà stampato da Amilcare Pizzi e uscirà in edizione limitata in mille copie. Si chiama "Girls don't cry", le ragazze non piangono. Non piangono perché le ragazze hanno la forza, l'orgoglio di mostrarsi nude, non sono compiacenti, vedono me come un complice nella realizzazione del proprio orgoglio, a volte sfrontato, a volte pudico. Tendo a sottolineare la forza della donna, il coraggio; ne hanno di più degli uomini, che sono più noiosi e prevedibili.
Quel che mi intriga molto è essere un loro complice nella realizzazione di fantasie più o meno erotiche. Credo che negli occhi delle donne che fotografo non ci sia mai il senso di essere vittime, insomma non stanno a piangere. Amo anche l'amarezza che danno questi sguardi di donne. Per me è come mettere un punto nella carriera degli ultimi dieci anni: molte modelle, molte attrici, non solo celebrities ma anche nudo, moda e personaggi.
Perché hai sentito l'esigenza di metter questo punto?
Ho sentito il bisogno di lasciare una memoria di queste cose, di non buttarle via, di poter dire questo l'ho già fatto, per andare avanti o per cambiare strada. Metto questo punto e dopo voglio continuare a fare il fotografo, ma in maniera più progettuale e meno legata alla committenza.
In fondo mi sono sempre considerato un operaio di lusso, ma sempre un operaio che campa di fotografia da quando aveva vent'anni. Sono certo, comunque, che nel mio destino, nel mio karma le donne continueranno a essere molto forti.
La fotografia per me era una passione bruciante, mi ha bruciato per quindici anni.
Negli ultimi cinque anni ho cominciato a capire che resti bruciato anche dalle passioni e questo non mi piace. Io metto davanti a tutto la vita.
Magari continuerò a fotografare donne, ma in un altro modo.
Anche se so che se domani smetto di fotografare Sabrina Ferilli, non esisto più; il fotografo esiste fondamentalmente per quello che fotografa. Io non sono un fotografo d'arte, io fotografo belle ragazze.
A proposito di belle ragazze, ti prepari in qualche modo o preferisci arrivare con uno sguardo vergine?
Credo sia meglio arrivare con uno sguardo vergine. Certo, a volte i personaggi ti hanno incuriosito, hanno un loro alone, spesso creato dagli stessi media, ma che poi non è in realtà quello della persona. Il servizio fotografico è fare media, è comunicazione; è uno spettacolo che facciamo insieme, in una seduta fotografica, io e loro.
Come fotografo dai una tua visione della persona che ritrai, tutto sommato sei pagato per questo. La parte più fruttifera è lo sguardo in cui si scopre qualcosa che gli altri non hanno scoperto.
Usi tecniche particolari per stabilire un rapporto con loro?
Secondo me una delle frasi più belle, uno dei consigli più semplici, è "lucida la tua piastrella", "coltiva il tuo giardino".
Ognuno, nella vita, è qui per imparare, per rendersi più sensibile e aperto, per migliorare. Io cerco di arrivare pulito all'incontro con la persona, senza voler troppo, lasciando anche che le cose accadano con molta semplicità. So cosa voglio e ho le mie idee e cerco di costruire qualcosa con l'altra persona che sto ritraendo, che in un lavoro come il mio resta l'elemento più importante: rappresenta diciamo il 70%; tu ci metti quel 30% di tecnica, di pilotaggio, di cucina, di effetto, di sensibilità per far uscire l'altro 70%. Ci vuole molta semplicità, non bisogna aver paura della star.
Bisogna stabilire un rapporto di simpatia e semplicità perché la persona ritratta ha molta paura, normalmente, di non essere bella, all'altezza. E, all'interno di questa semplicità, non avere paura di chiedere, assumersi la responsabilità di chiedere qualsiasi cosa. È un gioco, a volte prendono loro le redini delle situazioni. Tu devi solo non perdere il controllo.
Citi spesso il corpo femminile, il tuo soggetto preferito, e parli di approccio semplice; ma dietro ci sono anche degli studi di forme, da quelle classiche a quelle da pin-up, per andare al di là della semplicità?
Tutto il discorso sulla semplicità è emotivo, psicologico. Io dico spesso che fotografo anime: culi e tette sì, ma che devono avere un'anima.
Per quanto riguarda la parte formale è chiaro che il corpo femminile, come quello maschile, ha le sue regole. Si può studiare, si può guardare la pittura e scultura classiche, si possono guardare le pin-up. La pin-up è una donnina disegnata che in realtà è molto realista, fotografica; il glamour nasce disegnato dagli anni ‘40 in poi. Vargas ne è stato il massimo esponente; credo che in qualche modo siamo tuttora figli di Vargas. Pin-up vuol dire ragazza appesa con lo spillo.
Quando arrivi a essere un fotografo che in due anni fa cinque calendari, devi riconoscere che sei uno che sta attaccando ancora ragazze con lo spillo. Ma io faccio glamour, non solo pin-up; nel libro non ci sono solo pin-up, ci sono cantanti e ragazze che fanno moda.
Definisci il tuo genere nudo-glamour. Perché?
Si, il mio è nudo-glamour. Glamour vuol dire clamore, qualcosa che quando tu vedi l'immagine dici "wow". Suggerisce la posa plastica, tutto il lavoro sui corpi, posizioni un po' spinte al limite anche improbabili o innaturali ma che in realtà sono poi naturali perché sono il picco di una curva.
Nel movimento dei corpi ci sono delle onde: nel muoversi, nello shooting, come nel sentimento e nella vita. Lo scatto perfetto solitamente è quello che viene scattato sul picco. Se lavori con il motore, vedi che una ragazza ti guarda, vedi che gli occhi si aprono, hanno un picco, poi si richiudono. Io lavoro molto col motore e scatto molto in una seduta. In una giornata si possono fare una trentina di rulli.
Scatto molto anche per far sentire il clic, sapendo che non utlizzzerò quel materiale, ma per stabilire un ritmo che ti porta a far cavalcare l'onda, a far surfare la ragazza. Io la fotografo in planata. È lì che c'è la forza, che hai il servizio.
Qual è il tuo rapporto con lo studio?
In uno studio in genere accade poco, manca la suggestione dello spazio, la profondità, i suggerimenti dell'attimo fuggente. Manca la luce naturale che è la più flessibile. Lo studio è una situazione artificiale.
Fai la tua luce, dopo un'ora ne fai un'altra; è un po' soffocante, anche per la persona ritratta che viene un po' troppo isolata, non ha appigli. Ma si lavora anche in studio, per carità. Io sono un fotografo più da esterni e da interni, lavorando con luce naturale, in location. Uso i posti, gli arredamenti, divani, sedie, letti, pavimenti. Per riprodurre la tipologia del servizio, i tagli classici che sono: primo piano, figura in piedi, piano americano, la ragazza sdraiata, seduta, davanti, dietro.
Come scegli le location?
Le scelgo prima, facendo un sopralluogo, in base al lavoro che devo fare e alla suggestione propria del posto. Perché anche i posti hanno un'anima. Per esempio un bosco ha un che d'intimo, per la qualità della luce che è una penombra.
Metti una donna sdraiata in un bosco; ti suggerisce dimensioni oniriche, fantastiche, anche morbose. Oppure, una spiaggia: è tutto il contrario. O una casa, una villa molto luminosa arredata tutta di bianco: ti suggerisce un'eleganza pulita. Oppure un locale notturno arredato in maniera strana, geniale: suggerisce altre cose. O vecchie fabbriche, eccetera. Di location ce ne sono mille.
Andiamo agli inizi. Come hai cominciato?
Sono nato come fotoreporter. Ho avuto la mia prima macchina fotografica a sei anni, mio padre era un fotoamatore evoluto. E io ero un fotoamatore con grande passione affievolita. Poi, a 20 anni, facevo architettura ed ero abbastanza inquieto, mi capita l'occasione di ricomprare delle macchine fotografiche usate. Avevo ritrovato a terra un Rolex d'oro da donna con una maglia rotta, l'ho venduto e ci ho comprato le macchine fotografiche usate. E mi è riscoppiata violentissima la passione.
Hai fatto anche il paparazzo…
Il primo lavoro fu sull'arredo a Roma, per Italia Nostra; poi gavetta per quotidiani e settimanali su fotografia di scena di concerti e spettacoli. E, un bel giorno, sempre spinto dalla necessità di guadagnare per vivere, sono entrato in un'agenzia di fotografi di attualità, la "Reporter associati", un'agenzia storica del giornalismo rosa romano. E mi sono ritrovato, visto che le uniche cose che si vendevano erano le paparazzate, a fare il paparazzo, il fotoreporter. Prima a Roma, poi, diventato una piccola star, cominciai a girare: Montecarlo, Parigi; all'epoca c'era Carolina, Pippo e Katia, la Antonelli. La storia che mi fece entrare nella serie A dei paparazzi furono le foto di Umberto II, l'ex re d'Italia, in clinica a Londra fotografato con delle macchinette Robot nascoste sotto la cravatta. Foto rubate, pubblicate poi da Gente. Io ero un killer, uno che non vedi e senti, di cui ti accorgi solo quando vedi il giornale.
E poi?
Poi, alla fine, il problema ce l'hai con la tua coscienza perché sei qualcuno che fondamentalmente ruba. Può essere eccitante, può essere una forma di rabbia, anche una forma per rivendicare il tuo posto.
Alla fine la grande voglia e rabbia di voler fare a tutti i costi il fotografo si concretizzava così: rubare, rubare, rubare. E a un certo punto, a parte il logorio da vita infernale, ho trovato la forza di dire basta. E ho avuto la grande fortuna, cercata ma comunque fortuna, di far vedere dei lavori fatti su donne a Vittorio Corona, all'epoca direttore di King e Moda, il quale mi diede credito. E così sono diventato rapidissimamente un altro di quelli che poi i giovani dovranno scavalcare.
Come si è evoluto il tuo modo di fotografare?
Purtroppo si è piuttosto involuto direi; ci si concentra sul taglio del corpo, non più sul contesto. È una critica che faccio ai giornali, più che a me stesso. Ti viene chiesto dal ginocchio al sopracciglio, c'è un'ossessione per il corpo. Siamo nel campo del superbody, che è un po' l'evoluzione della pin-up ma che è un po' la morte della fotografia. Perché una foto deve sempre raccontare, un po', una storia. Devi sentire che quella stava facendo qualcosa, che stava accadendo qualcosa di cui il corpo ritratto fa parte.
Sei autodidatta?
Assolutamente si.
Che rapporto hai con la tecnica?
Abbastanza buono, non gli do tanta importanza, non ho il feticcio della tecnica. Prima ho fatto dieci anni di diapositive, senza rete. Non dei posati, ma le paparezzate: se sbagli un mezzo stop sei fottuto. Ora scatto in negativo. Proprio per consentirmi, grazie all'elasticità delle pellicole, di prendere una serie di decisioni dopo: sul chiaro e lo scuro, il verde, il rosso, il blu. E poi il computer permette di fare ancora di più queste cose. È chiaro che devi avere una base tecnica: non puoi fare il fotografo e toppare le foto. Ma non è che io sia un fotografo tecnico.
Come definiresti il tuo stile?
Io non amo la statua, amo la vita. Quell'attimo irripetibile, magari imperfetto, sgranato, sguaiato, il movimento, la luce, l'ombra. Un modo di fotografare che nasce nei primi anni '90 perché ero un grande estimatore del modo di lavorare anglosassone, veloce, in cui c'è lo snap, in cui conta l'istante.
Bianco e nero sempre o quasi. Perché?
Il cavallo di battaglia della foto di nudo è il bianco e nero. Il mio è virato, dominato, freddo, caldo, eccetera. Faccio anche colore: per le copertine, per esempio. Anche il colore ha le sue dominanti.
Con quale attrezzatura lavori prevalentemente?
Nasco con la Nikon. Ho lavorato con tutte le Nikon, dalla F fino alla F5 e alla F100. Lavoro anche con la Mamiya R7 6x7, e poi con la Contax 645.
Abbiamo parlato di passione bruciante, di tecnica, di donne, di stile, di furti e paparazzate. Ma, insomma, che cos'è per te fotografare?
Io credo che la fotografia sia uno strumento che rivela lo spirito di chi ritrae, ma fondamentalmente di chi è ritratto; rubi l'anima perché c'è l'anima nella fotografia e se hai gli occhi per vederlo lo vedi.
Questo c'è, nella foto c'è, in quell'attimo c'é. Al di là della tecnica, il fare fotografia è un'operazione essenzialmente spirituale, magica. Qualche volta si rivela anche quello che non appare. Trovo che sia la cosa più interessante della fotografia. Se prendiamo per esempio la fotografia di Cartier-Bresson, appare una perfezione del creato in quel rettangolo, che rivela delle relazioni, una necessarietà, un rapporto reciproco. In una ruga, uno sguardo, leggi cose che vanno al di là, vedi dei pezzi di verità; se la realtà è il velo di Maya, quando lo fotografi riesci a vedere qualcosa dietro.