Bruno D'Amicis, Gianluca Panella, Alessandro Penso
World Press Photo 2014
Da 57 anni, ogni anno, una giuria indipendente formata da esperti internazionali si esprime su migliaia di domande di partecipazione provenienti da tutto il mondo, inviate alla World Press Photo Foundation di Amsterdam da fotogiornalisti, agenzie, quotidiani e riviste. Per questa edizione, le immagini sottoposte alla giuria del concorso World Press Photo - il premio di fotogiornalismo più prestigioso al mondo - sono state 98.671, inviate da 5.754 fotografi professionisti di 132 nazionalità. Anche quest’anno la giuria ha diviso i lavori in nove categorie: Spot News, Notizie Generali, Storie d’attualità, Vita quotidiana, Volti (Ritratti in presa diretta e Ritratti in posa), Natura, Sport in azione e Sport in primo piano. Sono stati premiati 53 fotografi di 25 nazionalità: Argentina, Australia, Azerbaijan, Bangladesh, Bulgaria, Cina, Repubblica Ceca, El Salvador, Finlandia, Francia, Germania, Iran, Italia, Giordania, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Russia, Serbia, Sud Africa, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.
World Press Photo dell’anno 2013
© John Stanmeyer, USA, VII per National Geographic
La Foto dell’anno 2013 è dell’americano John Stanmeyer di VII Photo Agency. L’immagine mostra dei migranti africani con i cellulari sulla spiaggia di Gibuti nel tentativo di prendere un segnale telefonico gratuito dalla confinante Somalia, un collegamento con i parenti lontani. Gibuti è una tappa consueta per i migranti in transito da paesi come la Somalia, l’Etiopia e l’Eritrea, in cerca di una vita migliore in Europa e in Medio Oriente. La foto è anche vincitrice del Primo Premio nella categoria Storie di attualità ed è stata realizzata per il National Geographic. «È una foto collegata a tante altre storie - ha così commentato Jillian Edelstein, membro della giuria - apre la discussione sui temi della tecnologia, della globalizzazione, dell’emigrazione, della povertà, della disperazione, dell’alienazione e dell’umanità. Si tratta di un'immagine molto sofisticata, potentemente sfumata. È così sottilmente realizzata e in modo così poetico, sebbene sia piena di significato, da trasmettere questioni di grande gravità e preoccupazione nel mondo di oggi».
Primo Premio Spot News Foto Singole
© Phillipe Lopez, Francia, Agence France-Presse
Una selezione delle foto vincitrici fa ogni anno il giro del mondo (a Roma al Museo di Roma in Trastevere, a Milano alla Galleria Sozzani). La mostra World Press Photo non è soltanto una galleria di immagini sensazionali, ma è un documento storico che permette di rivivere gli eventi cruciali del nostro tempo. Il suo carattere internazionale, le centinaia di migliaia di persone che ogni anno nel mondo visitano la mostra, sono la dimostrazione della capacità che le immagini hanno di trascendere differenze culturali e linguistiche per raggiungere livelli altissimi e immediati di comunicazione. Quest’anno sono tre i fotografi italiani premiati: Bruno D’Amicis, Alessandro Penso, Gianluca Panella. Sguardi li ha incontrati in occasione dell’inaugurazione, ponendo loro più o meno le stesse domande. Il risultato è l’intervista in parallelo che segue.
© Brent Stirton, Sud Africa, Reportage by Getty Images. 25 settembre 2013, West Bengal India - Primo Premio Ritratti in posa Foto singole
Gianluca Panella, cosa rappresenta per te questo riconoscimento?
Io ho una storia anche piuttosto romantica intorno al World Press Photo, perché sono cresciuto con le fotografie del World Press Photo. Ho iniziato a fotografare perché un amico mi spiegò semplicemente tempi e diaframma. Mi appassionai come tanti si appassionano. Mi fece provare la macchina reflex. Dovendo andare ad Amsterdam in vacanza, questo mio stesso amico mi prestò la macchina fotografica, dicendomi: “guarda, visto che stai imparando, fai pratica. Portatela ad Amsterdam e fai qualche rullino”. Amsterdam è la sede del World Press Photo ed era il 1999. Io vado là, con la mia ragazza di allora e c’era la mostra del World Press Photo. Quell’anno aveva vinto Jim Nachtwey con un lavoro sulla repressione anticristiana in Indonesia. Quando sono entrato, sono rimasto folgorato. E ho detto: io devo fare questo. E quindici anni dopo mi ritrovo qua. Ho lavorato tanto. Ho lavorato per i quotidiani, per i settimanali. Ho fatto la gavetta. Se vuoi sapere se per me era un grande traguardo, anche se non lo voglio chiamare traguardo perché l’ho sempre visto come un tramite. Cioè, per me, il WPP serve per poter fare altro dopo. Però, sicuramente, per me era un grosso raggiungimento.
Terzo Premio Notizie generali Reportage Gianluca Panella, Italia
10 dicembre 2013, Gaza City, Gaza
Racconti ai lettori di Sguardi il progetto con cui hai vinto?
A Gaza sono arrivato durante il conflitto del 2012, quello di sei giorni, l’operazione Pilastro di difesa. Lì mi sono appassionato alla questione israelo-palestinese, più che altro alla questione dei militanti e dei combattenti dei gruppi della resistenza di Gaza. Ci sono tornato, a novembre-dicembre e a marzo-aprile. Mi sono trasferito a Gerusalemme, ho fatto base fino a dicembre di quest’anno. Quindi entro ed esco da Gaza, per lavorare con i combattenti. Questo ha fatto sì che mi trovassi a dicembre, durante questo aggravamento del problema del blackout che in realtà non è neanche una notizia, perché il problema del blackout, il problema del sistema fognario devastato, completamente collassato, è più che risaputo. Si convive a Gaza con queste cose. Dall’acqua del rubinetto ci sono tracce di acqua fognaria, c’è acqua salata. In quel periodo il tempo è stato veramente inclemente, non trovava certo ostacolo nelle infrastrutture della Striscia. E c’è stata la più grave alluvione degli ultimi venticinque anni. I tunnel, nonostante siano famosi per far passare le armi di nascosto, in realtà servono per far passare ghiaia, sabbia da costruzione. I tunnel chiusi, l’alluvione, il sistema fognario in quel modo non hanno fatto altro che convergere tutti nel grave problema che è la crisi energetica a Gaza. La centrale elettrica sopperisce per un 45% circa il fabbisogno della Striscia, in condizioni ottimali siamo al 50%, in una situazione del genere secondo alcuni documenti delle Nazioni Unite eravamo a una resa del 20% della centrale elettrica. Quasi tutti lì hanno un generatore, se hai un negozietto fai corrente con un generatore. Però, con i tunnel chiusi, il prezzo del gasolio passa da 3 a 8 shekel al litro. Allora con il generatore di corrente ne fai poca, senza gasolio. Tutte queste cose sono sfociate in questo grande blackout, tantissimi quartieri non avevano neanche corrente per tutte le 24 ore. Era una storia secondo me da fare, anche perché è in relazione con uno dei posti più densamente popolati della Terra.
Terzo Premio Notizie generali Reportage Gianluca Panella, Italia
10 dicembre 2013, Gaza City, Gaza
Hai individuato una storia che andava al di là dell’attualità più risaputa, e all’interno di quelle vicende hai sviluppato uno sguardo specifico sul blackout.
È un po’ il mio modo di lavorare, nel senso che io sono molto attaccato alla news, vengo dalla news, dai quotidiani, quindi sicuramente il mio lavoro lo vedo più giornalistico che artistico. Comunque parto sempre dalla notizia. La notizia forte in quei giorni era questo tremendo blackout, stava uscendo su tutte le agenzie come puoi immaginare. Però, sinceramente, a livello fotografico e visivo erano foto di news. C’era la silhouette, il controluce, erano tutte controluce di Gaza e non del buio. Allora mi sono messo a riflettere su quale poteva essere il linguaggio fotografico da trovare per mettere un po’ a disagio il lettore della foto. Perché quello è veramente buio pesto. Addirittura ho fatto dei lavori dal mare con i pescatori e tu vedevi Israele, l’Egitto e in mezzo tutto nero. Volevo semplicemente cercare di restituire un minimo, se potevo, il disagio a chi guardava la foto. All’inizio l’idea, ti dico la verità, era di fare fotogrammi neri per fare una provocazione. Però ovviamente non poteva essere l’idea giusta. Iniziai a pensare di fare dei dittici con i ritratti di famiglie rimaste in quel tipo di disagio accanto a un fotogramma nero. Però non mi sembrava ancora l’idea vincente. E quindi ho iniziato a fare queste esposizioni soltanto sui punti luce, quindi ovviamente tutto il fotogramma veniva sottoesposto, e poi con una torcia di profondità, che mi porto dietro quando lavoro, spennellavo un po’ con la luce: che so, per cinque secondi l’angolo di un palazzo, tre secondi un’altra cosa, e così si formavano dei punti luce senza una vera direzione. Facevo una corsa là e illuminavo, una corsa là e illuminavo. Io non venivo nel fotogramma, ma venivano questi punti luce un po’ senza una direzione, non si capisce da dove arriva la luce in realtà. Potrebbe essere un lampione, però se guardi bene non può essere il lampione. Potrebbe essere una macchina che passa, ma in realtà nemmeno quella. Volevo creare un po’ un’atmosfera di città fantasma, però allo stesso tempo non dovevo dimenticare che il contrasto forte era la densità di popolazione. Quindi la presenza umana la volevo mantenere.
A volte i progetti fotografici sono complessissimi e lunghissimi. Nel tuo la cosa di certo fuori dall’ordinario è la sua durata cortissima, quanto hai impiegato per portarlo a termine?
Sei notti. Il blackout effettivamente ha raggiunto le 21 ore nel suo momento più grave, però il giorno prima poteva essere stato 19 ore, il giorno prima ancora 17. Al progetto ho dovuto dare un nome, infatti non è scritto neanche benissimo perché io lo avevo scritto BlackOut tutto attaccato, con la ‘O’ di out maiuscola, perché comunque volevo il richiamo di out, di questa voglia di uscire dalla Striscia. Quindi non solo la Striscia è nera, ma è out da un sacco di cose: perché è out dal mondo, è out a livello sociale, la parola out mi piaceva perché io comunque vorrei venirne fuori da una cosa del genere e anche la popolazione del luogo. E quindi c’è stato uno studio abbastanza veloce, il processo creativo è stato di una nottata. Io sono uscito, ho provato a fare queste foto, perché comunque stavo facendo una ricerca, stavo cercando il linguaggio.
Terzo Premio Notizie generali Reportage Gianluca Panella, Italia
10 dicembre 2013, Gaza City, Gaza
Avevi già capito che poteva diventare un progetto interessante (a parte)?
Capito, non lo so. Io volevo raccontarlo il blackout, secondo me era da raccontare. Mi sarebbe dispiaciuto non averlo potuto raccontare e stava anche accadendo.
Qualcuno ha comprato il lavoro?
No, l’ho fatto a dicembre, poi a gennaio c’è stato il World Press Photo. Se pensi che sono lì a lavorare da oltre un anno sui combattenti e ancora il lavoro non è finito, non è uscito. L’ho presentato al Wolrd Press proprio così per dare un’anteprima, per far vedere alla gente che ero a fare quello.
Hai accennato al fatto che vieni dalle news. Oggi che tipo di fotografia fai?
Avendo lavorato sempre nelle news, ho avuto ben poco tempo per cercare un mio linguaggio fotografico. Lavoravo per i giornali, dopo quel viaggio ad Amsterdam mi sono messo a leggere, a studiare per imparare, anche a usare il mezzo fotografico. Poi feci un timidissimo portfolio per andare a una scuola di Milano - perché poi in base al portfolio ti mettevano a fare questo corso piuttosto che un altro- e mi misero in questo master di fotogiornalismo. Io volevo fare fotogiornalismo. Fu un anno esclusivamente teorico, non abbiamo mai fatto una foto tranne l’ultimo lavoro per diplomarsi. Quindi abbiamo studiato storia della fotografia, gli altri fotografi e più che altro si parlava dell’approccio alla notizia, la scelta del linguaggio fotografico. Abbiamo avuto un grande professore, Leonardo Brogioni, che tra l’altro è uno dei fondatori di Polifemo, uno dei centri di Milano. E devo dire che mi sono ricordato le parole di Brogioni anche quando lavoravo nei giornali. Finito il master, ho avuto la fortuna di trovare una piccola agenzia che aveva il contratto con Il Giornale della Toscana, che era la redazione fiorentina del Giornale di Milano. E da lì ho fatto qualche volta Panorama, mi sono iscritto all’ordine dei giornalisti. Poi sono andato da Massimo Sestini e lì è iniziato il lavoro vero. Perché con Sestini sono passato al Corriere della Sera. Mi dispiace chiamarlo lavoro vero, però devo dire che dal fare le foto agli incidenti e agli omicidi a livello nazionale abbiamo fatto tutto. Sono rimasto per cinque anni nella Massimo Sestini News Pictures, sono diversi i fotografi che lui invia in giro quando non copre direttamente lui. Ma evidentemente con il suo marchio. I pro? Ho imparato molto. I contro? Non tirerai mai fuori il tuo linguaggio fotografico. Il problema era proprio quello. Che dovevo fare la fotografia che il giornale avrebbe voluto, in quel caso la fotografia va fatta anche piuttosto simile alle foto di Massimo. Perché giustamente è la prima regola nel fotogiornalismo. Quando si vede una foto, si dice: questa l’ha fatta lui. Ma in questo modo non vai a fare la tua ricerca personale. Quindi dopo quattro anni e mezzo/cinque che ero da Massimo, ho deciso di mettermi completamente freelance - perché comunque siamo freelance anche da Sestini - e di fare un po’ una ricerca. Quindi sono due anni e mezzo che mi sono messo a fare la mia ricerca personale. Avevo creato tre-quattro progetti e ne sto portando avanti due.
Terzo Premio Notizie generali Reportage Gianluca Panella, Italia
10 dicembre 2013, Gaza City, Gaza
Quali sono i soggetti che ti interessano?
Sicuramente sociali, ho sempre fatto il sociale, ho sempre fatto il reportage e mi interessa sicuramente il conflitto, quantomeno la situazione di crisi, perché penso che in una situazione di crisi, specialmente di conflitto, si innescano dei meccanismi che non puoi trovare in altre situazioni. I sentimenti sono più marcati, l’amore è amore, l’odio è odio, l’odio diventa morte. Tu puoi salvare le persone che hanno messo al servizio la propria vita per salvare quella degli altri. Non so come dirti, ma saltano tutti i precetti della vita normale, della vita quotidiana. Secondo me diventa veramente più interessante.
C’è un progetto a cui tieni adesso particolarmente?
Sono due i progetti cui tengo molto. Quello che ho portato ad Amsterdam, quello che sto facendo a Gaza, è sui gruppi principali della resistenza. Un progetto che si chiama Behind the lath meh, cioè dietro il passamontagna. Mi ha sempre incuriosito, quella specie di maschera. Durante il conflitto ho coperto il funerale del comandante Al-Jabari, quello ucciso dai droni israeliani, da lì è poi cominciata la guerra. Durante il funerale vedo questo combattente, tutto mascherato con i proiettili attorno al collo, che aveva la fede. Vedendo la fede, ho pensato che questo doveva essere un padre, un marito, un fratello. C’è una vita dietro. Soprattutto in Israele si parla di terrorismo, in America si parla tanto di terrorismo. Io, ovviamente, non li chiamo terroristi perché non lo sono, sono combattenti, assolutamente. Poi c’è anche il terrorista, quello che si fa saltare nello scuola bus ma non è quello che mi interessa. Questi combattenti, alle volte chiamati terroristi, saranno mica mostri a sei zampe e a sei braccia. Sono uomini e allora mi sono messo a cercare il lato umano del combattente, che c’era dietro questo passamontagna. Ovviamente la situazione è difficilissima, perché per un accesso del genere - e devo dire sono contento dell’accesso che ho avuto - si fa fatica, è una società estremamente chiusa. Sia per motivi religiosi, che per motivi politici, perché hanno paura di essere scoperti.
E il secondo progetto?
Il secondo progetto è il mio progetto di vita. Tra le due agenzie, smisi di fare questo lavoro. Per due anni e mezzo ho restaurato una barca a vela. Si chiama Tanit, prende il nome dalla dea punica della fecondità e dell’abbondanza, nonché protettrice dei marinai. Sarà lungo le antiche rotte dei Fenici, sto creando una fondazione e cercando i fondi.
Primo Premio Notizie Generali Foto Singole Alessandro Penso, Italia, OnOff Picture 21 novembre 2013, Sofia, Bulgaria
Alessandro Penso, cosa hai provato rispetto alla notizia del premio?
Quest’anno sono cambiate le regole, lo puoi intuire leggermente prima. Mi hanno contattato quattro giorni prima chiedendomi il raw. Che io ho mandato subito senza fare domande, perché immaginavo che fosse il procedimento. Capisci, ma non ti viene dichiarato. Dicono, “guarda la giuria vuole vedere il tuo bell’originale” e io tra l’altro in quel momento ero a casa, perché la mail è arrivata verso le sette sette e mezza di sera, mi trovavo a Roma e l’ho mandato nel giro di mezz’ora. Ancora senza fare domande. Poi ti ricontattano e ti dicono “abbiamo ricevuto il file” e a te viene da chiedere almeno “posso sapere che cosa sta succedendo?”. Perché comunque era una procedura nuova. Io sapevo che negli anni passati era successo che avevano chiesto il raw, ma non a tutti, quando avevano vinto. “Che è successo? C’è qualche problema nel file inviato?”, ti vengono mille domande. Allora, ho scritto “E’ tutto a posto, c’è qualche problema?”. Nessuna risposta. Poi succede che alle due del pomeriggio escono i risultati, il giorno di San Valentino, il 14 febbraio, e il telefono impazzisce. Perché probabilmente c’è gente che aspetta il risultato, io ovviamente lo aspettavo perché dicevo “il raw, sarà in finale”. Perché quest’anno c’erano state dichiarazioni della giuria ‘Siamo arrivati a questo punto, abbiamo sei lavori che stiamo esaminando, ok oggi abbiamo deciso il vincitore del World Press Photo”. Quest’anno hanno cominciato a sfruttare anche i social network, si è creata un’attesa. Quindi poi alle due, per quattro ore il mio telefono è impazzito. Neanche ho ragionato, probabilmente non avevo visto neanche le foto dei vincitori. Ho ricevuto telefonate, alcune bellissime, di colleghi in Grecia, colleghi in Bulgaria, che comunque avevano visto il mio approccio al lavoro, le mie condizioni lavorative. Perché comunque questa tematica che io affronto sulle migrazioni non è mai finanziata da nessuno, non ho commissioni dietro. Ho preso un grant, ma negli ultimi cinque anni sono io che ci ho voluto lavorare su.
Alessandro Penso
Ci racconti il progetto, che c’è dietro questa foto che ha vinto il primo premio della categoria Notizie Generali Foto Singole?
La foto è estratta da un lavoro che ho inviato al World Press, che parla dei rifugiati siriani. C’è da dire che io, almeno da cinque anni, lavoro sulla tematica delle migrazioni in Europa, specialmente nei paesi del Mediterraneo. Io mi trovavo in Grecia nel 2013, perché stavo facendo un lavoro che stavo concludendo (che poi ancora non so se è concluso, perché poi un lavoro non finisce mai), però mi trovavo per fare una parte fondamentale che in qualche modo dovevo chiudere, il lavoro sui giovani non accompagnati in Grecia. Nel frattempo ovviamente continuo a studiare tutto quello che succede in Europa sulle migrazioni, perché ho lavorato in Spagna, ho lavorato in Italia, ho lavorato in Marocco. Ma cominciavo a vedere che c’era questa emergenza della Bulgaria, che addirittura cominciavano a chiamare la “nuova Grecia”. Il numero dei rifugiati era arrivato a circa 10.000 e non aveva mai toccato numeri del genere. Credo che 3.700 sia stato negli anni passati il numero più alto. Comunque si aggiravano tra i mille e i duemila i richiedenti asilo o status da rifugiato. Quindi decido di partire direttamente dalla Grecia e andare a vedere. Comincio a muovermi in Bulgaria cercando i punti significativi, dove c’erano i rifugiati per capire e parlare anche con loro. In realtà, proprio con l’idea di iniziare un progetto e prendere delle informazioni. Scatto anche qualche foto, devo dire che l’ho fatto in maniera molto rilassata proprio perché non c’era l’idea di andare lì per dover fare il lavoro per un determinato giornale. Entravo e in alcuni posti, in realtà, non facevo neanche foto. Mi limitavo a parlare con le persone, quindi è stato molto riflessivo. E quella foto nasce perché vedi che c’è questa emergenza, sai che prima o poi sarebbe arrivato il problema per l’Europa di porsi di fronte a queste persone, perché la guerra in Siria sono già due-tre anni che c’è. Un’intera popolazione è uscita fuori dal paese e si era fermata in Turchia, si era fermata in Giordania, alcuni cominciavano ad arrivare. Ok arrivano, sono 11.000 e cosa gli offriamo? Una vecchia scuola abbandonata, viene aperta e diventa un centro di accoglienza. In quella scuola vivono 800 persone, tra i quali 390 bambini, e il governo non provvede al cibo, non ci sono cure sanitarie, i bagni sono fatiscenti perché fanno parte di una scuola abbandonata. Vedi tutte quelle persone e dici “questo è il nostro senso di accoglienza?”, “e i politici che vanno a fare propaganda dicendo che i migranti, ci prendono, tolgono, eccetera”. E quindi mi sono concentrato su queste sensazioni proprio con l’intento non tanto di dichiarare che c’è una persona che chiede accoglienza, ma di mostrare quella che è l’accoglienza, quella che è l’Europa, l’ipocrisia europea. E questo è anche dietro al mio lavoro. Il regolamento Dublino II ha creato dei grandi paradossi. Perché dice che il paese che trova un migrante sul proprio suolo sarà il paese che si farà carico del migrante, quindi avrà il compito di decidere se ha diritto allo status di rifugiato e in tal caso provvedere. Come dire, i paesi del Mediterraneo, i paesi che sono le porte d’Oriente, dell’Africa, sono i paesi che si fanno carico di questa cosa. E anche la persona che scappa da una guerra sa che probabilmente in alcuni casi il modo più veloce è arrivare, fare un viaggio disperato. Non è che le persone si mettono su un barcone perché sono completamente pazze, hanno perso la bussola, ma perché sanno che è uno dei pochi modi per arrivare. Cosa che molti non sanno è che alcune persone vanno direttamente in un posto che è adibito per fare la domanda. Cioè un rifugiato siriano, quando arriva in territorio europeo, la prima cosa che cerca è la questura e dice “io sono un rifugiato, io sto scappando dalla guerra, voi dite che accogliete le persone, dite che se io arrivo posso fare questa domanda, che succede adesso?”. E in questa mia foto quello che cerco di dimostrare è quello che succede.
Alessandro Penso
Perché quella foto ti convince, ha convinto la giuria? Qual è la sintesi che tu hai individuato e loro letto?
Io sono molto contento che abbiano scelto quella foto, anche se so che ad alcuni fotografi può far storcere il naso. Perché come dire è una foto abbastanza di quiete. Non ha una grande azione, non c’è sensazionalismo. Sono contento perché ho pensato molto se mettere quella foto, perché devo dire che avevo sottovalutato forse la capacità di poterla leggere. Perché comunque so che il World Press vede migliaia di foto, so che si deve parlare anche degli eventi più significativi. Era un po’ una sfida. Ci ho pensato molto, mi ero confrontato su questo anche con una mia amica, Annalisa D’Angelo, “a me piace, mettiamola perché è importante”. E devo dire che poi la giuria ha colto quello che ti raccontavo prima, il fatto dell’accoglienza. Quello che non c’è. La foto vuole parlare di quello che non c’è. Non tanto del fatto che ci sono 11.000 rifugiati. La temporary accomodation è un posto temporaneo che però nella foto si vede come è con queste famiglie. Cercano di renderlo in qualche modo accogliente, anche se il rifugiato non si vede, si vede la sua dignità. Si vede che in una scuola invece di buttarsi a terra e piangere e strapparsi i capelli, ha creato un proprio angolo, tutto molto ordinato e tutto molto pulito. Cose che hanno fatto tutte loro. Sono loro che hanno creato questa dimensione. Addirittura a me ha colpito tantissimo la sedia come se si fossero creati un piccolo borgo, come nei paesi del Sud d’Italia. Viviamo tutti in piccole case di dieci metri quadrati, dove non ci sono magari i bagni e poi mettiamo delle sedie fuori dove c’è comunità.
Alessandro Penso
Che tipo di fotografia ti interessa? Quali soggetti e storie?
La fotografia documentativa è quella che ultimamente mi attrae di più. Diciamo che ho fatto un po’ di tutto nella mia carriera e penso che ci sia bisogno di tutti i tipi di fotografia. Semplicemente è quella che io sento, che mi permette di esprimermi in maniera migliore. Non mi piace soltanto il mostrare anche se poi in alcuni casi c’è bisogno, quando alcune cose sono nude e crude approvo anche che vengano mostrate come sono. Ad esempio, la foto premiata quest’anno al World Press dell’ultimo abbraccio sotto il palazzo crollato a Bombay è una foto così forte per la realtà struggente da non richiedere nessun tocco particolare, è brutto sentirlo dire ma i soggetti rendono la foto evocativa. Cioè ti emozionano, la storia è terribile di per sé, perché è una fabbrica che crolla e muoiono 800 persone e quindi racconti anche quello che trovi davanti, senza