Alfonso Di Vincenzo, Tracce di migranti e Il paese fantasma +
Simone Tramonte, Senor de los Milagros
Viaggi vicini. In Italia. In Calabria e Basilicata, con Alfonso Di Vincenzo, tra barconi dei migranti abbandonati sulla riva dell’approdo e paesi abbandonati da cinquant’anni. A Roma, in mezzo a una comunità di immigrati in festa, con Simone Tramonte. «Il lento cigolare di catene e legno ritmato dal costante suono delle onde che arrivano a riva, lungo la desolata splendida spiaggia di Camini, piccolo comune calabrese in provincia di Reggio Calabria, racconta malinconicamente la presenza di quello che doveva essere un peschereccio, ma che ora è un relitto arenato su un fianco. », inizia a raccontare Alfonso Di Vincenzo. «Un bambino del posto gioca con una lunga catena che parte dalla spiaggia, si perde in mare e spunta nuovamente agganciata ad un maglio del relitto. La barca è piena di stracci, borse, tende distrutte, porte in legno sventrate e sui suoi fianchi tanti disegni coloratissimi. Ma soprattutto scritte in arabo. È una delle cosiddette carrette del mare, quelle barche ormai prossime all’affondamento, che affaristi senza scrupoli vendono ai migranti per attraversare il Mediterraneo verso l’Italia.
Camini (RC), Italia - 22 settembre 2013 - Peschereccio approdato sulle coste calabresi della locride tra Roccella Ionica e Monasterace
il 12 agosto 2013 con 88 migranti siriani per la maggior parte, e di altre nazionalità a bordo. © Alfonso Di Vincenzo Ag. Controluce
Ma diversamente da quello che raccontano i media e il tamtam sui migranti, quelli che sono arrivati qui sono sfuggiti a tutti i controlli in mare, hanno seguito il bagliore nella notte del faro di Punta Stilo e si sono arenati vicino Monasterace. Appena scesi, così racconterebbero i pochi che sono stati rintracciati dalle forze dell’ordine, si sono dispersi lungo la spiaggia raggiungendo la ferrovia Taranto Reggio Calabria che dista dal mare poco più di 20 metri e la statale Ss106, lontana altri 20 metri più in là. Sulla carretta erano circa ottanta, tra siriani, egiziani e provenienti da altre terre lontane, non si sa quanti sono stati rintracciati, ma molti sono fuggiti ancora, continuando il loro viaggio verso la meta, l’Europa del nord. Scendendo lungo la Ss 106, verso Bianco, Africo e altri paesini costieri si ritrovano altri pezzi di legno e chiglie di carrette del mare, anche qui si riconoscono le scritte arabe. S’intuisce al volo la provenienza dell’imbarcazione e cosa trasportasse, altri uomini e donne in fuga da inutili e incomprensibili guerre, da povertà ataviche e dilanianti, da persecuzioni razziali e tribali senza alcuna giustificazione.
Roccella Ionica, Italia - 22 settembre 2013 - Indumenti, scarpe e oggetti di ogni genere abbandonati nelle carrette del mare con le quali
centinaia di migranti hanno raggiunto le coste della Calabria e che ora sono ferme nel porto di Roccella Ionica, in attesa di essere distrutte.
© Alfonso Di Vincenzo Ag. Controluce
Qui il mare, con la sua forza e costanza, ha distrutto ogni cosa, sull’immensa spiaggia sono rimasti solo i resti della carretta. Solo da alcune testimonianze si è scoperto che la notte di due mesi prima, lì arrivò poco meno di un centinaio di migranti, anche in quel caso sfuggiti ad ogni controllo marittimo e subito in fuga lungo la ferrovia o la strada. I resti di questi relitti, ancora ne rimasero lungo quelle spiagge prima che il mare li distruggesse, si disperderanno tra la sabbia e l’immenso mare che li bagna costantemente. A Roccella Ionica, un piccolo tratto della banchina è riservato alle carrette del mare recuperate a largo o appena approdate. Le barche sono in buone condizioni, ma al loro interno ci sono vestiti, borse, biberon, resti di scatolette di piselli, una bombola di gas con un fornello da campo, scarpette di bambina, anzi solo una, l’altra forse è rimasta al piede della piccola quando è scesa velocemente dalla barca, magari tra le braccia della mamma, una volta arrivati in Italia. Ovunque vadano gli sguardi, lo scenario è sempre lo stesso, tracce. Tracce di migranti, tracce di un passaggio veloce verso il prosieguo del viaggio, verso la meta. Tracce della vita di persone che hanno vissuto, e a volte hanno anche perso la loro vita, su quelle barche che per noi italiani sembrerebbero rappresentare la fine del loro viaggio, mentre per loro l’Italia è solo una meta, dove, una volta passati, lasciano solo tracce.
Monasterace, Italia - 22 settembre 2013 - La costa ionica della locride, a pochi metri dalla spiaggia passano la ferrovia Taranto-Reggio Calabria
e la Ss106 lungo le quali i migranti si disperdono appena approdano. © Alfonso Di Vincenzo Ag. Controluce
Paradossalmente la prima meta dei migranti è un paese che ha una lunga storia di migrazione, sicuramente molto meno drammatica, ma simile per tanti versi e molto spesso, la fuga è stata repentina per sfuggire proprio alla morte. Ogni tanto noi italiani ricordiamo gli anniversari delle migrazioni e delle fughe, così come è accaduto a Craco, piccolo paesino in provincia di Matera, qualche mese fa è stato il 50° anniversario del precipitoso abbandono dovuto ad una maestosa frana che lo ha distrutto, era il dicembre del 1963. Duemila persone abbandonarono velocemente Craco mentre la città crollava sotto i loro occhi, gli sguardi attoniti di chi andava via coglievano lo smottamento del terreno che spaccava le strade e sbriciolava le case. Alcuni fenomeni franosi erano accaduti anche negli anni precedenti, ma si era sempre andati avanti convinti che non fosse accaduto nulla di particolare, addirittura, come si vede nei resti di alcune abitazioni spaccate, qualcuno costruì piani su piani innalzando e appesantendo oltremodo, le proprie abitazioni. Nel dicembre del ’63 a seguito di alcuni lavori di costruzione della rete fognante e di raccolta delle acque bianche, la collina franò e la città si spaccò. Gli abitanti fuggirono immediatamente lasciando alle loro spalle poche cose e l’abbandono tipico delle fughe frettolose, case aperte, oggetti sparsi, vestiti ormai inutili, i vecchi ricordi.
Ultime case costruite e pecore al pascolo, unici abitanti. Craco © Alfonso Di Vincenzo
Venne costruita in fretta e furia, poco più a valle, Craco Peschiera, l’attuale cittadella che raccoglie i migranti di quella frana. Oggi sono rimasti solo in poco più di 700 dei2000 che erano, gli altri hanno continuato a fuggire, abbandonando quei luoghi dispersi nelle langhe lucane, brulle e difficili da vivere e coltivare, per trovare lavoro e futuro lungo la costa della Basilicata. Craco, conosciuto oggi come la città fantasma per antonomasia, ha vissuto anni di abbandono. Tuttora la cittadina è disabitata, ma nel passare degli anni, per la sua struttura rimasta comunque intonsa, è diventata spesso set di film importanti. Oggi viene visitata proprio perché considerata città fantasma, solo pochi punti della città sono accessibili, infatti per motivi di sicurezza la gran parte dell’abitato è chiuso al pubblico, ma quel che resta racconta pienamente l’abbandono che ha vissuto negli ultimi cinquanta anni e le scene di fuga che si sono vissute nei giorni immediatamente dopo la frana. È accessibile al pubblico la sola parte della città che venne costruita sulla roccia, quella parte realizzata sulla collina cretosa è crollata e continua pian piano a scendere nella frana. Paradossalmente, la parte realizzata sulla roccia è quella più antica, di epoca normanna, che non ha subito il benché minimo danno dalla frana e dall’abbandono. Non c’è corrente, ed è visitabile quindi solo con la luce del sole, ma al tramonto il suo skyline rende appieno l’appellativo di città fantasma».
Turisti al tramonto in cerca di fantasmi. Craco © Alfonso Di Vincenzo
Da sud ci spostiamo verso nord per approdare nella Capitale. «Roma, definita per antonomasia l’Urbe o la città eterna, non è solo la capitale d’Italia e il cuore della cristianità cattolica, ma è anche una città d’immigrazione, nazionale e internazionale, e racchiude una varietà di gruppi sociali o comunità dai confini mobili e sfumati, dalle intersezioni molteplici», racconta Simone Tramonte. «Tra tutte queste collettività quella degli immigrati, o meglio dei nuovi cittadini, ha acquisito, soprattutto nell’ultimo ventennio, un ruolo sempre più determinante. Adesso, la città presenta un quadro eterogeneo e multietnico. Lo sviluppo dei flussi migratori, coinvolge individui provenienti da ogni parte del mondo, spesso in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori e che sempre più rafforzano la loro presenza attraverso il ricongiungimento familiare. Calati nel nuovo contesto sociale, costituiscono gruppi variamente coesi. Portano con sé una ricchezza di differenze che si esprime nell’immediato attraverso la sonorità della lingua, l’abbigliamento, il cibo, le movenze, i gesti, e le tradizioni.
Le sahumadoras, un gruppo di sorelle che indossano il tipico abito viola segno di devozione verso il Signore dei Miracoli,
con i loro bracieri di incenso © Simone Tramonte
Alla fine degli anni Ottanta l’Italia conobbe la prima ondata migratoria peruviana. Attualmente, i peruviani, con oltre 100 mila presenze in Italia, rappresentano l’undicesima comunità tra i cittadini non comunitari. Questa comunità, si presenta nel nuovo contesto come sempre più organizzata e coesa, in grado di adattarsi a modi di vita differenti pur senza rinunciare ai propri valori e abitudini e con la consapevolezza di essere “attori sociali” orgogliosi delle proprie tradizioni. Ed è forse questo il segno distintivo che accompagna un’etnia non molto diffusa nella nostra città, ma dotata di una fortissima identità nazionale, capace di “contaminare” positivamente la cultura della capitale. Il Perù è un paese fortemente cattolico, e questa intensa religiosità certo contribuisce fortemente a rafforzare l’identità collettiva, e a facilitare l’integrazione. Questo profondo sentimento religioso si manifesta soprattutto durante una celebrazione di ringraziamento che si tiene a Roma dal 1998 nel mese di ottobre e che riunisce tutte le comunità dell’America Latina della capitale: la processione in onore del “Signore dei miracoli” (Señor de los Milagros).
Al suono delle note di "Condor Pasa", nel piazzale antistante la Basilica si è esibito il corpo di ballo "Sentimiento Latino",
che ha rappresentato "La danza delle vergini del sole" © Simone Tramonte
Nel 1655 un terremoto rase al suolo la città di Lima. Ma il muro sul quale si trovava un dipinto raffigurante Gesù crocifisso, realizzato da uno schiavo angolano, fu risparmiato e sopravvisse anche ai successivi sismi. I cittadini iniziarono a pregare con devozione davanti all'immagine. Le guarigioni e le grazie fecero sì che il dipinto venisse chiamato, appunto, “Signore dei Miracoli”. Tutt’oggi i peruviani celebrano questa immagine e gli immigrati hanno portato in giro per il mondo questa devozione. Questo evento coinvolge un numero sempre maggiore di partecipanti e di spettatori. La processione diventa un modo per creare uno spazio di interazione condiviso tra peruviani e italiani. Lo scorso ottobre ho avuto modo di partecipare. Quel Signore, crocifisso, è davanti ai miei occhi sul sagrato della Basilica di San Giovanni. Attorno a me visi scolpiti nella pietra, marroni come la terracotta, occhi rapidi e curiosi che sovrastano gote esasperatamente protese. Il corteo è davvero suggestivo. Il “Cristo Moreno” esce dalla chiesa adornato da fiori e candele e viene portato sulle spalle per le vie del centro. La lettiga pesante 9 quintali viene trasportata da gruppi di 32 uomini (cuadrillas), Le confraternite portano le loro vesti viola e un gruppo di donne, il capo coperto con una trina, avanza, indietreggiando (senza mai dare le spalle al Cristo) alzando verso di lui gli incensieri profumati.
La processione © Simone Tramonte
Per quanto avessi potuto leggere sull’argomento, non avrei mai immaginato di vivere un’esperienza così affascinante in quella domenica di Ottobre. Colori, profumi, gente danzante. La mia Roma improvvisamente trasformata nella più ridente ed esotica Lima. Una folla enorme e in costante aumento accompagna la processione tra canti, preghiere e momenti di riflessione. La quantità incredibile di incensi bruciati rende l’insieme onirico e fiabesco. Sui marciapiedi e alle finestre romani incuriositi. L’incedere della processione disegna una danza. Un passo avanti e uno di lato, un passo avanti e uno di lato. Un compatto fiume viola avvolto nel fumo si muove sinuoso. La processione fa tappa diverse volte e improvvisamente, la passione, la devozione, la preghiera diventano canto, danza, ed ecco “...la rossa fiesta urlante, grappolo di gioia” direbbe Sciascia. Donne con gonne roteanti e uomini con enormi cappelli a falde mettono in scena balli della cultura andina, antiche rappresentazioni della gioia tra gli uomini. I colori degli abiti sono incredibili, dai rossi più intensi a tonalità di blu marino, che con il loro movimento sembrano fondersi in nuove incredibili nuance. Lentamente la processione riprende e procede fino alla successiva tappa dove, altri ballerini e altri costumi daranno nuovamente vita allo spettacolo.
La benedizione dei bambini © Simone Tramonte
Sono ormai le quattro del pomeriggio quando la processione arriva a Santa Maria degli Angeli, dopo sei ore di lento cammino. Davanti all’ingresso il numeroso popolo di fedeli si raduna, il “Cristo Moreno” viene appoggiato al centro e gli uomini delle Confraternite, ormai esausti, formano un ampio cerchio attorno a Lui. Dietro di loro il resto dei fedeli. I neonati e i bambini più piccoli, passando sopra le teste, vengono dati in braccio alla persona che sta di fronte al Cristo e questi, facendo con i bimbi un segno di croce, li avvicina al Suo volto. La benedizione fa scendere nuovamente il silenzio in piazza e anche questa volta è impossibile non notare la commozione di tanti. Per alcune ore ho viaggiato magicamente nel tempo e sono stato trasportato in un altro continente. È stata un’occasione di riflessione per comprendere che indipendentemente dalla propria origine, questa città non è soltanto un contenitore. Roma e la sua identità stanno cambiando. I migranti, nella gioia e nel dolore, rappresentano parte di questo cambiamento. Loro vorrebbero essere, risorsa di quella trasformazione. La processione del Señor de los Milagros è stata sicuramente per i presenti un momento di profondo respiro di fede, ma al contempo, luogo e tempo di condivisione, di confronto, d’integrazione tra tutti i cittadini, italiani e non.
Un gaucho con il suo caratteristico cappello a falde larghe © Simone Tramonte
Chi sono
Alfonso Di Vincenzo: appassionato di fotografia fin da ragazzo, incomincio a scattare, nei primi anni '90, con maggiore impegno e interesse. Nel giro di pochi anni entro in alcuni giornali e realizzo diversi servizi fotografici di cronaca e reportage, i primi già nel 1996. Le vicende della vita mi portano ad allontanarmi e poi riavvicinarmi a questo mondo e a questa passione fino a quando decido di seguire la cronaca di eventi, realizzare reportage e aprirmi anche al mondo della fotografia naturalistica. Vengo in contatto con grandi fotografi italiani le cui contaminazioni affinano il mio stile fotografico sempre alla ricerca di sperimentazione e nuove visioni. Nel corso degli anni collaboro con diverse agenzie e pubblico mie fotografie su Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica e altre riviste nazionali e internazionali. Giornalista e fotoreporter, collaboro con Agenzia Controluce (www.controlucepix.com).
Simone Tramonte: nato a Roma nel 1976, ho scoperto la passione per la fotografia intorno ai 30 anni. In questo periodo di tempo ho portato avanti progetti personali in Italia e all’estero. Nel 2010 realizzando un reportage di denuncia sociale dal titolo “Palermo Slum” risulto tra i dieci finalisti del concorso Artèfoto – Festival Internazionale di Fotogiornalismo. Nel 2011 con un lavoro di indagine sul territorio vinco il concorso “UBS” ed entro a far parte dell’UBS Art Collection curata da Stephen McCoubrey, presentando un reportage sul quartiere romano di Garbatella. Nel 2013 vinco il concorso “GEO - Uno sguardo diverso sul mondo”, e arrivo tra i finalisti nella categoria Open del Sony World Photography Awards (http://www.simonetramonte.it).