Kazuyoshi Nomachi
Per oltre quarant’anni, fin dal suo primo viaggio nel Sahara, Kazuyoshi Nomachi ha rivolto la sua attenzione alle più diverse culture tradizionali, intorno al tema della preghiera, della ricerca del sacro. Da fotografo documentario ha colto in immagini - apparse poi su riviste come National Geographic, Stern, Geo - frammenti della spiritualità che percorre quei paesaggi di bellezza fuori dal comune, dove i ritratti e le figure umane assumono dignità e si fondono con il contesto in composizioni dominate da una luce abbagliante. La Pelanda di Roma ospita (fino al 4 maggio) una grande antologica del fotografo giapponese: circa 200 scatti, un viaggio nella sacralità dell’esistenza quotidiana di genti che vivono in terre tra loro lontanissime, un viaggio iniziato da lontano.
Una ragazza nomade con il volto cosparso di una sostanza protettiva durante un pellegrinaggio.
Tibet, Cina 1990. © Kazuyoshi Nomachi.
Nomachi racconta che a venticinque anni, nel corso del suo primo viaggio nel Sahara, rimase così colpito dalla durezza delle condizioni di vita degli abitanti in quell’ambiente, che decise di abbandonare i progetti da fotografo pubblicitario fino allora portati avanti e di dedicarsi invece al fotogiornalismo. Inizio di un percorso da fotografo-viaggiatore che poi, quasi a fare da contrappunto alla lunga esperienza nel deserto, lo portò lungo il Nilo Bianco, dal delta fino alla fonte in un ghiacciaio dell’Uganda, poi lungo il Nilo Blu fino alla sorgente negli altopiani dell’Etiopia.
Un accampamento di allevatori nella notte mentre sorge la luna piena Jonglei, Sudan del Sud 2012.
© Kazuyoshi Nomachi.
Poi, dal 1988, è la volta dell'Asia. Delle aree occidentali della Cina, delle popolazioni che vivono nelle estreme altitudini del Tibet e del buddhismo, dell’intera area di cultura tibetana, delle terre del sacro Gange dove nacque l’Induismo. Dal 1995 al 2000 Nomachi accede alle più sacre città dell'Islam e viaggia in Arabia Saudita, avendo l’opportunità di fotografare il grande pellegrinaggio annuale alla Mecca e a Medina, divenendo il primo a documentare in modo ampio e approfondito il pellegrinaggio di oltre due milioni di musulmani verso le città sante. Dal 2002 visita anche gli altopiani delle Ande, il Perù e la Bolivia, per indagare l’intreccio fra cattolicesimo e civiltà Inca, ricerca che prosegue a tutt’oggi. Di seguito, alcuni di quei luoghi e incontri, narrati in prima persona dallo stesso Kazuyoshi Nomachi: in Etiopia, lungo il Gange, nel cuore dell’Islam, attraverso il Sahara, lungo il Nilo, in Tibet, sulle Ande.
Un giovane diacono legge la Sacra Bibbia. Lalibela, Etiopia 1997.
© Kazuyoshi Nomachi.
«L’Etiopia alterna scoscesi altopiani ad aree semi-desertiche. Il suo territorio, diviso in due dalla grande Rift Valley, è sottoposto alla continua attività tettonica che lacera il continente africano. L’ambiente naturale vi è molto diversificato e così anche l’habitat umano, che spazia dai 3.500 metri di altitudine degli altopiani ai 115 metri sotto il livello del mare degli infuocati deserti. Nelle diverse condizioni geografiche di valli e montagne, vivono 83 gruppi etnici, ciascuno saldamente ancorato alla propria cultura. In un isolato altopiano, ad una altitudine media di 2.500 metri, circondato dal “mare islamico” del rovente deserto, è sopravvissuta una cultura cristiana trasmessa di generazione in generazione fin dai primi secoli dopo Cristo. L’Etiopia vanta una storia lunga 3.000 anni e ha mantenuto stretti rapporti sia con l’Arabia e la Palestina oltre il Mar Rosso sia con l’Africa Nera. Nelle tormentate montagne dell’Etiopia settentrionale ho potuto visitare chiese rupestri e monasteri isolati dove i fedeli continuano a porgere offerte come ai tempi della Bibbia».
Partenza per il pellegrinaggio di Pancha Koshi, che comprende la visita a cinque templi dedicati a Shiva e ubicati nelle vicinanze di Benares.
Benares, India 2005. © Kazuyoshi Nomachi.
«Il grande fiume Gange scaturisce dai ghiacci dell’Himalaya, scorre nelle pianure dell’India per 2.500 chilometri e sfocia nel Golfo del Bengala. Raccogliendo le precipitazioni monsoniche, il fangoso corso d’acqua fornisce una perenne fonte idrica per l’agricoltura ed è considerato dagli indiani la culla della loro fede. Le sue acque, profondamente connesse al culto di Shiva, sono oggetto di venerazione. Chi s’immerge nelle acque del Gange viene lavato dai suoi peccati, chi vi sparge le ceneri del caro estinto lo aiuta a rinascere nel cielo, liberandolo dalle sofferenze della reincarnazione. Ho attraversato vari luoghi sacri, tra i tanti che si susseguono lungo le rive del Gange, ininterrottamente gremite di pellegrini. Per il Maha Kumbh Mela, il principale evento religioso indiano, fissato dagli astrologi ogni dodici anni, si radunano decine di milioni di indù per la preghiera, con forme e riti ereditati dall’India antica».
I pellegrini partecipano alla funzione della Notte del Destino (Laylat al-Qadr), il 27° giorno del Ramadàn.
La celebrazione commemora la rivelazione del Corano al Profeta.
La Mecca, Arabia Saudita 1995 © Kazuyoshi Nomachi.
«La fede islamica che insegna la devozione all’unico Dio, Allah, fu fondata nel VII secolo da Maometto, mercante a La Mecca. Bastò un secolo perché si radicasse a tal punto da costruire un’area culturale vastissima, dalla Penisola iberica all’India. Gli insegnamenti dell’Islam, il cui fulcro è La Mecca dove si erge la Kaaba, simbolo di Allah, si sono diffusi ovunque nel mondo e si contano ad oggi un miliardo e quattrocento milioni di seguaci. Fra gli obblighi fondamentali di un credente musulmano prescritti dal Corano c’è il pellegrinaggio, almeno una volta nella vita, alla Sacra Casa, che ho avuto il privilegio di fotografare grazie all’invito di un editore saudita. Il pellegrinaggio a La Mecca è il fulcro della fede islamica, nonché la fonte della sua vitalità. Nello stesso tempo in Iran e nelle regioni limitrofe si concentrano i Musulmani Sciiti. Il loro credo, fortemente influenzato dalla visione religiosa dell’antica Persia, ha dato forma a sensibili e intense peculiarità della fede islamica, assenti nel rigoroso monoteismo della Penisola arabica».
Un ragazzo attraversa una valle di dune. Kerzaz, Algeria 1972.
© Kazuyoshi Nomachi.
«Via via che si scende verso sud, lasciandosi alle spalle la catena montuosa dell’Alto Atlante nell’Africa nord-occidentale, la terra si prosciuga; la strada conduce ben presto verso un territorio di estrema siccità, tra sabbia e pietra. Appena sembra di aver superato quelle ostili e gigantesche rocce, ci si ritrova all’improvviso in un mondo fatto solo di sabbia scolpita in sublimi e ondeggianti dune. Fatte salve le rare macchie di verde delle oasi, quello sconfinato vuoto persiste anche se si guida per 3 o 4 giorni di seguito, proprio come se si sfogliassero le pagine bianche di un libro muto. La potenza del Sahara non nasce solo dall’immensità del suo spazio. Il deserto fu, fino a poche migliaia di anni fa, un’area climatica umida; lo raccontano le immagini di vita e di animali incise da 8.000 anni nella roccia delle zone montuose. Quando, nel 1972, scoprii il Sahara, ne fui letteralmente conquistato. Tornandoci ripetutamente, ho sentito più volte di aver percepito la sua vera natura, poco visibile, quasi fosse nascosta dietro un velo».
Un ragazzo Nuer si lava i cappelli con l’urina di mucca.
Jonglei, Sudan del Sud 1981. © Kazuyoshi Nomachi.
«Avevo 34 anni quando, nell’ottobre del 1980, iniziai a esplorare le terre lungo il Nilo con il fuoristrada che mi ero portato dall’Europa. La natura variegata e la gente lungo il fiume mi hanno totalmente affascinato. Mi colpì in modo particolare quando, nel Sudan meridionale, m’imbattei in una tribù di pastori che viveva a stretto contatto con una mandria di bestiame, come in epoche preistoriche. Purtroppo, in seguito all’interminabile guerra civile e alla carestia iniziata nel 1983, questa regione si è via via ridotta a un territorio desolato e incolto. Tornarvi è stato possibile solo dopo che, nel 2011, il Sudan del Sud è diventato uno stato indipendente. Bastò quella scintilla a fare crescere in me il desiderio di vedere con i miei occhi cosa era successo a quella tribù di allevatori. Finalmente, dopo 32 anni, mi sono trovato nuovamente in quella natura infinitamente selvaggia dove uomini e bestiame convivono in un rapporto simbiotico. È ovvio che il segno dei tempi ha ormai raggiunto anche le regioni più remote dell’Africa, ma ciò nonostante lo stile di vita dei pastori è rimasto sostanzialmente lo stesso, compresa l’abitudine di cospargersi delle ceneri dello sterco dei bovini per proteggersi dalle zanzare».
Durante la celebrazione del Lhabab Duchen, i pellegrini camminano intorno a una collina sulla quale si erge uno stupa.
Tibet, Cina 1991. © Kazuyoshi Nomachi.
«I miei primi viaggi in Tibet risalgono alla fine degli anni 80. Gli altopiani del Tibet si distendono nel cuore dell’Asia, ben oltre la catena dell’Himalaya. Ad una altitudine media di 3.500 metri, in queste montagne aride dove l’erba scarseggia, la gente vive di pastorizia insieme agli yak, unico bovino acclimatato alle rigide condizioni dell’ambiente. I tibetani sono devoti al Buddhismo, ereditato dall’India ma rivisitato in base a una forte sensibilità propria, originata anche dalla loro visione della vita in un territorio estremamente povero di capacità produttive. Diversamente da quanto è accaduto in altri paesi buddhisti più al passo coi tempi, in cui i fedeli si sono via via allontanati dalla religione, i tibetani hanno modellato la loro società arricchendo sempre di più gli insegnamenti buddhisti fondati sulla teoria della reincarnazione. La ragione per cui gli occidentali si rivolgono sempre di più al Buddhismo tibetano, che considerano il Buddhismo in senso assoluto, deriva in modo particolare dal mite ottimismo che lo caratterizza, radicato nel riconoscere l’uguaglianza tra gli uomini, anche in virtù delle estreme condizioni ambientali del Tibet e dell’Himalaya».
Uomini con la maschera, chiamati Ukuku (“orsi”).
Qoyllur Ritti, Perù 2004 © Kazuyoshi Nomachi.
«Fino alla scoperta del “nuovo continente” da parte di Cristoforo Colombo, le Americhe erano totalmente escluse dai rapporti con l’Eurasia. Tuttavia nell’altopiano andino, in America del Sud, si era sviluppata una originale civiltà. Quando giunsero gli spagnoli, nel XVI secolo, gli Inca, che vantavano ai tempi un vasto impero, furono spazzati via in un lampo. Fu il tragico incontro fra la nazione allora più potente del mondo, che si era avventurata via mare nelle grandi esplorazioni, e gli Inca, i quali non avevano la minima conoscenza del mondo esterno. I conquistatori spagnoli indussero in parte i popoli andini a convertirsi al Cristianesimo; i nativi riuscirono tuttavia a fondere nella nuova religione gli elementi del loro credo tradizionale, dando vita a una vera e propria Cristianità andina. Il pellegrinaggio del Qoyllur Ritti, a cui ho assistito nel 2004, ha la sua origine in una leggenda che racconta dell’apparizione della figura di Gesù su una vetta nei pressi di Cuzco, considerata sacra dai nativi peruviani».
I pellegrini recitano il Maghrib dopo il tramonto nella tendopoli di Mina, allestita per accoglierli durante l’Hajj.
La Mecca, Arabia Saudita 1995. © Kazuyoshi Nomachi