È raro trovare una tale sintesi di forza, espressività, una tale capacità di narrazione, testimonianza, una tale concentrazione di simboli, significati. È quello che offre ai visitatori la splendida e dolorosa raccolta di immagini messa assieme da Denis Curti e Alessandra Mauro, curatori della mostra Ombre di guerra ospitata al Museo dell'Ara Pacis di Roma fino al 5 febbraio. 90 grandi immagini di altrettanti grandi fotografi. 70 anni di iconografia della guerra, dalla Spagna del 1936 al Libano del 2007. Il soldato che stringe il fucile, traumatizzato dalle bombe in Vietnam, nello scatto di Don McCullin; la veglia funebre in Kosovo di Merillon; la bandiera americana piantata su Iwo Jima nella Seconda Guerra Mondiale; il miliziano ripreso da Robert Capa colpito a morte nella guerra civile spagnola, l'uomo con le buste della spesa davanti al carro armato in Piazza Tienanmen di Stuart Franklin, le fosse comuni della Bosnia nelle foto di Gilles Peress, la guerra nel Libano di Paolo Pellegrin.
Ombre di guerra è un progetto Contrasto (che ha anche edito il volume con tutte le fotografie in mostra accompagnate da un testo descrittivo, pp. 200, 90 fotografie a colori e in bianco e nero, 29 euro) nato su proposta dalla Fondazione Veronesi nell'ambito delle iniziative legate alla terza Conferenza internazionale Science for Peace, oggi alla sua terza edizione, e che si propone come obiettivi la diffusione di una cultura di pace e la progressiva riduzione degli ordigni nucleari e delle spese militari a favore di maggiori investimenti in ricerca e sviluppo. «Queste fotografie vogliono essere un invito alla riflessione e poi al dibattito su come dire basta alla violenza», afferma il Prof. Umberto Veronesi, «per questo la mostra fa parte delle iniziative promosse da Science for Peace, il progetto che ho voluto creare per promuovere la cultura della non violenza e della tolleranza». Come diceva Susan Sontag, «una fotografia non può costringere. Non può svolgere il lavoro morale al posto nostro. Ma ci può mettere sulla buona strada».
© Henri Bureau/Sygma - L'incendio dei pozzi petroliferi. Abadan, Iran, 1980
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Per Alessandra Mauro, le fotografie scelte «raccontano una parte della recente storia dell'umanità. La scelta è stata condotta cercando di privilegiare quelle immagini che più di altre avessero un valore non solo di documentazione ma simbolico nell'individuare i diversi aspetti del dramma umano e infinito che è la guerra. Abbiamo così cercato di raccogliere le fotografie che sono diventate, come spesso si usa dire con un termine fin troppo abusato, "icone" del nostro tempo, quelle che nei gesti, nelle pose plastiche, nel gioco di luci, nel rapporto tra soggetto ritratto e scena di fondo, nel rimando, implicito o magari esplicito, all'iconografia classica dell'arte cristiana, si sono impresse nella nostra mente come paradigmatiche di una situazione al limite. E il limite è quello della resistenza umana, della capacità di restare vivi, magari di uccidere. O per chi è chiamato a raccontare tutto questo, il limite è la capacità di continuare a documentare una scena d'azione, di violenza o di morte, senza perdere il senso del proprio lavoro se non del proprio io.
Il lasso temporale è stato deciso prendendo come punto di partenza la guerra civile spagnola, conflitto che ha inaugurato l'era del moderno fotogiornalismo. Come punto di arrivo abbiamo deciso di concederci almeno due anni di distanza, il minimo di separazione possibile dal calore degli avvenimenti, necessario anche per questo tipo di lavoro. Il criterio cronologico, a parte due casi estremi ed emblematici, ci ha guidato anche nella sequenza delle immagini che ripercorrono, appunto, le tappe del tempo di guerra in cui viviamo. Tempo, purtroppo, infestato da tante guerre diverse che si accavallano una sull'altra nelle prime pagine dei giornali. Come tutte le scelte, anche questa è parziale e passibile di cambiamenti e migliorie. La selezione non vuole essere definitiva, né esaustiva di tutti i conflitti mondiali e di tutte le immagini prodotte in questi anni. Ma se è vero, come afferma Georges Didi-Huberman, che per sapere bisogna immaginare, cioè avere delle immagini che facciano comprendere, allora questa selezione vuole essere proprio un contributo alla comprensione. Comprensione del nostro tempo, dei suoi lati più oscuri e del lavoro di quanti hanno deciso di raccontare queste tenebre della ragione. Sicuri, come siamo, che nulla dell'esperienza umana debba andare trascurato e tutto debba invece essere visto, raccontato e compreso.
© Davide Monteleone/Contrasto
La Valle di Kodori, controllata dai miliziani abkazi. Abkhazia, ottobre 2008
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Il soldato sperso nella foresta dell'Abkazia e ritratto da Davide Monteleone è il simbolo di tutti i conflitti e di tutti i protagonisti che questi conflitti hanno vissuto e patito. E in questi ultimi mesi, l'attualità torna di nuovo a mostrarci come la distanza tanto cercata, anche in questo lavoro, forse non sia altro che una mera utopia. Due fotografi, due giornalisti, Tim Hetherington e Chris Hondros, sono morti a Misurata, in Libia, il 20 aprile scorso mentre erano al lavoro, documentando quel che doveva essere documentato. Con Tim abbiamo lavorato insieme per questo progetto: abbiamo discusso le immagini di guerra, quelle fisse e quelle in movimento del suo film "Restrepo" e sua è l'immagine che chiude la selezione. Alla memoria di Tim Hetherington e Chris Hondros, al loro lavoro, è dedicato Ombre di guerra nella convinzione di quanto sia fondamentale il ruolo difficile e scomodo, lo sguardo partecipe ma attento, informato e sensibile, del fotogiornalista».
Per Denis Curti, l'altro curatore della mostra, «davanti a fotografie che mostrano il dolore, la sofferenza e l'orrore della guerra, alcuni critici scambiano l'urgenza di informare e creare consapevolezza con pornografia, indifferenza o ipocrisia. È come se l'abbondanza di immagini tragiche e la pervasività della loro diffusione sui media anestetizzassero progressivamente i propri spettatori rispetto all'orrore che raccontano. Queste accuse, in realtà, rivelano qualcosa di semplice e al tempo stesso pericoloso: il desiderio di non guardare le ferite del mondo. Al contrario, i fotografi di guerra si trasferiscono sul campo dei conflitti di tutto il pianeta e, anziché voltare la testa dall'altra parte, puntano l'obiettivo verso ciò che noi tutti dobbiamo vedere e sapere. La loro grandezza si misura da questa presenza che sostituisce quella di tutti noi e ci consente di osservare e giudicare, dalle nostre case, la violenza che ogni giorno sconvolge la terra che abitiamo.
© Lynsey Addario
Soldati dell'Esercito Sudanese di Liberazione sorpresi da una tempesta di sabbia. Darfur, Sudan, 2004
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Durante l'invasione di Praga da parte degli eserciti del Patto di Varsavia nel 1968, Josef Koudelka si trova nella sua città. Ha la macchina fotografica, scende in strada e scatta. Scatta con la rabbia di un uomo libero, testimone di un sopruso insopportabile. Scatta da partecipante attivo. Come lui si spingono in prima linea moltissimi reporter, la cui nobiltà trova il proprio fondamento nella partecipazione diretta alle vicende che riportano (Robert Capa sosteneva che "se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino"), nella volontà di andare in fondo a un fatto giornalistico, nella scelta consapevole di premere il pulsante di scatto, testimoniare, denunciare. Fotografare la guerra, s'è detto, significa parteciparvi, ma questo non significa soltanto camminare al fianco delle truppe, poiché talvolta una fotografia può sortire lo stesso effetto di un proiettile. Premere il pulsante di scatto, allora, può diventare difficile quanto esplodere un colpo di fucile. Ma in guerra ogni azione si compie in fretta, così in pochi istanti il fotografo si trova a dover prendere complicate decisioni che riguardano la cronaca, la rappresentazione, la propria sicurezza, l'etica.
Mostrandoci un mondo inospitale, i fotografi ci costringono a rivedere i fondamenti della nostra società, a immaginare alternative e soluzioni. Le fotografie costituiscono pertanto un punto di partenza per una riflessione di tipo etico, come ben spiega Cornell Capa: "le immagini, al loro massimo di passione e verità, possiedono lo stesso potere delle parole. Se non possono apportare cambiamenti possono, almeno, fornire uno specchio non distorto delle azioni umane e quindi dare una forma alla consapevolezza umana e risvegliare le coscienze". Ma di quale verità ci parla Cornell Capa? Non certo della semplice corrispondenza fra la realtà che è di fronte all'obiettivo e ciò che la sua immagine riproduce, poiché sappiamo che nessuna verità di questo tipo è concessa in fotografia, bensì esprime la capacità di questo strumento di offrire al proprio pubblico una grande quantità di dettagli e calarlo nel mezzo dello scenario rappresentato […] Come fa con ogni suo soggetto, la fotografia è un fondamentale supporto per tenere a memoria i fatti della guerra. La fotografia serve come monito per evitare il ripetersi di errori sempre uguali, immani tragedie che trascinano alla morte migliaia, milioni di persone».
© Alexandra Boulat/VII
Una serie di pallottole ed un tulipano di carta decorano un ufficio a Quetta, Pakistan. Dicembre 2001
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Fotografi in mostra
Abbas, Eddie Adams, Lynsey Addario, Dimitri Baltermants, Micha Bar-Am, Bruno Barbey, Gabriele Basilico, Werner Bishof, Phili Blnkinsop, Jean-Marc Bouju, Alexandra Boulat, Margaret Bourke-White, Henri Bureau, Larry Burrows, Romano Cagnoni, Robert Capa, Gilles Caron, Francesco Cito, Mario De Biasi, Corinna Dufka, Thomas Dworzak, Stuart Franklin, Leonard Freed, Mauro Galligani, Marc Garanger, Jean Gaumy, Ashley Gilbertson, Stanley Greene, Philip Jones-Griffith, Ron Haviv, Tim Hetherington, Henri Huet, Yevgeni Khaldei, Josef Koudelka, Alex Majoli, Eiichi Matsumoto, Don McCullin, Susan Meiselas, Georges Merillon, Davide Monteleone, James Nachtwey, Paolo Pellegrin, Gilles Peress, Joe Rosenthal, Sebastião Salgado, David "Chim" Seymour, Crhistiane Spengler, Tom Stoddart, Anthony Suau, Gerda Taro, David Turnley, Nick Ut, Peter van Agtmael, Riccardo Venturi, W. Eugene Smith, George Steinmeyer, Laurent Van der Stockt, Francesco Zizola |
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