Quota Mille è un ritorno a casa. Ma il Matese della mia adolescenza era assai diverso dalla rappresentazione che ne ho dato in questo libro. La visione di allora puntava alla vetta, la montagna mi si offriva per linee verticali. Era solo un salire è uno scendere, risalire i 2000 metri del monte Miletto sci in spalla. Erano valloni silenziosi, neve fresca, vento. Era percepire lo sforzo che ti portava fino in vetta. Matese rappresentava l'anticamera dell'avventura che avrei voluto vivere altrove. Non prestavo allora attenzione alla gente che su queste montagne viveva e lavorava. Quella stessa attenzione che con gli anni sarebbe diventata il cuore del mio lavoro di giornalista: raccontare storie di persone, in tanti angoli del pianeta. Uomini e donne travolti da catastrofi naturali o guerre. Storie di solidarietà o di miseria umana. Con il tempo la curiosità per i luoghi ha così lasciato sempre più spazio alle vicende dei singoli individui o di intere popolazioni.
Oggi l'elemento umano ritratto nel suo ambiente rappresenta il punto d'incontro tra la tensione professionale e il tentativo di raffigurare il mondo contemporaneo in maniera lenta, fotografica, prima che i media, gli occhi delle telecamere, non ne abbiano già imposto una visione accelerata e spesso deturpante. È una sfida doppia. Trovare luoghi lenti, ovvero puri, prima che si consumino del loro stesso isolamento. Immagazzinare poi di quel luogo una memoria quanto più fedele possibile, posizionandomi ad una distanza intermedia tra la vicinanza emotiva e il distacco iperrealista. Elaborando i confini di questa sfida mi sono accorto che il mondo che andavo cercando era quello più vicino a me, vicino e al contempo carico di percezioni d'altrove. Sapori di est. Balcani, Caucaso. Un mondo fatto di persone, chiuso e aspro che si sviluppa in orizzontale a mille metri lungo l'asse longitudinale del Massiccio del Matese. Dunque Quota Mille non è solo un ritorno a casa quanto, soprattutto, un punto di partenza. Ringrazio tutti quelli che hanno partecipato silenziosamente a questo progetto. Tutte le persone che hanno aperto le loro case e si sono lasciati ritrarre. Il più delle volte senza fare domande ma istintivamente in sintonia con il lavoro che li vede protagonisti.
© Francesco Fossa
Di seguito, l'intervento di Paolo Rumiz che accompagna – nel libro pubblicato da Punctum (96pp, 52 foto a colori, 30 euro) – le immagini di Francesco Fossa.
«Arrivai lì sotto, dalla valle del Volturno, alzai lo sguardo. Ciò che mi sovrastava era una "sierra", una fortezza naturale, protetta da ogni lato da precipizi o pendii scoscesi. Così ne avevo viste in Spagna dalle parti di Aragona, nel cuore della Bosnia durante gli anni cupi della guerra; una sensazione analoga mi aveva fatto l'altopiano di Asiago arrivandoci dall'orrido della Valstagna. Ma stavolta c'era qualcosa di più: c'era Annibale, c'era il conflitto mai risolto fra Roma e i popoli italici, c'era un temporale che sparava cannonate tra la costa e il crinale da'Appennino. Una presenza cosmica, come se un'immane astronave si fosse posata lì, venuta da chissà dove.
© Francesco Fossa
Raccontai il momento nel libro che ne seguì, dedicato al condottiero cartaginese. Scrissi: "Proseguiamo verso la cordigliera del Matese che presto ci sovrasta gravida di pioggia, e i Sanniti che l'abitano scendono per strade inverosimili a bordo di Api, trattori o furgoni. Hanno facce larghe di campagna; Napoli è lontanissima. Chissà se Annibale passò di qui, mi chiedo davanti alle mura di Alife, romane quanto si vuole, ma con un bell'elefante quale civico emblema". Alife, che posto. Che distanza incommensurabile dalla conurbazione partenopea.
Fu allora, ai piedi della muraglia, che ebbi la sensazione netta di essere uscito dal tempo e di entrare in un altro tempo. Così continua il racconto: "Sta per piovere, l'alta valle del Volturno è segnata da mandrie di bufale inquiete. Passa un Contadino sul trattore, ma io vedo un centauro, mezzo uomo mezzo cavallo, garretti lucidi e zoccoli infangati. Tuona. Saliamo verso la sella del Perrone. La montagna è un sistema chiuso, una perfetta acropoli, una roccaforte dell'autosufficienza appenninica. Un mondo ricco di legna, acqua, frutta, mandrie e uomini indomabili".
© Francesco Fossa
Fu lì che capii. C'erano una volta sull'Appennino i popoli di montagna. La loro terra non bastava a sfamarli e si racconta che per sopravvivere, decisero di sacrificare i loro figli in primavera, ogni certo numero di anni. Era il Ver sacrum, l'atroce "primavera sacra" dei popoli italici. Nei secoli il rituale si umanizzò e si scelse di espellere, anziché uccidere, gli uomini in abbondanza. Partivano a eserciti, nelle primavere stabilite, accompagnati dall'emblema di un animale totemico. Hirpus e luk, il lupo; picus, il picchio; vitulus, il vitello. Così nacquerò i popoli che furono il nerbo dell'Appennino: Irpini, Piceni, Lucani.
© Francesco Fossa
Per sfamarsi – mi raccontò durante la traversata appenninica il professor Giovanni Brizzi, massimo esperto annibalico d'Italia - questi cominciarono a premere su città, coste e pianure, ma vennero ricacciati indietro. E quando Roma cominciò a espandersi, si arroccarono sulle montagne adottando una tecnica 'afghana' di agguati, senza mai scontri in campo aperto. Spesso si federarono, comunicando tra loro con una rete di tratturi". Forse gli stessi che Annibale avrebbe attraversato.
Il Matese, che Francesco Fossa racconta nel suo libro fotografico "Quota mille" mostra proprio questo: un'altra Italia, lontana secoli dalla Roma di oggi, lontana soprattutto dal mondo cellofanato che imperversa in Tv. Un mondo solitario, abbandonato dalla politica, privato di ogni difesa, aggredito dai predoni dell'energia, dell'acqua e del vento. Un mondo di gente dura, arroccato alle sue montagne e che si difende come può, anche ostentando l'orrido ai forestieri.
© Francesco Fossa
Nel mio viaggio vidi "gole senza fondo, strade che si infilano senza nemmeno lo spazio per i paracarri; curve a picco sul nulla come nelle illustrazioni dantesche del Doré, insegne che additano il Saloon dell'impiccato o valloni arcigni come la Bocca della Selva". Fotogrammi incancellabili nella memoria, come questi – di forza quasi neorealista – che compaiono nel libro di Fossa. L'Italia non ama i montanari, li considera cafoni, burini, bestie ignoranti. L'Italia vive a quota zero, ignora che a quota mille si è giocata fino a ieri la sua storia e si è costruita la sua ricchezza pastorale.
© Francesco Fossa
Non esiste nel Mediterraneo un luogo simile, con la montagna così vicina al mare (anzi, a due mari), un luogo dove di conseguenza la transumanza si può giocare in così pochi chilometri, senza i nomadismi estremi del Medio Oriente o del Nordafrica. È tempo di riappropriarsi di questi luoghi, di guardarli con fierezza, con orgoglio. Sono questi uomini e queste donne, fotografati da Fossa – che rappresentano la nostra memoria, il nostro legame antico alla terra e al paesaggio».
© Francesco Fossa
Chi sono
Una carta geografica del Mondo e tanta curiosità: comincia così a 17 anni il mio viaggio alla ricerca dell'altrove, di storie da vivere prima ancora che da raccontare. Sono diventato giornalista occupandomi dell'est Europa. Collaboravo nel 1989 all'Espresso, poi in seguito anche con Diario e D La Repubblica. Ma è con Mediaset, dal 1993, che ho collezionato il maggior numero di esperienze: Guerre di Camorra, Balcani, Medio ed Estremo Oriente. L'Afghanistan nel 2001 ha segnato un punto di svolta. Emotivo e professionale. È lì che la fotografia è esplosa come qualcosa di necessario alla mia visione della vita. Utile a capire meglio quello che le immagini video spesso nascondono. Il lavoro "Quota Mille" nasce dalla considerazione che sempre più spesso siamo attratti da ciò che è lontano, dimenticando le nostre origini. I Pastori del Matese siamo noi. Rappresentano l'altrove nascosto in fondo alla nostra anima.
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