L'antologica dedicata a Mimmo Jodice - curata da Ida Gianelli e Daniela Lancioni (Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino all'11 luglio) - celebra i cinquanta anni di attività del famoso fotografo italiano nato a Napoli settantacinque anni fa: circa 180 fotografie, scattate tra il 1964 e il 2009, tutte in bianco e nero e stampate per la maggior parte a mano dall'autore. Dalle sperimentazioni degli anni Sessanta al momento dell'indagine sociale, dalla sparizione della figura umana ai particolari del paesaggio napoletano trasformati in icone metafisiche, dai frammenti e dettagli di antiche vestigia trasformati in presenze magiche al mare catturato in una dimensione atemporale. Di seguito, riproduciamo il testo "Uno sguardo lento per capire, ricordare, emozionarsi" che le due curatrici hanno scritto in occasione della mostra.
Strombolicchio, 1999
Stampa al carbone su carta cotone, 2009
«Mimmo Jodice approda alla fotografia intorno alla metà degli anni Sessanta, periodo segnato da profondi cambiamenti, alcuni carichi di vitalità, altri cupi presagi di crisi. La guerra del Vietnam, quella in Medio Oriente, i primi moti studenteschi e le prime avvisaglie della crisi economica che sarebbe sfociata nell'autunno caldo. È stata anche l'epoca in cui venne maggiormente ingiuriato il paesaggio, quella raccontata dal film di Francesco Rosi, Mani sulla città (1963) e drammaticamente sintetizzata dalla frana di Agrigento del 1966 che sgretolò edifici di spropositata bruttezza costruiti al di la di ogni ragionevole piano urbanistico. Nel 1964 la pop art americana si impose sulla scena internazionale, quando già una nuova sensibilità – arte concettuale, gruppo 63, nouveau romance, nouvelle vague, lo strutturalismo come griglia interpretativa – combatteva contro la funzione dell'arte rappresentativa o narrativa in nome di una rinnovata esigenza di libertà e di adesione al reale (in opposizione a ogni trascendenza, ma contemplando, talvolta, il mistero). La foto di Mimmo Jodice Canne fumarie del 1964 ha un taglio e una inquadratura dal basso che la rendono una visione insolita e mostra un cielo disegnato dai fili aerei dell'abusivismo, in essa, però, a far da protagonista non è il degrado, ma la luminosità intensa dei muri più lontani che contrasta con la luce già viva di quelli in primo piano. Niente, in questa immagine e in quelle successive, può essere riferito alla sensibilità della pop art, come sin dall'inizio la critica ha rilevato, gli oggetti che vi compaiono sono estranei ai prodotti di consumo o ai nuovi riti di massa, è difficile anche decifrare l'ambiente nel quale sono stati fotografati o il loro impiego.
Amazzone da Ercolano, 2007
Stampa al bromuro d’argento, 2007
I corpi trasparenti delle bottiglie di vetro della serie Glass diventano una sorta di materia pittorica. In ciascuna foto della serie una stessa bottiglia, è ripetuta, fotografata da punti di vista diversi, con intensità luminose differenti, usando tutte le possibilità espressive offerte dal lavoro in camera oscura. Il titolo Ricerche e sperimentazioni assegnato alle fotografie di questi anni, aderisce allo spirito nomade con il quale l'autore ha indagato gli strumenti della fotografia, innestandoli con altri procedimenti; la pittura, ma principalmente la tecnica grafica del collage di cui ha fatto un uso inedito, sospeso tra l'espressione del frammento e l'amore per la definizione dell'immagine. In alcuni paesaggi del 1966-1970, Jodice ripropone uno stesso scatto panoramico del fitto agglomerato urbano di Morano Calabro, antico borgo alle pendici del Pollino, attraverso una serie di varianti, in ciascuna delle quali sperimenta un'azione o una tecnica diversa, come in Paesaggio interrotto I, dove ha tagliato l'immagine in diverse porzioni (ripetendo manualmente la scelta del
taglio fotografico insita in ogni scatto) e poi l'ha ricomposta accostandone i frammenti leggermente sfalsati. Altre immagini le ha lavorate con un processo meno analitico, strappandole (Paesaggio interrotto II), o conferendo a esse l'impressione del movimento (Paesaggio stroboscopico). L'azione di frammentare l'immagine e di ricomporla, è all'origine anche di alcuni nudi di questo periodo, mentre nei ritratti, Angela, Sonia, Maily, Elena, Allen Ginsberg, l'autore interviene attraverso i processi di polarizzazione, solarizzazione, sgranatura, sovrapposizione (con effetti di trasparenza).
Per almeno una decina di anni, Jodice procede nella sua ricerca con risultati solo apparentemente paralleli, in realtà convergenti sotto diversi aspetti. Frutto di una riflessione sulle possibilità espressive della fotografia, sono mostre come Fotografie dal Giappone del 1974 dove mette a confronto le sue immagini con quelle delle cartoline e Identificazione del 1978, nella quale decostruisce la figura dell'autore attraverso un processo di rimandi ad altri fotografi particolarmente amati, Richard Avedon, Bill Brandt, Walker Evans, André Kertész…
Stromboli, 1999
Stampa al carbone su carta cotone, 2008
Parallelamente, nel corso degli anni Settanta, Jodice non si è sottratto all'opportunità offerta dalla fotografia di farsi strumento di indagine sociale sino a diventare espressione di impegno politico.
All'epoca si verificò una sorta di prodigio, artisti, scrittori, scienziati e intellettuali, con le loro opere riuscirono a investire di una luce positiva ciò che prima di allora non era che degrado, nel migliore dei casi oggetto di pietà. Le indagini antropologiche di Ernesto De Martino, quelle sulla musica popolare di Diego Carpitella e di Roberto De Simone, gli scritti e gli interventi
polemici di Pier Paolo Pasolini, le analisi sociologiche di Domenico De Masi, le foto stesse di Mimmo Jodice, contribuirono, in maniere diverse, oltre che a denunciare le responsabilità del sistema politico ed economico, a guardare agli uomini e alle donne del Sud d'Italia o delle periferie delle grandi città, con occhi diversi, sapendo anche scorgere in loro i custodi di comportamenti e di valori da salvaguardare.
Nascono, frutto anche di alcune illuminate committenze che soprattutto in questi anni svolsero un ruolo strategico per la diffusione della fotografia, lavori come quello sulle feste popolari in Campania, raccolto nel 1974 nel libro Chi è devoto nato dalla collaborazione con Roberto De Simone, le immagini dedicate alla vita degli operai nelle acciaierie di Terni (1970 e 1976), quelle scattate a Napoli durante l'epidemia del colera nel 1972 o nell'ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi nel 1977. Accanto a questi lavori, si colloca quello importante sotto diversi aspetti, professionali e biografici, che Jodice ha svolto nelle gallerie napoletane, fotografando i protagonisti dell'arte europea e americana, Alfano, Beuys, Kounellis, Warhol… Un processo mentale, simile a quello che abbiamo riscontrato nelle fotografie sperimentali, impronta anche le sue immagini di soggetto sociale, nelle quali mette a fuoco l'essenziale, scartando il patetico per proporre il drammatico. Jodice fa poche concessioni al taglio documentario della vista di insieme. Preferisce concentrare l'attenzione sulla figura. Pur riconoscendo il valore di Cartier-Bresson, ha più volte ribadito la sua estraneità alla poetica del momento decisivo. Le sue immagini non rubano l'intimità a coloro che pregano, lavorano, al malato ricoverato o al povero inattivo nel suo alloggio. Jodice sembra accostarsi a questi soggetti con cautela e solo a patto dell'apertura di un canale di comunicazione. Molti dei personaggi che ritrae, come è stato più volte notato, guardano in macchina, hanno la dignità delle persone in posa ma soprattutto guardano noi (guardavano quindi Jodice che li fotografava) come si guarda la persona con cui si sta dialogando.
Ercolano n. 2, 1972
Stampa al bromuro d’argento, vintage
Nella serie di fotografie intitolate Vedute di Napoli, come nelle più fortunate congiunzioni astrali, si sono sovrapposti lo spirito nomade che ha mosso l'iniziale sperimentazione e l'amore per il soggetto e con queste fotografie Mimmo Jodice è approdato a quella pienezza espressiva che ormai da molti anni segna il suo lavoro. Giuseppe Bonini ne individuò subito il carattere "autoriflessivo" e il richiamo alla Metafisica dechirichiana. Nelle Vedute di Napoli sparisce del tutto la figura umana, non si assiste, però, a un processo di desertificazione. Le immagini non suggeriscono desolazione, continuano a pulsare di vita, di senso, di significati, perché le loro inquadrature, ponendo in primo piano un oggetto, un particolare architettonico, oppure abbracciando una porzione limitata di spazio sempre definita da elementi in stretta relazione tra loro, rilevano ogni volta un soggetto. E questo diventa espressivo, comunicante, mai retorico o virtuoso, sempre sospeso in una sorta di ambiguità, vagamente misteriosa.
Alcuni soggetti, qualsiasi sia la loro natura, assumono una fattezza che ricorda quella umana, come accadrà spesso nelle fotografie della serie Eden. In riferimento alla categoria interpretativa individuata da Roland Barthes, si potrebbe dire, per paradosso, che le immagini di
Jodice dilatano il punctum sino a farlo coincidere, quasi, con l'intera immagine. Lo spazio ambientale ha poco rilievo in queste fotografie nelle quali l'oggetto parziale prevale sull'oggetto totale: la finestra, la porta, il muro e non l'intera architettura o lo spazio urbanistico nella quale essa si erge. Nella serie Eden: un alimento, i manichini, i guanti, le sedie… Nelle immagini degli anni Settanta e Ottanta, raggruppate nei capitoli Vedute di Napoli e Rivisitazioni, si può riscontrare la predilezione di Jodice per alcuni soggetti, i muri disegnati dal tempo, gli oggetti velati, le nicchie, porte e finestre murate, forme simboliche che introducono la riflessione sull'arte e sulla morte. Sebbene questi soggetti siano prevalentemente straniati dai loro contesti di appartenenza, non sono mai offesi da tagli arbitrari e lo spazio intorno, per quanto limitato, non è mai claustrofobico.
Napoli, 1986
Stampa al carbone su carta cotone, 2009
Non stupisce che Jodice abbia saputo dilatare il suo sguardo sino a orizzonti molto lontani.
Gli anni Ottanta sono segnati per il fotografo da una nuova forza rivolta all'esterno. I suoi viaggi non si svolgono solo all'interno della camera oscura, dove prosegue a sperimentare nuovi modi di intervento, né si compiono nelle vedute della sua città. Questa continua a essere fonte di affascinanti scoperte, come accade nei cicli dedicati all'Istituto Suor Orsola Benincasa (1987) o al Reale Albergo dei Poveri (1998). Ma alla sua Napoli, amata e meta di ciclici ritorni, Jodice affianca numerosi altri approdi. Il viaggio attraverso i luoghi dell'antica cultura mediterranea, la città di Arles, inizialmente, poi numerose altre città: New York, Parigi, San Paolo, Mosca, Tokyo… Talvolta luoghi e paesaggi sono indagati insieme alle persone che li vivono, attraverso un dialogo con gli altri che nel lavoro di Jodice ha sempre originato fertili raccolti, come nel caso delle fotografie dedicate a Gibellina, agli iconemi del paesaggio lombardo o alla città di Boston.
Sono un viaggio intrapreso verso l'antica cultura greca, le sue fioriture e i suoi innesti, la serie di fotografie raccolte con il titolo Mediterraneo avviata a metà degli anni Ottanta. Un itinerario attraverso luoghi e tempi diversi, che conferma il carattere autoriflessivo del lavoro di Jodice che con Mediterraneo risale alle origini della propria cultura. Muovendo da ciò che gli è vicino, Paestum, Pompei, Ercolano, Pozzuoli, Caserta, la stessa Napoli, Capua, Bacoli, giunge in Grecia, a Ostia Antica, a Roma, alla grotta dei cordari a Siracusa, all'anfiteatro di El Djem in Tunisia, a Pergamo e a Efeso in Turchia, a Cartagine, a Dougga in Tunisia, a Petra in Giordania, a Nîmes…
Vedute di Napoli n. 29 Egiziaca a Pizzofalcone, 1980
Stampa al carbone su carta cotone, 2009
Raramente dalle fotografie di Jodice possiamo individuare i luoghi. Si è tenuto lontano dai monumenti consumati dall'industria del turismo, oppure li ha osservati in maniera diversa o ne ha manipolato le immagini al punto che è impossibile collegarli a qualcosa di già noto. Ha fotografato architetture, siti archeologici, statue, pitture, mosaici. La figura umana, scomparsa all'epoca delle Vedute di Napoli, ritorna attraverso la rappresentazione che ne hanno data gli antichi maestri, come era avvenuto nel ciclo di fotografie sulla pittura seicentesca napoletana. Il processo di antropomorfizzazione, già osservato nelle Vedute di Napoli, si accentua. Le statue paiono di carne, mentre alcuni monumenti si fanno volti (gli occhi e la bocca aperti sulla roccia in Petra. Necropoli, 1993). Ricompaiono, inoltre, alcuni temi delle Ricerche e sperimentazioni come lo strappo, che ora è crepa nel marmo di una epigrafe (Napoli. Epigrafe, 1993) o l'effetto stroboscopico di alcune superfici murarie (Capua. Anfiteatro, 1993 e Puteoli. Anfiteatro Flavio, 1993). Come tutte le fotografie di Jodice, queste immagini nascono nel corso di un peregrinare, mai nevrotico, costellato, semmai, di felici divagazioni, dall'aggiunta di qualche nuova rotta imprevista, inserita per rispondere a una suggestione sopraggiunta all'improvviso.
Lavora con quello che trova, presentandosi all'appuntamento con l'immagine quasi spoglio, munito di una attrezzatura leggera. Talvolta è un espediente escogitato sul posto, che gli permette di fare una bella foto, come quando nell'Anfiteatro Flavio a Pozzuoli ha acceso un piccolo fuoco perché il fumo desse corpo ai raggi di sole che irrompevano dalla volta. Gran parte del lavoro, come di consueto, Jodice lo svolge nella camera oscura è lì che accende le sue luci, infonde il giusto grado di contrasto, cesella un rilievo o spiana una superficie. Una verifica del suo uso poderoso della luce, possiamo considerarla il fatto che in Mediterraneo nessun frammento, nessuna scultura ingiuriata dal tempo, riesce a destare malinconia. Non trapela un sentimento romantico da queste foto di antiche vestigia che la luce di Jodice trasfigura in assoluto presente. Non vediamo rovine, ma ciò che della cultura antica permane nel pensiero, nei modi, nella memoria estetica, nell'essere tutto dell'autore.
Attesa, 1999
Stampa al carbone su carta cotone, 2009
Se si pensa che molte di queste immagini sono state scattate nei musei, si è di fronte a un paradosso che dimostra la tenace persistenza del passato nel tempo attuale. L'idea di un tempo circolare, del cammino ciclico della natura, sembra essere alla radice di un'altra serie di fotografie di Mimmo Jodice, quella dedicata al Mare e che da oltre dieci anni si arricchisce di nuove immagini. In queste foto del tutto assente è il mare meta di vacanze o di altri riti di massa, né trapelano i luoghi comuni alla letteratura, come ha notato Predrag Matvejevic. Il mare, nelle fotografie di Jodice è quasi sempre osservato dalla riva (dal luogo più naturale per l'uomo privo di strumenti ausiliari). Da quella posizione lo si vede fluire e rifluire e l'autore ha voluto rendere questa percezione accostando, in alcune opere, fotografie scattate a breve distanza l'una dall'altra senza modificare il proprio punto di osservazione (Trentaremi, 2000 o Marelux n. 16, 2009). L'autore, fermo davanti al mare, aspetta che l'onda sia in grado di disegnare una bella immagine. Se mettiamo in relazione questo suo saper attendere con la qualità sospesa di alcune sue precedenti immagini nelle quali non c'era fretta di attribuire una funzione all'oggetto, di assegnare una trama narrativa al soggetto o di investirlo di una denuncia sociale, Jodice appare proteso verso il recupero di un tempo dilatato, rallentato, riflessivo, un tempo che vivifica quello dell'azione. Un tempo ampio tanto da poter consentire la distrazione e lo smarrimento.
Come nell'arte concettuale, l'opera di Jodice si carica di significato anche attraverso il comportamento del suo autore. Immaginiamo il fotografo attendere pazientemente il momento nel quale apportare il taglio (lo scatto) per trasformare il fluire ininterrotto dell'acqua in un momento di contemplazione. Le foto di Jodice offrono immagini incantate della natura, il mare, ma anche una gamma di alberi, arbusti, fronde, ne mostrano la bellezza riscattando gli scempi apportati al paesaggio negli ultimi cinquanta anni. In esse l'autore, è lui stesso a dichiararlo, ricerca la condizione di isolamento, un diverso equilibrio tra sé e le cose del mondo. E dobbiamo riconoscere che tra noi e le cose del mondo, le sue immagini sono capaci di riattivare quell'aspetto di separazione, di pausa, di interruzione, che attiene all'evidenza e alla attenzione. Anche le fotografie del Mare sono in bianco e nero, come tutte quelle di cui abbiamo scritto, come le altre lavorate in camera oscura con tecniche e procedimenti che permettono a Jodice quasi di dipingere mentre stampa il negativo. Una manualità, la sua, nella quale va ricercata, forse, l'origine di ciò che trapela dalle sue immagini, quella bellezza che è un'opzione per l'arte, come ha profeticamente osservato Arthur Danto, ma condizione necessaria per la vita».
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