1989-2009. Si sono appena concluse, o alcune sono ancora in corso, le celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro di Berlino e lo sgretolamento progressivo della cosiddetta cortina di ferro. Manifestazioni, commemorazioni, incontri, dibattiti, concerti, mostre. A Roma, tra le altre iniziative, due mostre hanno riproposto il tema: Prima e dopo il muro (presso il Museo di Roma in Trastevere, fino al 14 febbraio, con quaranta immagini di autori vari, da Henri Cartier-Bresson a Leonard Freed, da Gianni Berengo Gardin a Mauro Galligani, e il contributo della grande agenzia francese Eyedea), e La linea inesistente (al Palazzo delle Esposizioni, immagini di Davide Monteleone), diventata anche un libro ricco di immagini e documenti edito da Contrasto.
Patrick Piel - 11 novembre 1989. Il Muro cede sotto la pressione della folla. © Eyedea
Quanto è rimasto di quell'epoca? Di quegli eventi simbolici costitutivi della nostra memoria collettiva e identità? Di seguito riportiamo alcuni estratti del testo introduttivo al libro La linea inesistente, scritto da Andrea Péruzy, Segratario Generale Fondazione Italianieuropei, e Roberto Koch, Direttore Contrasto: «Il ferro, intrecciato come in una griglia, costituiva a tratti la vera e propria linea di confine che dal secondo dopoguerra fino alla caduta del Muro di Berlino divideva il mondo "occidentale" da quello sovietico. Così, la cortina di ferro evocata da Winston Churchill (ma prima di lui anche da Joseph Goebbels) come nuova sistemazione politica e culturale dell'Europa, era certamente la metafora del nuovo mondo uscito dilaniato e frantumato dalla tragedia della guerra, il simbolo di una impossibilità e di una negazione, l'ostacolo alla piena comprensione tra i popoli (che pure era l'ambizione su cui nacque la Società delle Nazioni) ma anche la vera, fisica, pesante e metallica separazione tra i due mondi. "Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico", come proclamò Churchill, quella striscia lunga settemila chilometri era di ferro, di cemento, di paura. Era una ferita aperta per l'Europa intera che visse quaranta anni adattandosi a quell'assurda divisione. Nel 1989 la cortina di ferro è crollata, il Muro è stato abbattuto e il ferro si è disciolto rapidamente, con l'euforia e il timore che accompagna le grandi svolte storiche. Ma lasciando cosa?
© Davide Monteleone/Contrasto
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Il volume di Davide Monteleone propone al lettore un viaggio lungo il percorso, accidentato ed emblematico, della ex cortina di ferro. Un viaggio nello spazio, certo, ma anche nel tempo per cercare di ritrovare le tracce e i segni di una storia che a volte sembra essere stata cancellata troppo in fretta, come un intoppo della coscienza che è necessario rimuovere per procedere oltre. Davide Monteleone, nato in un mondo già diviso, ha intrapreso il suo viaggio scoprendo, con la sensibilità del reporter e la visionarietà del fotografo, come al dissolversi della cortina sia comunque rimasto un paesaggio con molte soluzioni di continuità ancora vive e forti fino nelle architetture, nei volti, nelle abitudini. Di quella linea di confine scomparsa da venti anni, oggi non rimane che un luogo mentale, un tragitto da percorrere da Nord a Sud e viceversa, da attraversare liberamente da Est a Ovest e da Ovest a Est. Ma un luogo da scoprire e da interrogare.
Il viaggio di Monteleone è fatto di sguardi, annotazioni, evidenze, letture e studi, di conferme e scoperte. Soprattutto, è fatto di tappe; alcune scelte e decise in base a una strategia precisa, altre casuali – come spesso accade a chi viaggia. E ogni tappa, ogni fermata del viaggiatore-giornalista, è segnata da un dittico, due scatti che guardano uno a Ovest e uno a Est, per scoprire come sono oggi i paesaggi "oltre" e "al di qua" della cortina, chi abita quelle terre, quale innovazione o involuzione sociale possa essere avvenuta nei luoghi un tempo sorvegliati e inaccessibili. Il viaggio si conclude, e non poteva essere altrimenti, a Berlino. Città emblematica, luogo simbolo come pochi altri dell'Europa, Berlino ha portato incisa, sulla propria pelle e nelle sue strade, la cicatrice della ferita della storia: la divisione del Muro. In questa città l'autore ha cercato di raccogliere le atmosfere che potevano essere quelle di un tempo. Ha provato a rintracciare nei volti, nei paesaggi, nelle luci, nelle case, un'aria ipoteticamente scomparsa».
© Davide Monteleone/Contrasto
Ed ecco alcuni estratti dal testo di Silvio Pons, Direttore Fondazione Istituto Gramsci, inserito nel catalogo della mostra La linea inesistente: «Perché l'89 fu una rivoluzione pacifica? Perché i regimi comunisti cedettero il potere con tanta facilità? Queste domande accompagneranno a lungo la riflessione storica. Ancora oggi stentiamo a congiungere in un modo soddisfacente la narrazione dell'anno con la narrazione dell'epoca che allora si concluse. La strada più seguita è quella di fare ricorso all'influenza di singole personalità, le cui scelte e inclinazioni avrebbero largamente determinato il corso degli eventi. Animati da mentalità e obiettivi diversi, Lech Walesa, Giovanni Paolo II, Gorbaciov ci appaiono ancora oggi gli eroi e i protagonisti della rappresentazione, non molto diversamente da come apparvero ai contemporanei. La distribuzione dei ruoli storici e delle responsabilità può cambiare a seconda dei punti di vista e può modificarsi con il progresso delle conoscenze documentali. Ma ciascuno di quei personaggi presentò un'innegabile statura carismatica e ciascuno di essi contribuì a una soluzione pacifica, interpretando a suo modo aspirazioni e speranze che intersecavano la vecchia cortina di ferro.
© Davide Monteleone/Contrasto
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E tuttavia, il ruolo delle personalità non può bastare per capire la nostra storia. La profondità delle forze all'opera va cercata altrove. La crisi del comunismo aveva radici intrecciate nell'economia, nella società, nella cultura e nell'ambiente internazionale. La guerra fredda non era la stessa di trent'anni prima e non aveva più la centralità posseduta in passato, anzitutto per le generazioni più giovani. E lo stesso si può dire per il comunismo. Anche l'Europa era cambiata, attraverso processi di integrazione e politiche di distensione che avevano consolidato il suo nucleo prospero e democratico, promuovendo nel contempo forme di collaborazione economica che erodevano silenziosamente i confini tra i due blocchi. La Ostpolitik tedesco-occidentale fu decisiva per stabilire al centro dell'Europa una forma di interdipendenza e un principio di possibile riunificazione, che indeboliva la segregazione sulla sponda orientale e rafforzava la prospettiva di un'evoluzione pacifica. In un rapporto non sempre facile con le logiche della distensione, la questione dei diritti umani aveva assunto un peso e una centralità nella cultura europea, anzitutto grazie al coraggio dei dissidenti dell'Est, creando a sua volta un linguaggio volto a negare l'eredità della divisione del continente e a delegittimare i regimi comunisti.
L'89 si svolse in un mondo interdipendente che già conosceva la crisi del bipolarismo, la società post-fordista, la globalizzazione economica, tecnologica e culturale. Sotto l'impulso di una corrosione, avviata da tempo, degli ordinamenti internazionali e degli spazi politici emersi dopo la Seconda guerra mondiale. Nel contesto di un cambiamento dei linguaggi, dei costumi e dell'idea stessa di modernità, che rendeva marginali, inefficaci e irreparabilmente obsolete le soluzioni offerte dall'esperienza comunista. Nella prospettiva di una crescente chance di comunicazione e circolazione delle informazioni, che consentiva ora a qualunque cittadino dell'Est di compiere un confronto impietoso tra la propria qualità della vita e quella possibile sulla sponda opposta. La militarizzazione, lo stato di polizia, la separatezza, la politica di potenza, la censura sulla storia, la negazione delle scelte individuali, tutti i principali elementi costitutivi dei totalitarismi comunisti, avevano senso in un mondo dominato dalla guerra fredda, ma lo perdevano, e lo persero, in un mondo che non lo era più. Il comunismo e la guerra fredda avevano smarrito senso e legittimità agli occhi della stragrande maggioranza degli europei.
E' a partire da qui che possiamo capire il cambiamento grande e pacifico dell'89. Sapendo che senza comprensione storica non si produce memoria, ma si elabora soltanto il suo rito. Sotto questa luce, le frustrazioni e i ripensamenti che sono emersi negli ultimi vent'anni, provocando atteggiamenti di distacco critico se non anche di malcelata nostalgia per il passato (a dire il vero, molto più in Russia che non nell'Europa centro-orientale), ci appaiono indebite e ingiuste. La loro origine non sta nell'89, ma nel modo in cui è stato allora superficialmente celebrato in buona parte dell'opinione pubblica: come la "fine della storia", che avrebbe aperto un'epoca di progresso e di prosperità a portata di mano, sotto il segno del liberismo e del liberalismo. Questo non è successo, per il semplice motivo che non poteva succedere.
Il post-89 ha registrato l'unificazione dell'Europa, con la nascita dell'Unione e dell'euro, ma anche le guerre etniche e religiose nell'ex Jugoslavia; la transizione alla democrazia dei principali paesi dell'Europa centro-orientale, ma anche la nascita di una democrazia autoritaria in Russia; transizioni al mercato molto diverse tra loro e performance più fragili del previsto, conquiste sociali ancora più incerte e differenziate. La condanna morale del comunismo non si è sempre dimostrata un'acquisizione irreversibile, o all'opposto ha dato luogo a eccessi e a strumentalizzazioni politiche. Molti sogni di un'Europa politicamente integrata e potenza civile influente negli affari mondiali sono naufragati sotto l'impatto del mondo globale. Perciò la memoria di quell'anno è una memoria controversa. Eppure, l'89 resta parte del nostro mondo, perché si è svolto in un mondo già simile a quello in cui viviamo, perché ha lasciato su di esso un'impronta così forte da modellarne e accelerarne la trasformazione, perché ha fatto emergere gran parte delle culture, dei linguaggi e degli spazi che oggi ci definiscono. Le immagini che lo rievocano parlano di noi».
Nicola Gnesi - 2008. Un tratto di Muro lungo il corso della Sprea. © Eyedea
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