© Huang Yan
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La Francia, d'estate, diventa la capitale mondiale delle rassegne fotografiche. Grazie in particolare agli storici appuntamenti di Arles, in Provenza, e Perpignan, nei Pirenei orientali. Le tendenze e la ricerca ai Rencontres di Arles, giunti alla 38a edizione (dal 3 luglio al 16 settembre), il fotogiornalismo e la cronaca della realtà ai Visa d'or di Perpignan, giunti alla 19a edizione (dall'1 al 16 settembre).
© Alkazi Collection of Photograpy |
Quest'anno, anche Arles, dedica grande spazio al reportage. Tra le varie proposte dei Rencontres, oltre a quelle sul pianeta Cina in continua trasformazione (dalle opere dei Gao Brothers alle testimonianze sul distretto di Dashanzi, ex città industriale e militare all'interno di Pechino diventata un luogo di artisti, performer, gallerie, teatri) teniamo a segnalarne due in particolare: India Now, l'insieme di mostre dedicate alla fotografia indiana, e l'omaggio per i 60 anni di Magnum Photos. La crescita dell'India è rapida e i fotografi indiani continuano a sentire il bisogno di raccontare una società complessa ma che segue anche un antico sistema di regolamentazione. Lo stesso bisogno dei fotografi cinesi, ma il paragone finisce là. La società indiana non ha subito, come invece quella cinese, lo shock della rivoluzione culturale. Al contrario, la democrazia e l'indipendenza indiane, di cui si festeggia il 60° anniversario, hanno contribuito a preservare l'organizzazione sociale tradizionale. Che pesa, però, sulle giovani generazioni indiane. I fotografi presenti ad Arles - interessandosi alla famiglia, all'amore, alla sessualità - raccontano questa lacerazione tra attaccamento alla tradizione e bisogno di emancipazione. Si va dagli album fotografici dei Maharajà alle "foto dipinte" (dalla collezione della Fondazione Alkazi) fino alla retrospettiva di Raghu Rai, da quarant'anni eccezionale cronista del suo immenso paese. Per lui, l'India rimane un paese-musa, che lo ispira, lo rende felice e lo venera. Maestro riconosciuto e ancora attivissimo, a 65 anni, Raghu Rai vive con la meraviglia di un bambino l'avvento del digitale, che gli permette di avere il controllo assoluto su tutti gli stadi della fabbricazione prolifica delle sue icone.
© Raghu Rai
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Nella sezione "Hommages" si segnala la mostra dedicata ai 60 anni dell'agenzia Magnum fondata nel 1947 da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger, David Seymour, Maria Eisner e Rita Vandivert con l'intento di proteggere il diritto d'autore e la trasparenza d'informazione, di garantire l'indipendenza degli autori nella scelta dei reportage, nella selezione dei fotografi, nel controllo della diffusione, nella proprietà dei negativi e del copyright. La Magnum, rimasta la sola agenzia internazionale indipendente, è un piccolo miracolo che si ripete. Riunisce oggi circa 60 fotografi, tutti membri alla pari della cooperativa: sguardi forti, personali, diversi, con in comune la caratteristica di essere costantemente alla ricerca di nuove vie e di nuovi strumenti per interpretare la fotografia e il suo rapporto con il mondo. Testimoni e artisti, i fotografi Magnum rivendicano questa doppia identità che esplora i confini tra giornalismo e arte contemporanea.
60 anni di Magnum Photo
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La mostra di Arles propone un tuffo affascinante nel cuore di questa ricerca del reale, attraverso tante visioni singolari, in costante evoluzione, all'incrocio tra la storia del mondo e dello strumento fotografico: dall'«istante decisivo» di Cartier-Bresson ai «tempi fragili» di Raymond Depardon; dall'«archeologia documentale» di Gilles Peress ai «poemi costruiti» di Josef Koudelka; dai «cliché consumisti» di Martin Parr ai «paesaggi interiori» di Lise Sarfati; dai «grandi piani istantanei» di Bruce Gilden ai «collage» di Jim Goldberg. A testimonianza della validità, ancor oggi, delle parole di Cartier-Bresson: «Magnum è una comunità di pensiero, una qualità umana che si condivide, una curiosità per ciò che accade nel mondo, un rispetto per ciò che vi succede e il desiderio di trascriverlo visivamente».
© Ian Berry / Magnum Photos
© Dirck Halstead
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Dibattiti, esposizioni, laboratori. Questo è Perpignan. La trentina di esposizioni del 19° Festival internazionale di fotogiornalismo di Perpignan spaziano dall'Haiti di Jane Evelyn Atwood ai bambini-schiavi del Ghana di Ian Berry, dalla città-ombra di Mumbai di Jonas Bendiksen all'utopia rossa della Corea del Nord di Yannis Kontos, dalle esplorazioni degli ecosistemi polari di Paul Nicklen alla Soweto di Per-Anders Pettersson, dalla malaria di John Stanmeyer all'Eritrea tra guerre e pace di Gaël Turine. Si svolgono dall'1 al 16 settembre, con ingresso gratuito (in ogni luogo di esposizione il visitatore troverà una brochure in 4 lingue con il programma completo delle attività del festival).
Le foto esposte (documenti di archivio o di attualità) raccontano le guerre, i conflitti, i dimenticati dalla storia, la natura e l'ambiente, i popoli e le religioni, i fatti della società o i grandi flagelli della nostra epoca. Come ogni anno il World Press Photo, concorso di riferimento del fotogiornalismo mondiale, è presente a Perpignan. E poi ci sono i dibattiti, le proiezioni, i laboratori fotografici, che hanno permesso, dalla creazione del festival, di produrre quasi 450 mostre con oltre 2 milioni e mezzo di ingressi.
© Paul Nicklen for
National Geographic Magazine
© John Stanmeyer / VII for National Geographic Magazine
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In chiusura, riportiamo lo stimolante grido di allarme del direttore del festival, Jean-François Leroy, su una certa deriva verso un vuoto ritrattismo della fotografia contemporanea: «A Visa pour l'Image siamo stati sempre "anti-celebrità". Beh, spiacenti, ci sbagliavamo. È tempo di ammetterlo. Quantomeno, i fotografi che fanno ritratti di celebrità hanno talento. Quest'anno è emersa una nuova tendenza nel fotogiornalismo: quella di "vippizzare" l'informazione. I fotografi, di questi tempi, sembrano aver dimenticato come si fotografano i senzatetto, gli attivisti, i combattenti, i soldati, le vittime di stupri, di abusi sui minori, i parenti delle vittime, le comunità rurali, i pugili, le prostitute, i transessuali, gli orfani, gli emigranti, i tossicodipendenti o qualunque altra categoria sociale, professionale, culturale, religiosa o politica. E cosa fanno? Ritratti. Noi siamo stufi di questo. Siamo stufi di dover guardare queste immagini, di dover mostrare la giusta reazione, di simpatia e entusiasmo, mentre setacciamo queste improbabili gallerie che sembrano essere uscite da una vecchia macchina per fototessere. Foto in posa, o anche peggio, imitazioni di foto da passaporto del tutto insignificanti. Non c'è un pensiero in esse. Nessuna immaginazione. I fotografi si lamentano spesso della stampa. Ma quando più di 150 fotografi ci mandano gli stessi ritratti di senza tetto a Parigi, cosa sperano? È vero, i giornali chiedono sempre più ritratti, ma allineandosi con la loro linea editoriale, i fotografi finiscono per darci una visione standardizzata, sterilizzata, molto noiosa della realtà. A Perpignan perciò, ci sforzeremo di trovare una via d'uscita, cercheremo di trovare una risposta; soprattutto perché desideriamo dimostrare che esistono ancora fotografi in giro. Non solo ritrattisti».