Vi sono luoghi da cui si torna un po' storditi, in cui si crede di non essere mai stati, di averli sognati, poi ricordando pian piano quanto visto e vissuto ci si rende conto che è vero: sono stata in Mali. In Mali la sensazione di essere in un luogo senza tempo è palpabile, un luogo dove passato, presente e futuro si intrecciano con speranza, antiche tradizioni e tabù, dove tutto è color ocra, dove ovunque c'è polvere e sabbia, la sabbia portata dall'harmattan, il vento che soffia nel Sahel nel mese di febbraio.
© Gabriella Pezzuto
Moschea di fango lungo il Niger nei pressi di Mopti |
Bamako, la capitale, ha ampi viali, memoria del periodo coloniale, con rotonde e grandi statue raffiguranti animali. Si potrebbe pensare di essere in Europa se agli angoli non si trovassero i venditori di tè con le loro teiere di latta dal colore scrostato, il piccolo braciere per riscaldare e condensare la bevanda, che con maestria schiumano travasandola più volte e rapidamente dalla teiera a un piccolo biccherino. Qui si incontrano donne in abito tradizionale, che con innato equilibrismo trasportano di tutto sulla testa e il loro bambino sul dorso, e donne che guidano grosse jeep o vanno a lavorare in motorino con acconciature e abiti occidentali. I vari ministeri del governo maliano si trasferiranno a breve in nuove strutture imponenti e bellissime che ricordano esteticamente la moschea di fango di Djennè, mentre nella nuova zona residenziale sono in vendita delle villette che non sfigurerebbero in nessun angolo d'Europa.
La modernizzazione corre, eppure bancarelle del mercato dell'artigianato si mescolano con quelle della medicina tradizionale dove non mancano teste di scimmia, teste di struzzo, scorpioni, sterco d'elefante e, intorno, numerose donne circondate dai loro tanti figli chiedono l'elemosina. Il viaggiatore occidentale, testimone e osservatore, non passa inosservato e in città non si può fotografare, guai riprendere anche per sbaglio un rappresentante della polizia, una bancarella della medicina tradizionale. Qui la gente è nervosa, molto nervosa.
La nostra guida racconta di come una volta abbia trascorso la giornata in polizia per un turista con la macchina fotografica fatta a pezzi da qualcuno che credeva d'essere stato ripreso. I maliani sono gente dal portamento dignitoso, le donne sono dotate di naturale grazia. Ad eccezione della capitale dove la distinzione tra tribù non è più netta, ovunque si può distinguere un'etnia dall'altra attraverso fisionomie specifiche. I dogon sono bassi e hanno gli occhi rossi, i bambara sono altissimi, le donne fulani sono snelle, altere e splendide con i loro abiti, gioielli e tatuaggi. |
© Gabriella Pezzuto
Timbuctu, accampamento tuareg |
Qui le tribù sono ancora molto chiuse e suddivise in caste; gli uomini, sia gli animisti dogon che i musulmani, hanno molte mogli e altrettanto numerosi figli. Le famiglie allargate sono la norma ma c'è già chi, tra gli uomini della nuova generazione, ha deciso che meglio averne solo una e chi ha più di trent'anni ma ha deciso di non accettare la moglie che gli è stata promessa per accordo tra i genitori. Al nostro sguardo i colori caldi delle case costruite con il fango si alternano alle dune sabbiose del nord, alle savane alberate del sud, ai villaggi e i mercati multicolori. L'architettura maestosa ci svela una storia ricca e relativamente sconosciuta, costruzioni fatte di banco (un misto tra fango e fieno battuto ed essiccato) da ripristinare ogni anno dopo la stagione delle piogge.
© Gabriella Pezzuto
Fiume Niger, pescatori Bozo
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Il maestoso Niger si presenta a noi per la prima volta immenso e al tramonto, con i coloriaccesi di un cielo rosso fuoco e le piroghe dei pescatori bozo in controluce. Un fiume che rende vivibili territori altrimenti impossibili. Un fiume dallo strano percorso, a forma di boomerang, dove i pescatori trovano di che vivere, gli ippopotami sguazzano, le donne lavano i panni e le grandi imbarcazioni trasportano turisti, mercanzie e passeggeri con natanti stracolmi stipati ovunque a rischio d'affondare.
Vorrei tornare in Mali, andare nei luoghi che non ho potuto visitare, tornare in occasione del festival di Gao, avere molto più tempo e rimanere più a contatto con la gente, con le donne. Loro sempre in gruppo, mai sole, silenziose e talvolta quasi scostanti nei luoghi pubblici, dolcissime e sorridenti se incontrate lontane da sguardi indiscreti. Vorrei trascorrere più tempo con loro, farmi accettare per poterle fotografare mentre pestano il miglio, mentre scherzano tra loro. Se non ti danno fiducia non puoi rubare uno scatto e molte, troppe immagini sono ancora nella mia mente e non nella mia macchina fotografica.
© Gabriella Pezzuto
Falesia: case di fango villaggio Dogon Amani |
È difficile per un occidentale fare un viaggio in Mali o in un qualsiasi luogo con una cultura totalmente differente dalla nostra, spogliarsi da ogni pregiudizio e preconcetto culturale. Cercare di capire: ecco quello che si vorrebbe e dovrebbe fare quando ci si muove in posti così remoti, ma è possibile farlo? Ci si può togliere di dosso anni di vita differente da quella che si osserva? È questo che fa la differenza tra un turista e un viaggiatore. In fondo però è proprio questo porsi domande, questo viaggiare pensando che rende possibile, per chi ama fermare il momento disegnando con la luce, mostrare le differenze, soffermarsi sui dettagli, meravigliarsi continuamente come un bambino che guarda per la prima volta. Si viaggia per imparare, per conoscere non solo il paese che si visita ma anche se stessi. Cerco con le fotografie di portare a casa un po' di quanto ho visto, sentito, conosciuto, che siano odori, suoni, sguardi che non incrocerò più, ed è spesso sugli sguardi che mi soffermo perchè il mio interesse principale è osservare la gente, vedere come un popolo si sia evoluto per entrare in sintonia con l'ambiente circostante. Se ciò che inquadro non mi emoziona la foto sarà destinata a essere scartata. È la sensazione di meraviglia che riesce a regalarmi gli scatti più belli.
© Gabriella Pezzuto
Timbuctu, Tuareg |
© Gabriella Pezzuto
Vita nella Falesia: villaggio Dogon Irèli |
Chi sono
Ho 36 anni, lavoro in ambito farmaceutico e fotografo e viaggio per passione. Ho acquistato la mia prima reflex dopo la laurea, una macchina totalmente manuale con cui ho imparato le basi della fotografia, poi sono passata ad un'altra reflex analogica fino a quando sono approdata alla Nikon D70 e al digitale. Non ho un grande corredo fotografico, mi piace viaggiare leggera; ho due obiettivi, un 17-70 e un 100-300. Ogni tanto, quando credo di avere migliorato, mi premio con qualche dotazione di migliore qualità. Al di là delle mie capacità fotografiche, penso che la macchina non faccia il fotografo perchè le immagini partono dalla testa e dal cuore.