Per chi si interessa di fotografia, i reportage del National Geographic Magazine sono un esempio di eccellenza, i suoi fotografi un modello. Da poco più di dieci anni la National Geographic Society ha avviato la pubblicazione di edizioni in altre lingue della rivista. Oggi le edizioni in lingua del magazine sono più di trenta (dal thai al russo e al cinese), con una parte del giornale - circa un terzo - prodotta dalle redazioni locali in stretta collaborazione con la redazione della rivista madre a Washington che continua a esercitare un controllo di qualità su immagini e testi. In Italia il National Geographic è edito, da dieci anni, dal gruppo La Repubblica L'Espresso. In occasione della collettiva "Italian Geographic, fotografi italiani per National Geographic" - che dopo un primo appuntamento a Roma, all'interno del festival internazionale di FotoGrafia, toccherà diverse altre città italiane - Sguardi ha chiesto a Marco Pinna, curatore della mostra e redattore del National Geographic Italia, di raccontare – dall'interno – il mito.
Si è chiusa da pochi giorni la mostra "Italian Geographic, Fotografi italiani per National Geographic" nell'ambito del Festival internazionale della fotografia di Roma. Ora la mostra - una collettiva che riunisce 17 fra i fotografi che hanno lavorato in questi anni per l'edizione italiana della rivista - diventa itinerante, e toccherà diverse località italiane. A mio avviso vale la pena di vederla, e penso che rappresenti anche un'ottima occasione per fare il punto sullo stato del fotogiornalismo in Italia.
L'edizione 2007 del più prestigioso premio fotogiornalistico al mondo, il World Press Photo, ha visto premiati diversi giovani italiani, come Davide Monteleone e Massimo Berruti, il che indicherebbe che i nostri fotoreporter godono, quantomeno, di buona salute. Un'impressione che parrebbe confermata nel vedere le immagini dei fotografi italiani di National, che forniscono un bello spaccato del nostro paese nella migliore tradizione del fotoreportage "d'arte", con immagini ricercate, ironiche, drammatiche, in certi casi anche spettacolari, che - considerando l'abissale differenza nelle metodologie di lavoro - non sembrano avere molto da invidiare ai famosi scatti delle loro controparti americane.
© Giancarlo Ceraudo - Badolato (CZ):
Ahmed, profugo somalo, nel suo appartamento |
Oggi le edizioni in lingua straniera di National Geographic sono più di 30. La rivista viene pubblicata fra l'altro in thai, in russo, in polacco, in cinese, in ungherese, in turco… E ognuna di queste edizioni ha il suo tratto caratteristico, la sua personalità ben distinta. NG Italia non fa eccezione: nata nel 1998, terza in ordine cronologico dopo l'edizione giapponese e spagnola, oggi è una rivista decisamente "italiana". Pur mantenendo le caratteristiche e lo spirito della rivista madre, riusciamo a volte ad aggiungervi fino al 40 per cento di contenuti locali, e non è poco. Mantenere gli standard di una rivista del genere, che non ha uguali al mondo per metodologia, tempi di lavorazione e budget, avendo a disposizione risorse umane ed economiche di gran lunga inferiori, richiede un enorme sforzo.
© Stefano Unthertiner - Parco Nazionale del Gran Paradiso:
Una volpe si specchia in un laghetto della Valsavarenche |
Per quanto riguarda l'aspetto puramente editoriale, ce la caviamo egregiamente mettendoci un po' di mestiere, una certa dose di buon senso e diversi anni di esperienza, che ci permettono di ottenere spesso risultati superiori alle aspettative. Quando però si parla dell'aspetto fotografico, la faccenda cambia radicalmente: chiunque si interessi di fotogiornalismo (o di fotografia in generale) sa che nel loro campo i "fotografi di National Geographic" rappresentano l'eccellenza a livello mondiale. Per me, sono sempre stati una specie di mito: fin da piccolo li vedevo come uomini e donne impavidi, che si arrampicavano sulle montagne più alte, sfidavano le lave dei vulcani, nuotavano con gli squali e le balene, visitavano tribù minacciose e sconosciute negli angoli più isolati del pianeta. E scattavano foto incredibili. Oggi, dopo quasi 10 anni di lavoro in questa testata, ho avuto modo di conoscere molti di questi "miti" della fotografia di persona.
© Paolo Petrignani - Valle di Cuatro Cienégas, Messico:
Un sub in una pozza idrotermale |
Ho lavorato con Carsten Peter sulle pendici dell'Etna in eruzione, vedendo all'opera uno specialista della fotografia naturalistica estrema disposto a rischiare la vita pur di avvicinarsi il più possibile a una bocca di fuoco o a un fiume di lava e ottenere la foto che nessun'altro avrebbe scattato. Ho seguito David Alan Harvey, un grande maestro del reportage, nei suoi pellegrinaggi italiani per National Geographic, constatando quanto siano importanti il carisma, la sensibilità e la capacità tecnica nel fotografare le persone. Di tutti i fotografi NG che ho conosciuto in questi anni, ho ammirato la dedizione e la preparazione con cui affrontavano i servizi, documentandosi a fondo con tutte le fonti disponibili prima ancora di realizzare un solo scatto. Ma soprattutto, ho capito quanto sia importante per un fotografo avere alle spalle un marchio che apre qualsiasi porta e garantisce una copertura pressoché totale, sia economica che logistica. Nessuna rivista al mondo può permettersi di impiegare per un servizio fotografico le risorse che mette in campo National Geographic Magazine. Chi altri può mandare un fotografo in paese straniero per tre, quattro o anche sei mesi? O finanziare un progetto della durata di diversi anni, come nel caso di Nick Nichols, che ha attraversato il cuore del continente africano scattando foto dal 1991 all'anno scorso, realizzando 10 servizi per la rivista e coronando il progetto con un libro, o di Mike Yamashita, i cui articoli su Marco Polo gli hanno permesso di girare mezzo mondo sulle tracce dell'esploratore per anni? Chi altri può dare a un fotografo carta bianca, permettendogli di avere un entourage di assistenti, di affittare a suo piacimento un elicottero o una squadra di portatori per tutto il tempo necessario, il tutto pur di ottenere le migliori immagini possibili?
© Giuliano Matteucci - Zion Base, Nairobi, Kenya:
Un bambino del progetto Pinocchio Nero |
Prima dell'avvento del digitale, si diceva che un fotografo in missione per National realizzasse in media 20 mila scatti per ottenere le circa 20 foto necessarie per un servizio. Oggi, non oso neanche pensare quanti ne realizzino. Nichols mi ha raccontato che nella sua ultima campagna in Africa piazzava decine di trappole fotografiche in punti strategici della giungla per immortalare gli animali di passaggio, e che ognuna di questa arrivava a scattare un migliaio di foto al giorno. Tutto ciò può darci la misura di quanto sia importante la fotografia per questa rivista.
Quando un servizio fotografico arriva nella sede centrale di Washington, viene analizzato, sezionato e controllato da una squadra di fotoeditor, che poi passa il materiale scremato al reparto layout, il quale studia diverse sequenze e sottopone più bozze di lavoro alla direzione editoriale e, infine, al direttore Chris Johns (un fotografo, naturalmente), al quale spetta la decisione finale sull'apertura e sulla sequenza delle immagini. Tra preparazione, realizzazione e postproduzione, un servizio può anche richiedere anni di lavoro prima di arrivare nelle edicole. Chiaramente, per qualsiasi altra testata al mondo (e soprattutto in Italia) tutto ciò rientra nel campo della fantascienza.
© Giancluca Colla - Bronx, New York:
Stagionatura dei salami ad Arthur Avenue |
A parte poche decine di "mostri sacri" come Paolo Pellegrin, Francesco Zizola o Alex Majoli, gran parte dei fotoreporter italiani che conosco sopravvivono a stento. Sono costretti a realizzare servizi in tempi record, spesso in pochi giorni, in molti casi si devono autofinanziare, magari dormendo a casa di amici o conoscenti, viaggiando in classe economica o con i propri mezzi. E nessuna rivista è disposta a dedicare più di una settimana all'editing delle foto (sempre ammesso che questo sia previsto) e all'impaginazione dell'articolo vero e proprio. Un abisso, insomma, ci separa dai questi "semidei" del fotogiornalismo. Eppure, nel corso di questo decennio, National Geographic Italia (così come molte altre edizioni internazionali del magazine) ha sfornato servizi egregi, in alcuni casi degni di quelli della rivista madre, spesso anche con fotografi molto giovani e pressoché sconosciuti. In molti casi i servizi sono stati proposti dai fotografi stessi, il frutto di mesi o magari anni di lavoro. In altri, sono stati realizzati su commissione. Alcuni sono certamente più validi di altri, ma tutto ciò che è stato pubblicato risponde a standard decisamente elevati. Prova che, alla fin fine, quel che conta realmente nel campo della fotoreportage è l'occhio, la capacità tecnica e l'abilità di arrangiarsi e sapersi organizzare, al di là dei mezzi a disposizione. Trovandomi in missione come giornalista scrivente con i fotografi che hanno lavorato per l'edizione italiana, ho spesso ammirato la loro capacità di utilizzare ogni risorsa disponibile (compresa la propria simpatia o la propria faccia tosta) pur di realizzare delle foto all'altezza del nome della rivista. Un contributo forse piccolo se paragonato ai 120 anni di storia della National Geographic Society, ma pur sempre una gioia per gli occhi di chi ama questo genere di fotografia.
© Marisa Montibeller - S. Martino in Badia (BZ):
La stalla di Giuseppe Rives, trasformata in laboratorio |
Chi è
Curatore della mostra "Italian Geographic, fotografi italiani per National Geographic", Marco Pinna è redattore di National Geographic Italia dal 1998. Ha scritto decine di articoli per la rivista, per la quale svolge anche il ruolo di fotoeditor e ricercatore iconografico. Ha partecipato a vari concorsi fotografici in qualità di giurato, ha effettuato letture di portfolio fotografici in diverse manifestazioni nazionali e ha sempre avuto un occhio attento nei confronti dei talenti fotografici emergenti.