Roberto Mantovani

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A nord di Kathmandu

La guerra dell'Afghanistan è lontana, quasi impercettibile. Qualche notizia sui giornali di Kathmandu; sbrigativi e scarni comunicati al giornale radio della sera. Nient'altro. Il Nepal è un mondo diverso, con altri problemi.
La guerra interna dei maoisti, per esempio. Sui giornali italiani sono uscite poche brevi, più che altro dispacci d'agenzia. Ma a fine novembre, nella regione del Solu-Khumbu, c'è stata una grossa battaglia. Gruppi di guerriglieri hanno attaccato una caserma e ucciso diversi militari. L'esercito ha reagito, e in due terzi del paese è scattato lo stato d'allerta. A Kathmandu, dopo le 21.30, insegne, vetrine e negozi sparivano nel buio, persino nel quartiere di Thamel. I maoisti avevano colpito anche in città, e di notte la polizia bloccava strade e auto.

La storia del coprifuoco la scopro al ritorno da un trekking nelle valli a nord della capitale. Anche se, a dire il vero, qualche notizia l'ho avuta una sera a Tarkeghyang, un villaggio sherpa a 2700 metri di quota, sulla strada del ritorno. Una ragazza scozzese, col satellitare nello zaino, mi aveva raccontato della battaglia dei giorni precedenti. Ma lassù in montagna, tra il Langtang e l'Helambu, le notizie sono scarse. Sopra i 3500 metri, poi, circolano solo col passaparola di guide e portatori. Kathmandu sembra lontana anni luce.

A fine novembre, alle quote più alte, i pastori hanno già abbandonato karke e alpeggi, e di notte la temperatura scende in picchiata. Oltre quota 4500, la montagna è quasi deserta. Ghiaccio, chiazze di neve, pascoli bruciati dal freddo. Gli incontri sono fugaci, frettolosi. Pastori, viandanti, piccole carovane di turisti. Solo la sera ci si rintana vicino alla stufa in qualche lodge.

I momenti più belli per fotografare sono il mattino presto e il pomeriggio, intorno alle 16. La luce radente riscalda (si fa per dire) cime, valloni e ghiacciai. In quei giorni devo accontentarmi di un paio di obiettivi, perché il peso dello zaino impone delle rinunce. Ad alta quota, ogni accessorio fotografico richiede scelte e compromessi per non gravare il carico sulle proprie spalle e sulla schiena del portatore. Soprattutto in autunno, quando la temperatura rigida obbliga a portare con sé maglioni, calzettoni, guanti e la giacca di piumino.
Ma la dotazione ridotta di obiettivi e corpi macchina non è un problema: per ritrarre i paesaggi e la gente, basta spostarsi, e scegliere con calma l'inquadratura migliore. Quassù le immagini "rubate" non hanno senso. La macchina fotografica esce dal sacco solo dopo aver fatto amicizia con la gente della montagna. Mi accorgo che certi scatti, da soli, restituiscono il senso di una vita, mentre altri non hanno senso, appartengono al privato. Allora preferisco ascoltare, capire e annotare sul taccuino. La penna, da sola, in certi casi vale quanto una buona fotocamera. Fotografie e pensieri scritti serviranno ad alimentare le pagine dell'album immaginario che sta nella mia mente.

Nelle valli, a quote inferiori, i villaggi si animano di primo mattino. S'incontra gente nei campi, bambini che vanno a scuola, monaci, donne al telaio, portatori con le gerle stracariche.

A qualunque ora, c'è sempre tempo per un saluto, un commento, un sorriso. Un gruppo di ragazze miete l'orzo in un campo. Una vecchia taglia a fette le rape, prima di stenderle a seccare davanti al gompa. Due ragazze preparano il telaio per la tessitura. Un gruppo di giovani ripara un pendio a terrazzi, devastato dalla pioggia del monsone. Comincio a scattare come fossi di fronte a un evento irripetibile. Ma smetto subito, allontano l'obiettivo e mi fermo a parlare.
Si ride, si scherza, ci si scambia qualche battuta e una sigaretta. Solo allora la macchina fotografica cessa di essere un'intrusa. E lo stesso capita la sera nelle case sherpa e tamang, intorno alla stufa, o la mattina, in attesa del chapati per la colazione.

Su e giù. Terrazzi, sentieri che puntano dritti verso l'abisso, tracce che salgono dritte nel cuore della foresta, tra rododendri giganti, conifere, felci. L'ultimo tratto scende davvero in basso, nella valle dell'Indrawati.
A 800 metri di quota, in un ambiente che ricorda l'India, con risaie, bufali, banani, bambù e tanta polvere. Famiglie intere che lavorano i campi, vecchi all'aratro, bambini ovunque.

Sembra una scena biblica.
Conto le pellicole rimaste. Fra un paio d'ore sarò di nuovo tra la folla di Kathmandu, e so che sarà diverso. Rimarrò appiccicato all'obiettivo della macchina fotografica per ore. Ma qui no, mi coglie come un senso di pudore.

Nota biografica
Roberto Mantovani è nato nel 1954 a Torre Pellice, in provincia di Torino, tra le Valli Valdesi. È giornalista e fotografo, oltre che alpinista, escursionista e sciatore. Si occupa di montagna da sempre, in tutte le possibili forme e sfaccettature, a qualunque latitudine esse si trovino. Dal 1985 al 1995 ha diretto "La Rivista della Montagna", poi si è occupato per cinque anni del Centro italiano studio e documentazione alpinismo extraeuropeo (Cisdae) presso il Museo Nazionale della Montagna. Dai primi mesi del 2001 ha riassunto la direzione della "Rivista della Montagna". Ha pubblicato diversi libri sulla storia dell'alpinismo, sullo sci e sulla cultura alpina.





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