La dottrina filosofica-religiosa del buddhismo è diventata così popolare anche in Italia che termini come yoga, karma e nirvana fanno ormai parte del nostro linguaggio.
Da oltre 2500 anni il Buddha e i suoi principi influenzano la storia, le tradizioni popolari, i paesaggi e le architetture di sterminati paesi e territori asiatici, profondamente diversi tra loro per storia e geografia: la Birmania, la Thailandia, lo Sri Lanka, la Cambogia, la Cina, il Giappone, il Vietnam, il Tibet e l'intera regione himalayana.
Un mondo variegato descritto dai testi densi di Piero Verni (profondo conoscitore delle civiltà orientali e delle culture indo-himalayane) e dalle fotografie affascinanti di Andrea Pistolesi (fotografo specializzato nel reportage etno-geografico) che si alternano, integrandosi, in Le terre del Buddha, primo volume della nuova collana che il Touring Club Italiano dedica a "I luoghi della religione".
Completano l'opera: una cartina geografica con evidenziate le aree di diffusione del buddhismo in Asia, una sezione dedicata all'arte buddhista, una cronologia essenziale della storia del buddhismo, un glossario dei principali termini buddhisti, una bibliografia con le opere più significative per approfondire alcuni temi trattati nel libro.
di Duccio Canestrini - Traveller Feltrinelli
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Ormai tutti sono stati dappertutto: dall'India ai Caraibi, dal Kenya all'Egitto. Secondo l'Organizzazione mondiale del Turismo, ogni anno settecento milioni di "nomadi del benessere" lasciano casa, per svagarsi e ricaricarsi. È certo un grosso business per gli operatori e per le compagnie aeree, ma in questo settore dell'economia le differenze sono ancora abissali.
L'ottanta per cento degli spostamenti internazionali riguarda i residenti di soli venti paesi, ovviamente i più ricchi del mondo, che poco si curano dei danni ambientali e sociali arrecati dall'industria delle vacanze alle destinazioni "paradisiache" di turno. Associazioni, insegnanti, gruppi ambientalisti, mondo della solidarietà, giornalisti, turisti e tour operator si stanno adoperando per sviluppare una nuova attenzione alle modalità del "partire per le vacanze". Tanto che, dopo l'etica del lavoro, forse è giunto il tempo di parlare di un'etica del turismo.
È vero allora che (quasi) tutti sono andati (quasi) dappertutto, ma come ci sono andati? Attenti, curiosi e disponibili agli imprevisti, o da "salami" pretenziosi e deresponsabilizzati? Posto che il perfetto viaggiatore non esiste (e se esistesse sarebbe antipatico), Duccio Canestrini (antropologo e scrittore, tra i primi in Italia a occuparsi di turismo responsabile) in Andare a quel paese, Vademecum del turista responsabile riflette proprio su quel come, dando conto di un movimento – quello del turismo responsabile – che sta rapidamente crescendo, anche in Italia.
In questo libro si trova, per la prima volta in maniera organica, una messe di esempi concreti e di suggerimenti da mettere in pratica. Cambiare si può, e conviene. Soltanto una maggiore consapevolezza è in grado di ridare senso al viaggio: quell'antico piacere, quella crescita individuale ottenuti dagli incontri più diversi. Per trasformarsi, senza necessariamente attraversare gli oceani, da consumatori di vacanze a protagonisti delle proprie avventure. Una riflessione seria e appassionata su come muoversi e come vivere da protagonisti i propri viaggi senza fare danni.
13 domande a Duccio Canestrini
Andare a quel paese: come mai il libro porta questo titolo?
Andare a quel paese è un modo di dire, di solito ci si manda qualcuno per toglierselo di torno. Ma oggi che andare in terre lontane, per turismo, più che un castigo, nel sentire collettivo, è considerato un premio, il tradizionale malaugurio cambia significato. Se qualcuno ci manda a quel paese, potremmo essere tentati dal rispondere: magari! C'è di più. L'indeterminazione della meta, "quel paese", richiama sia un discorso di deterritorializzazione (tutte le destinazioni turistiche ormai competono tra loro), sia un venire meno del dove. E infatti il libro tratta del come viaggiare, non del dove andare.
Com'è strutturato il libro?
La prima parte del libro è storica e antropologica, nella seconda ci sono dei suggerimenti su come comportarsi in trasferta turistica. E' impossibile iniziare un discorso sul turismo responsabile senza prima dimostrare che gran parte del turismo non lo è affatto. Dopodiché, posto che il viaggiatore perfetto non esiste (e se esistesse sarebbe antipatico!) dò dei consigli, improntati alla ragionevolezza. Questo non vuole dire rinunciare a un pizzico di ironia, che mi è sempre stata congeniale.
Perché uscire ora con un libro sul turismo responsabile?
I nostri viaggi invernali (terrorismi permettendo) riguardano perlopiù destinazioni esotiche, proprio dove sono più evidenti i contrasti e i danni del turismo irresponsabile. Ma uno degli argomenti del turismo responsabile è anche l'opportunità di fare "mente locale": non occorre fiondarsi ai quattro angoli del mondo. Si può viaggiare in maniera intelligente, con occhi nuovi, vicino a casa.
Dopo l'11 settembre, con l'ulteriore frattura tra mondo occidentale e mondo islamico, viene meno il senso del viaggiare per incontrare culture lontane?
Al contrario, guai se ci si chiudesse proprio ora. Ma guai se si continuasse a praticare un turismo distratto, incurante delle ricadute negative, un turismo che si avvale di tattiche e di strutture che sono in gran parte ancora coloniali. Proprio con l'11 settembre 2001 si è capito bene che non è possibile fare gli struzzi, il mondo è uno solo, siamo tutti sulla stessa barca.
E' possibile parlare di etica nel turismo?
Certo che sì. Fare turismo è incontrare e rispettare l'altro, il diverso da noi. Lo ha ribadito anche il Papa nell'estate del 2001, scatenando un putiferio tra i tour operator che gestiscono i villaggi turistici. Etica in questo caso significa non fare del tempo libero un "tempo di riposo dei valori". Perché nel turismo responsabile non vale la logica del "lavoro, guadagno, pago, pretendo": la disponibilità di denaro non ci autorizza a fare allegramente o inconsciamente danni lontano da casa.
Che cos'è il turismo responsabile?
E' un modo diverso di fare turismo, diverso da quello vissuto passivamente da chi si lascia "impacchettare" dalle agenzie di viaggi. Il viaggio è un bene spirituale, non si consuma come un qualsiasi prodotto. Il turismo responsabile è quindi praticato da persone attente, sensibili, curiose. Che del resto sono tali anche quando escono a comprare il giornale. Credo che la responsabilità, nel turismo come nel nostro sistema giuridico, sia sempre personale.
Che cos'è il turismo sostenibile?
Sostenibile, nel gergo internazionale e in particolare nel lessico delle Nazioni Unite, è il turismo che non pregiudica la qualità dell'ambiente, che rispetta le persone e le culture locali e che contribuisce allo sviluppo armonico (non alla crescita incontrollata) delle destinazioni. Ma attenzione: non esistono da una parte un turismo verde, culturale e "buono" e dall'altra un turismo di massa "cattivo". E' sostenibile solo quel turismo che tiene conto del fatto che le risorse su cui poggia sono limitate.
Lei è un antropologo: cosa c'entra l'antropologia con il turismo?
Nella storia dell'umanità non si è mai viaggiato tanto come ai nostri giorni: la mobilità delle persone è il fenomeno antropologico più rilevante della contemporaneità. Ebbene, se l'antropologia si occupa di relazioni tra diversi sistemi di valori culturali, in campo turistico ha grande incisività di analisi: ogni viaggio è, sì, un incontro tra persone ma anche tra la cultura visitante e la cultura della comunità ospitante.
Quando e da dove nasce il suo interesse per l'antropologia del turismo?
Negli anni Ottanta, quando facevo l'inviato del mensile "Airone", per il quale curavo l'etnologia. Un giorno a Canaima, in Venezuela, stavo conversando con un indio quando all'improvviso fummo raggiunti da un gruppo di turisti. Il ragazzo corse in capanna, si sfilò i jeans e uscì con il solo perizoma. I turisti lo fotografarono e se ne andarono. Lui si rivestì, tranquillo, e mi chiese: "Cosa stavamo dicendo?". Capii subito che la tribù da studiare era quella dei turisti e dei loro curiosi rituali (come quello di fotografare "l'esotico").
Cosa c'è di nuovo in questo tuo ultimo libro riguardo allo studio del fenomeno e nel trattare la materia?
Andare a quel paese è la sistematizzazione – con una buona messe di esempi concreti - di molte idee che ho maturato viaggiando, studiando e insegnando l'antropologia della contemporaneità. Da qualche anno, inoltre, seguo da vicino il lavoro della Associazione italiana turismo responsabile.
Ha rivisto alcune posizioni un po' più dure del passato. scegliendo un approccio più "educativo"?
Quello che scrivevo anni fa, per esempio nel Turistario (Baldini&Castoldi), sembrava più duro, perché i tempi erano diversi. All'epoca, criticare certi comportamenti coatti o gli impatti dell'industria turistica faceva ancora scandalo. Si poteva discutere soltanto di cifre, statistiche, economia. L'approccio sociologico veniva temuto come una minaccia per il business. Oggi le cose sono molto cambiate: gli stessi tour operator cercano antropologi e sociologi come consulenti. Personalmente, non sono mai stato un antiturista. Mi ha sempre interessato, invece, notare come gli stessi turisti lo siano, poiché hanno interiorizzato l'immagine negativa della figura del turista elaborata, nell'Ottocento, dai viaggiatori aristocratici.
La regola d'oro del turista responsabile?
No alla fretta. E' preferibile vedere meno e meglio, piuttosto che "fare" molti paesi senza capirci nulla.
Ma il politically correct non ammazza l'avventura?
Non sono per un touristically correct che ammazzi le emozioni, questo è sicuro. Viceversa, credo che proprio una maggiore consapevolezza, quella di chi viaggia a occhi aperti, possa trasformare anche il viaggio più banale in una vera avventura.
Per saperne di più: www.homoturisticus.com
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