a cura di Giulia Boero
Attraverso una retrospettiva composta da 40 immagini - tra cui una serie di scatti pubblicati da testate come The New York Times, Newsweek, Time, The New Yorker, Stern, Le Figaro, Paris Match, The Times of London - Franco Pagetti ripercorre la sua carriera di fotogiornalista, dai primi lavori nell'Irlanda del Nord di fine anni '80 al suo incarico più importante come corrispondente principale per Time Magazine in Iraq (dal 2003 al 2008) fino ai reportage contemporanei, come quelli dalla Siria. Un'antologica - I confini ci attraversano al Cmc di Milano fino al 21 dicembre 2017 - che nonostante ripercorra storie di conflitti e confini degli ultimi decenni, conserva tutta la sua attualità in termini di racconto di separazioni e dispute di territorio, identità e sovranità.
La mostra che si apre a ottobre al Cmc di Milano è una retrospettiva. Cosa provi davanti alla sintesi che scorre davanti ai tuoi occhi? Riconosci un'evoluzione nella tua fotografia?
Più che una retrospettiva il mio lavoro parla essenzialmente di confini. In un mondo dove oggi si parla di Europa unita, si deve fare i conti con la presenza di muri; si pensava che con la caduta del muro di Berlino la questione fosse risolta, ma i muri che separano le persone aumentano sempre di più. Perciò questo lavoro si focalizza sulle separazioni. Tutti i confini ci attraversano parte da uno dei primi reportage fatti nella mia carriera, nell'88 a Belfast, in un clima di conflitto tra cattolici e protestanti; e poi da lì Israele, Kashmir, fino ad arrivare ai giorni nostri con la Siria, dove la parola divisione tra una zona e l'altra delle aree di conflitto di Aleppo non era un muro ma delle tende, assemblate dalle donne, madri, mogli, figlie di chi andava a combattere e quindi a rischiare la vita, in modo da permettere loro di attraversare il campo senza essere presi di mira dai cecchini. La separazione in questo caso era una cosa fragilissima, perché una tenda non può molto contro i proiettili. In quelle fotografie non sono state ritratte persone per scelta.
La tua vita da fotografo è divisa in due. Semplificando: prima fotografo di moda e pubblicità, poi fotografo di guerra. Perché ad un certo punto, con i primi reportage dal Cile e dall'Irlanda del Nord di fine anni '80 inizi '90, ti sei interessato di fotogiornalismo? Perché hai deciso di dedicarti agli scenari di crisi e conflitti?
Ho cominciato con la fotografia di moda e pubblicità perché mi sembrava più facile. Ero più giovane, inesperto e immaturo. Poco per volta ho capito di voler essere più coinvolto in quello che facevo, una maturazione in senso umano e non professionale. Ritengo che non ci sia molta differenza tra fare fotografia di moda o di reportage. Anche la moda è un reportage, un reportage sociale: i vestiti cambiano ogni anno, le donne nel 1940 si vestivano in modo diverso da quanto facciano oggi. Dipende poi dalla personalità del fotografo nel presentare l'aspetto sociale e non soltanto quello effimero e glamour della moda. La mia scelta di cambiare è stata dettata essenzialmente dalla mia curiosità di conoscere cosa succedeva nel mondo ed esserne coinvolto, sapere perché certe cose accadevano o meno. Essere essenzialmente dentro l'azione, aspetto che mi ha aiutato a maturare non solo da un punto di vista professionale.
Sei il protagonista di un film-documentario chiamato "Shooting War", diretto da Aeyliya Husain. Sei conosciuto principalmente per essere un "reporter di guerra". Ti riconosci nella definizione?
No, in realtà io non mi definisco un fotografo di guerra. Mi definisco un fotografo. Sono appena tornato da Gressoney, per fotografare la valle, ancora di tradizione Walser. E lì non c'era la guerra, anzi c'era pace, rispetto per la natura, persone che portano ancora gli animali a pascolare. Una mattina ho fotografato un pastore che aveva passato tutta l'estate sull'alpeggio a pascolare. Mi è sembrata una cosa fantastica. Il punto ad ogni modo non era quello di fotografare il paesaggio, la natura e la bellezza del posto fine a se stessa, per far vedere quanto fosse meraviglioso. Ho fotografato la gente, io mi considero un fotografo di genti. La dicitura “fotografo di guerra” non è una definizione che amo molto, troppo legata ad un immaginario hollywoodiano. Al contrario, entrare nella società, parlare con la gente. Tutto dipendeva poi anche dal progetto: in Iraq ci sono stato sei anni, in Siria invece solamente un mese. Avevo bisogno di respirare l'aria. Per quanto riguarda il documentario, “Shooting War”, all'inizio ho accettato perché mi era stato detto che avrei dovuto parlare del mio lavoro e poi perché la regista, canadese, è in realtà di origine irachena e quindi mi sembrava interessante lavorare con qualcuno che conoscesse ciò che io avevo documentato fotograficamente. Ma la mia fotografia non si esaurisce solamente negli scatti di guerra.
Una curiosità: come hai iniziato? Hai mai avuto una qualche formazione da fotografo?
No, ho cominciato seguendo una fotografa di architettura, Carla De Benedetti, che all'epoca cercava un assistente. Non mi aveva assunto perché conoscessi la tecnica fotografica, ma perché ero burbero e le servivo per tenere lontano le persone mentre lei scattava. Si sentiva protetta. Allora avevo una trentina d'anni; abbiamo instaurato un rapporto molto intenso, era molto severa, spesso mi faceva domande di tecnica, mi metteva alla prova. Mi ha insegnato a fotografare, mi ha introdotto in un mestiere al quale probabilmente senza di lei non mi sarei mai affacciato. Non era contemplato all'epoca tra i lavori che potessi fare. In realtà per due anni non ho nemmeno toccato la macchina fotografica, portavo le borse, sbraitavo contro la gente che poteva importunarla. È stata una cosa puramente accidentale; infatti io mi ritengo una persona molto fortunata.
Parliamo di relazione con il soggetto. Come ti poni nei confronti dell'ambiente di cui entri a far parte? Che relazione cerchi di stabilire con i soggetti? Da osservatore esterno che tenta di essere inavvertito o a volte cerchi un'interazione?
Credo innanzitutto che l'elemento che non debba mai mancare e dal quale non si possa prescindere sia il rispetto. La cosa che cerco sempre di far capire quando arrivo in un posto è che io sono un ospite, non un invasore pronto ad occupare gli spazi degli altri. Perciò cerco di rispettare le persone e le ideologie della loro società. Quando ero in Iraq non mi sentivo iracheno, ma un ospite della gente che viveva là; vado a Gressoney, sono un ospite di chi vive in quel luogo. Preferisco quindi muovermi con un passo felpato, senza essere aggressivo, e cercare di conquistarmi la fiducia del soggetto che voglio ritrarre. Le persone devono avere fiducia in te, devi dar loro la sensazione che quello che dici sia vero. Quando ero in giro con i militari americani in Iraq ho dovuto conquistarmi la loro fiducia, pur avendo opinioni politiche diametralmente opposte, e non è stato facile. Ma proprio grazie a questo, quando ci siamo trovati in situazioni difficili, non mi hanno mai lasciato da solo; si mettevano davanti a me per proteggermi, mi portavano l'acqua, il cibo. Alla fine anche il più crudele dei Marines americani è un essere umano e la mia fotografia ritrae l'umanità della gente.
Cosa deve esserci in una buona fotografia di reportage? Quali elementi privilegi nel comporre un'immagine?
Per prima cosa la fotografia, di qualunque fotografia si parli, deve suscitare un'emozione nella persona che la osserva. Altrimenti puoi scattare la foto migliore del mondo, ma non hai ottenuto il risultato. Per me l'emozione è alla base di tutto, perché con essa le persone sono portate a riflettere. Nel caso della mostra I confini ci attraversano vorrei che chi guarda le fotografie si emozioni e pensi che i confini sono inutili, perché i sentimenti non si possono imprigionare. Sarebbe bello se potessimo lasciare andare i confini liberi nell'aria. Accanto a questo poi, come è ovvio, uso la tecnica fotografica, luci e inquadrature, ma è secondario rispetto all'emozione.
Dal 2003 al 2008 sei stato corrispondente dall'Iraq per Time Magazine restando in quel contesto più di qualsiasi altro cronista. A Baghdad e in Iraq da una parte eri relativamente libero di muoverti, dall'altra eri embedded? La testata per la quale lavoravi ti dava delle linee guida o sceglievi e seguivi le storie che ti si presentavano e inseguivi?
C'è un'enorme differenza tra il modo di fare giornalismo nel mondo anglosassone e in Italia. Nel mondo anglosassone il fotografo non è ritenuto un fotografo ma un fotogiornalista. Quando ero in Iraq, ogni settimana faceva una conference call con lo staff di New York; il capo dipartimento decideva mano a mano quale fosse la storia che dovevo seguire. Avevo una photo editor interamente dedicata a me, con la quale parlavo per spiegare come avrei voluto indirizzare la storia, dove sarei voluto andare. Ero assolutamente libero di interpretare la storia come volevo. In Italia invece non esiste la figura del photo editor, mentre all'estero molte volte ci sono delle squadre intere dedicate. Lavoravo a Baghdad e il Time ad un certo punto mi ha proposto di seguire la storia della fazione sciita e di quella sunnita. Il problema si presentò quando capii che non mi sarebbe stato possibile seguirli nelle moschee, era troppo pericoloso. Perciò mi sono dovuto inventare un modo per fotografare queste persone, differenti unicamente nel modo di pregare. Ho deciso di fare dei ritratti che, grazie a dei meccanismi tecnici, venissero rappresentati sdoppiati, in modo da dimostrare che in realtà tra di loro non esistessero differenze. Ma ho dovuto convincere i militari americani a venire con me per fare questi ritratti; mi davano trenta minuti per farlo, durante i quali entravo nelle case da solo, tranquillizzavo le persone parlando in arabo, facevo la foto e spiegavo loro che la foto sarebbe stata poi pubblicata. Alcuni a quel punto hanno rifiutato, non se la sono sentita di mostrare il proprio volto. Nel frattempo c'erano i cecchini americani fuori, pronti a sparare appena passato il tempo a disposizione.
Come funzionava concretamente/quotidianamente il tuo lavoro? E oggi? I tuoi lavori sono per lo più degli assegnati, oppure vai sul campo e poi vedi? Quali storie cerchi, la vita della gente comune, ancora la linea del fronte?
Ora che ho una certa età anche io, andare a fotografare scenari di conflitto mi fa riflettere. Non sono un eroe. Partire per certi posti e mettersi al servizio di quelle storie ti espone indubbiamente ad un rischio ben preciso, la gente lì ti spara addosso, ci sono le bombe. Ma, oltre ad essere passato il tempo, è cambiato anche il mercato. Il reportage è sempre meno seguito perché viviamo in un momento di grande instabilità sociale ed economica. Oggi, per tornare in un Paese in cui c'è la guerra, come nel caso della Siria qualche tempo fa, devo esserne ben sicuro, anche di non mettere a repentaglio la vita di nessun altro. Ci si augura che il fotografo non fotografi per se stesso, per il proprio ego, ma perché ha delle cose da dire. Se perciò ci sono delle storie che mi attraggono, in cui penso di poter dire la mia ci vado. Altrimenti no. Non è la guerra il motore trainante.
Che rapporto hai con la guerra? Con la quotidiana violenza, paura, incertezza di chi combatte e della popolazione civile?
Le esperienze fatte in quei Paesi me le porto dentro, fanno parte di me. Avevo paura quando ero là, non ne ero indenne. Anzi, la paura a volte ti fa ragionare e prendere delle decisioni più sagge. Prima di partire per un reportage di quel tipo mi guardavo attorno, guardavo le mie cose, i miei libri. Cercavo di annusare casa mia per portarmi appresso i suoi odori come ricordo.
Hai scattato per D&G per la campagna autunno/inverno 2016/2017 nel quartiere spagnolo di Napoli che, come hai detto, è un teatro a scena aperta. È un ritorno parziale a moda e pubblicità coniugato al tuo stile da reporter, interessato alla narrazione della gente comune in teatri di guerra come in teatri di strada?
Sì. Per quel lavoro è stato scelto appositamente un fotografo che si occupasse di reportage. Ci sono fotografi di moda sicuramente più bravi di me, ma l'intenzione era quella di ritrarre Napoli. La prima cosa che mi è stata detta fu che i vestiti interessavano fino ad un certo punto, la cosa più importante era lo spirito di Napoli. Ho impostato l'intero lavoro come se dovessi fare un reportage, per cui sono andato nella città, ho girato per le strade, ho parlato con la gente e le persone che ci abitano. Non volevo ritrarre la Napoli chic ma la Napoli vera. Per rispetto chiedevo sempre di poter fotografare se la cosa non creava problemi. E i cittadini mi hanno accolto a braccia aperte; viene quasi da arrabbiarsi quando Napoli viene descritta solo per fatti criminali e non per l'umanità che c'è nella città. Ero tranquillo, la gente mi offriva caffè e pizza. Le signore con cui ho parlato chiedendo di poter accedere alla loro casa, in questo caso la strada, mi hanno fatto sentire il benvenuto. La mattina delle riprese abbiamo iniziato a camminare per le strade con le modelle. Le persone presenti erano casuali, sono state ritratte perché passavano di lì in quel momento. Il contrasto era che a Spaccanapoli e nel quartiere spagnolo le persone vedevano modelle con abiti firmati e si fermavano per parlare con loro, nonostante loro fossero americani, russi, cinesi. Ma evidentemente si capivano. Non c'era nulla di organizzato; c'è un prete, ci sono delle suore, un ambulante che cerca di vendere i propri prodotti alla modella. La gente non era consapevole di cosa stesse accadendo, tutto è stato naturale. Un reportage sulla moda italiana in un quartiere ordinario di Napoli.
La tua mostra si intitola "Tutti i confini ci attraversano". Ci puoi spiegare quest'espressione? Da cosa deriva?
Per me il titolo era semplicemente confini o divisioni. Le divisioni che ci sono nel mondo non sono sempre e solo fisiche ma anche teoriche, ideologiche. La mostra è attuale proprio perché parla di divisioni, create fondamentalmente dall'uomo. Non ci sono guerre o confini se non quelli creati dall'uomo; essi ci attraversano. Le vere ragioni di questi conflitti non possono essere racchiusi sono nella religione. Esse fanno capo all'economia, alla finanza e al potere; tutte questioni che appartengono agli uomini. Non c'è nessun libro sacro, dal Corano alla Bibbia, che parli di uccidere o privare della libertà chi non la pensa come te. Siamo noi a manipolare tutto questo; noi siamo alla fine il prodotto di una manipolazione che è più grande di noi.
Cosa pensi di come i media trattino oggi questioni come guerre, barriere, rotte migratorie? Ritieni ci siano aspetti e soggetti da trattare in maniera più approfondita?
Sicuramente sì, queste questioni andrebbero approfondite molto di più rispetto ad articoli di gossip. Purtroppo viviamo in una società che brucia tutto subito. Della Siria se ne è parlato per un po' di tempo, ora non se ne parla più. Sembra che non esista più sulla cartina geografica. In Afghanistan c'è una guerra in corso e nessuno parla più dell'Afghanistan. Certe volte il giornalismo al posto che fare il proprio lavoro sembra che faccia sceneggiature cinematografiche per Hollywood; ci vorrebbe più preparazione e serietà in quello che si scrive. Nel '91 per esempio Aung San Suu Kyi ha ricevuto il Nobel per la pace e ora passa per essere una sterminatrice di popoli, perché all'epoca alla stampa mondiale faceva comodo ritrarla in un certo modo.
Sei passato dalla fotografia di architettura alla fotografia di moda e pubblicità, fino ad approdare alla fotografia di guerra e di reportage. Oggi cosa ti appassiona di più? Qual è il progetto a cui stai lavorando?
Mi piace raccontare l'uomo, come siamo, come reagiamo, vederlo e cercare di capirlo. E spero che chi guarda le foto abbia la stessa intenzione: cercare di capire l'essere umano in modo da migliorare noi stessi e la terra in cui viviamo.
Nato a Varese nel 1950, Franco Pagetti comincia ad occuparsi di fotografia negli anni '80, prima come assistente di Carla De Benedetti, nota fotografa di architettura, poi negli studi di importanti fotografi di moda a New York e Parigi. Grazie alle collaborazioni con le più importanti testate italiane dell'epoca come Vogue, Elle, Marie Claire o Amica, arrivano le prime campagne pubblicitarie e il successo come fotografo di moda. Il reportage sulle donne torturate dal regime cileno per Marie Claire nel 1988 e quello sulla crisi in Irlanda del Nord per Il Venerdì di Repubblica nel 1991lo portano ad alternare moda e reportage, fino al 1997, quando decide di dedicarsiprincipalmente al fotogiornalismo. Il suo lavoro lo ha visto così testimone dei conflitti internazionali più drammatici. Per incarico del World Food Program nel 1997 è nel sud del Sudan, documenta poi l'attacco di Al-Qaeda all'ambasciata americana di Nairobi del 1998 fino ad approdare in Afghanistan per incarico del Comité International de la Croix Rouge di Ginevra. Negli ultimi venti anni ha lavorato nelle zone di crisi in Africa e in Asia: Kashmir, Kosovo, Timor Est, Palestina e Israele, Sierra Leone, Libano, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Colombia, Egitto, Libia e Siria. Ma per la sua vita professionale è stata particolarmente significativa la lunga permanenza in Iraq dal gennaio 2003, quindi tre mesi prima dell'inizio ufficiale della guerra, al 2008. Riconosciuto come uno dei reporter più importanti della guerra in Iraq, in esclusiva per TIME ha documentato con continuità gli orrori della guerra, il breve accenno di speranza dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, l'aumento di gruppi terroristici e insurrezionalisti e l'inesorabile discesa verso una sanguinosa guerra civile. L'Iraq di Pagetti è stato recentemente raccontato in Shooting War, documentario realizzato da Aeyliya Husain, regista canadese di origini irachene, e presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival 2017. Oltre che con TIME, Franco Pagetti lavora con alcune fra le più importanti testate giornalistiche internazionali quali Newsweek, The New York Times, The New Yorker, The Wall Street Journal, Stern, Paris Match, Le Figaro e The Times. Tra le esposizioni personali più recenti si ricordano "Veiled Aleppo" al Worcester Art Museum (Massachusetts, Stati Uniti) nel 2016 e alla Galerie Vallois di Parigi nel 2013, "Routine is fantastic. Donne" alla Fondazione Stelline di Milano nel 2013, "Flashback, Iraq" alla VII Photo Agency Gallery di New York nel 2013, "Tan Vecinos y Tan Lejanos" alla IX Bienal Internacional de Fotografía - Fotonoviembre a Tenerife nel 2007. Le sue fotografie sono presenti in collezioni pubbliche e private.
viiphoto.com/author/franco-pagetti/