© Don Mc Cullin |
Don McCullin è considerato uno dei più grandi
fotografi di guerra del nostro tempo, l'erede di Robert
Capa. Alcune sue immagini, quelle dal Vietnam
in particolare (come la foto di un militare americano immobile
e sotto shock), sono diventate rappresentative della Storia.
La sua carriera ha attraversato quasi per intero l'ultima
parte del Novecento, un secolo di spietati conflitti
spesso fotografati da Mc Cullin. Nato a Londra nel 1935,
Don Mc Cullin cresce a Finsburry Park, un quartiere a nord
della capitale britannica. Nel 1959 è all'Observer
come responsabile del servizio fotografico e nel 1961 parte
per Berlino a documentare la costruzione del Muro. Nel 1964
fotografa la guerra civile a Cipro e compie il suo primo
viaggio in Vietnam. È del 1965 il primo premio della
Fondazione World Press di Amsterdam per i suoi reportage
sugli avvenimenti ciprioti. Via via copre gli eventi in
Nigeria (1968), Cambogia (1970), Pakistan (1971), Uganda
(1972), in Medio Oriente per la guerra del Kippur (1973),
a Phnom Penh nel 1975. Segue negli anni successivi tutti
i maggiori conflitti fino a dire basta
ai fronti di guerra e a consacrarsi
a nature morte e paesaggi. Sguardi
lo ha incontrato in occasione della prossima uscita del
libro a lui dedicato edito
da Contrasto (in libreria a settembre, 296 pagine, circa
200 fotografie in bianco e nero, € 30), un omaggio
alle sue immagini che raccontano le guerre a Cipro, in Biafra,
Vietnam, Cambogia e a Beirut, le rivolte nel Derry, un nord
dell'Inghilterra distrutto, la fame e le malattie nel Bangladesh.
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© Don Mc Cullin |
Perché a un certo punto della
sua vita ha deciso di smettere di fotografare la guerra
e di dedicarsi ai paesaggi?
Innanzi tutto perché la tragedia, la miseria, la
sofferenza che vedevo mi ha consumato.
Poi perché sono stato licenziato
dal Sunday Times, il giornale per il quale lavoravo, dal
nuovo direttore un uomo di Murdoch. Diceva basta con queste
immagini di guerre, rivoluzioni, bambini morenti africani.
Io mi sono arrabbiato moltissimo e mi hanno elegantemente
invitato a dare le dimissioni. Mi sono trovato senza lavoro,
dopo 18 anni di contratto col Sunday Times. Ho pensato:
cosa faccio adesso? Quello
che non avevo capito era che mi si era presentata un'opportunità
per esplorare me stesso, per scoprirmi.
A 50 anni…
51. Ero in crisi, mi ero separato dalla mia prima moglie
che poi è morta. La donna con cui ero andato a vivere,
e per la quale avevo lasciato mia moglie, mi aveva sbattuto
fuori casa in malo modo. Era il momento della crisi
di mezza età. Mi ha fatto molto bene, mi son trovato
a chiedermi dove volevo andare. E poi son cominciate ad
arrivare delle offerte, mi
hanno offerto di lavorare nella pubblicità. Mi offrivano
delle cifre assolutamente incredibili per un solo giorno
di lavoro. Mi è stato offerto di lavorare al ministero
della difesa mi sono rifiutato di farlo, mi sono rifiutato
di fare la pubblicità alle sigarette, anche se era
molto ben pagato. Avevo questa nuova
libertà, coi soldi. Ho cominciato a fare foto
di nature morte, copiavo un po' Caravaggio, la frutta, la
vita. E poi i paesaggi.
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Dove?
Nella mia casa nel Somerset. Mi sono sempre piaciuti moltissimo
i paesaggi, ma finalmente cominciavo
a capirli. Uscendo dal mio giardino nella mia casa del Somerset
basta oltrepassare un muretto per trovarsi fuori nei prati.
La terra è ondulata e di una bellezza straordinaria.
Ma non era la bellezza che cercavo. Volevo ricreare questi
paesaggi d'inverno come i quadri di Bruegel ma senza le
persone.
Non più persone?
No, quando vedo un quadro di Bruegel il paesaggio è
pieno di persone che fanno delle cose. Io ritraggo i paesaggi
solo d'inverno. Mi hanno detto due cose: mi hanno chiesto
se le mie nature morte fossero degli altari perché
qualche volta queste nature morte si sviluppano in altezza
e dentro vi ho messo dei piccoli bronzi orientali come il
Dio delle Scimmie. Per me questi paesaggi rappresentano
proprio il respiro della terra.
L'uomo non porta rispetto verso la terra, abusa della terra
eppure la terra perdona. Mi hanno anche chiesto: ma i tuoi
paesaggi sono la guerra? Riguardano la guerra? Perché
sono molto tristi. E io imparo sempre qualcosa dalle domande
che le persone mi pongono.
Cosa ha risposto?
Non ho risposto, ho lasciato la libertà alle persone
che mi ponevano queste domande di vedere il mio lavoro dal
loro punto di vista. Non ho
nulla da nascondere. Cerco nuove forme di espressione, nuove
forme di libertà.
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È tornato indietro rispetto
alla decisione di non fare più foto di guerra?
È un fatto enorme di fare foto di guerra. Sono andato
in Iraq qualche tempo fa, ma
è stata un'esperienza strana in un certo senso, non
ho visto la guerra, non ho visto un morto. La mia coscienza
non è annerita da ulteriori pesi e immagini di morte.
Molti giornali inglesi mi hanno detto: vai, se porti qualcosa
possiamo avere le tue foto quando torni? Ero nel nord dove
doveva esserci la guerra. Tutti
i migliori corrispondenti del mondo erano lì. Poi
la guerra non c'è stata perché i turchi non
hanno fatto entrare i 70 mila americani pronti a farlo.
È stata tutta una buffonata.
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Qual è il lavoro che sta sviluppando
in questo periodo?
Un libro sull'Africa, un lavoro etnografico per dimostrare
che ancora oggi in fondo viviamo in un mondo assolutamente
affascinante. Su alcune tribù
dell'Etiopia nel sud. Ho un atteggiamento molto serio verso
questo lavoro, prendo le persone che fotografo, anche se
sono nude o quant'altro, e cerco di dar loro una grande
dignità. E soprattutto
non voglio rubargli la loro dignità, solo perché
non sono vestiti. La cosa che mi affascina più è
che queste persone non vivono nel XX secolo, la cosiddetta
civilizzazione non le ha raggiunte, sono molto orgogliose,
molto povere, hanno valori strani, ma il pericolo è
che cominciano purtroppo ad acquistare dei Kalaschnikov
perché passano la vita a rubarsi l'un l'altro il
bestiame. Vedi questi uomini molto dignitosi, nudi o mezzi
nudi, che imbracciano Kalaschnikov e li comprano vendendo
vacche. Un Kalaschnikov costa 30 vacche.
John Le Carré ha scritto di
lei che "è arrivato sui campi di battaglia con
ferite aperte e ha amaramente rifiutato di lasciarle cicatrizzare".
Lo ha scritto in un'introduzione a un mio libro. Mi ricordo
di essere partito dai campi di battaglia con ferite aperte
che non si sono mai rimarginate. Ora sono nella posizione
contraria. Ecco perché
ora faccio paesaggio.
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Allora le ferite si sono un po' cicatrizzate?
Sono molto cinico, ma sto invecchiando, ho quasi 68 anni.
La mia età mi porta ad ammorbidire
alcuni angoli. Il mio atteggiamento è più
morbido, perché riconosci che stai raggiungendo i
confini della tua vita e bisogna fare i conti con le proprie
emozioni e con il tempo che rimane. È un po' deprimente,
quando si arriva sul bordo sul confine, quando andavo in
guerra guardavo sempre oltre questo confine.
Il tempo era avanti…
Ero giovane, avevo gambe per correre veloce, e quando sei
giovane pensi che magari sacrificare la tua vita per fare
queste fotografie era anche una causa
nobile, un grande sacrificio da offrire sull'altare.
Ma ora ho una vita nuova, una nuova moglie, un bambino piccolo,
molto piccolo (6 mesi), quindi devo rifare le valigie e
anche il mio modo di pensare va riorganizzato.
È vero che ha detto: "a
cosa serve farsi uccidere se la foto non è bene esposta?"
Non esattamente. Ho detto: perché riprendere una
foto se la luce non è
giusta? Bisogna essere sempre professionali. Controllare,
ricontrollare e controllare ancora.
E quanto conta la tecnica?
Non è una questione di tecnica, è una questione
di anticipare le mosse, sapere
quel che sarà la prossima cosa che succederà.
Qualche volta pensi che qualcosa stia per accadere. Stai
lì che aspetti come un falco nel cielo. Un attimo
in cui si prendono decisioni, un millesimo di secondo. Qualche
volta invece non succede quello che ci si aspettava. La
prima regola nel mondo della fotografia è che il
soggetto non è tuo.
Non puoi dire è mio, lo prendi se ci riesci, lo fermi
ma non hai il diritto divino di pensare che ti appartiene.
Stai comunque rubando un momento
che appartiene a un altro. Gli arabi pensano che gli rubiamo
l'anima quando li fotografiamo, e questo è un gran
problema.
Perciò la fotografia è
un furto?
Una forma. Il problema è
che se tu vedi una cosa e vuoi essere educato e dici "scusi
posso scattare una foto", quella cosa è comunque
cambiata, non è più la stessa o non c'è
più per niente. Quindi si ruba. Io sono sempre vicino,
non fotografo da molto lontano. La fotografia non ha nulla
a che vedere con gli obiettivi, l'attrezzatura.
Non importa cos'hai nelle mani. Potete regalare a qualcuno
la macchina fotografica più costosa che ci sia sulla
faccia della terra ma non vuol dire che farà buone
foto se non ha cuore.
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