1840-1887: Prima della (e verso la) fotografia di massa

A cura di: Marco Rovere

Per quanto arte decisamente più democratica della pittura, la “prima” fotografia era decisamente non per tutti: paesaggi, ritratti della borghesia, i primi reportage di guerra (intesi però come fotografie “posate” e a volte più di propaganda che di cronaca). Nulla di vicino alla “massa”.
Tecn(olog)icamente, in questi quasi 10 lustri, vengono compiuti diversi importanti passi, verso la massificazione (inconsapevole) della fotografia e, soprattutto, vengono poste le basi dell’industria fotografica moderna.

Nel 1840 il matematico ungherese Josef Petzval realizza il primo obiettivo calcolato matematicamente: quattro lenti che garantivano una elevata luminosità (f/3.7) ed il conseguente abbattimento dei tempi di esposizione.
La Voigtländer, azienda nata a Vienna nel 1756 come produttrice di strumenti ottici, immette sul mercato una macchina fotografica su cui è montato l’obiettivo di Petzval e in grado di fornire lastre dagherrotipiche circolari.
Tra il 1840 e il 1850 si sviluppano gli studi per la trasmissione delle immagini via telegrafo, grazie all’inventore scozzese Alexander Bain, inventore del telegrafo (è l’alba delle odiate amate email con immagine in allegato), vengono aperti i primi studi fotografici (quello di Richard Beard a Londra è il primo in Europa), si concretizzano i primi progetti fotografici (il fotografo scozzese David Octavius Hill, in collaborazione con il suo collega Robert Adamson crea, realizzando 457 ritratti, il quadro ritraente la prima assemblea generale della Chiesa Libera di Scozia; Talbot pubblica la prima parte del suo libro illustrato “The Pencil of Nature” – la matita della natura - il primo libro corredato da fotografie/calotipi), si sviluppano le prime applicazioni fotografiche verticali (fotografia stereoscopica, grazie a David Brewster; dagherrotipi applicati alla microfotografia; astrofotografia, grazie a John William Draper che realizza la prima foto alla luna), nascono le prime industrie fotografiche (Zeiss, trasferimento della Voigtländer a Braunschweig, in Germania) e nasce il primo giornale per fotografi, il “The Daguerrian Journal”.

Ma, soprattutto, è in questo decennio che vengono sensibilmente migliorati i materiali sensibili alla luce. Nel 1847 il nipote di Niépce, Abel Niépce de Saint-Victor, produce i primi negativi su vetro con un’emulsione all’albumina (bianco d’uovo) e alogenuro d’argento: tempo di esposizione 10 minuti; nel 1851, Frederick Scott Archer propone la tecnica del collodio umido e l’ambrotipo, essenzialmente un negativo su vetro, che spiana la strada alla stampa di fotografie su carta in una qualità superiore rispetto a quella ottenuta dalla calotipia. In America, quasi contemporaneamente, si diffuse ben presto una variante del processo, chiamata ferrotipo, ideata dal professor Hamilton Smith, finalizzata alla realizzazione di immagini su lastre - anziché vetro - di metallo, tipicamente ferro, latta o alluminio (da cui il nome inglese tintype).
 

A sinistra: Carte de Visite di Napoleone III, André Disdéri, 1859 (nello spazio
bianco sotto l’immagine si potevano comporre note, dediche, ecc.).
Fonte: Photobibliothek, Switzerland attraverso Wikipedia.
A destra: Il principe Lobkowitz nel 1858, André Disdéri, The Metropolitan Museum of Art, New York.
 

Anche le applicazioni fotografiche continuano a evolversi e ampliarsi: nel 1854 il parigino di origini italiane André Disdéri brevetta il suo sistema per ritratti, una fotocamera dotata di quattro obiettivi, che in un secondo tempo diventeranno otto o anche dodici, attraverso i quali su di un’unica lastra possono essere riprese quattro, otto o dodici immagini, uguali oppure diverse fra loro, sia dello stesso soggetto che di soggetti diversi. Le dimensioni delle foto sono ovviamente ridotte, ma il loro costo unitario si abbassa drasticamente in quanto vengono tutte impressionate su una sola lastra, dalla quale si ottengono stampe positive (del formato 6x9 cm circa) che vengono poi montate su un cartoncino rigido: è la “carte de visite”, tutto sommato un altro modo per rendere più democratica la fotografia. Infatti, anche e soprattutto i ceti popolari e non solo la borghesia o la nobiltà parigina usufruiranno di questo innovativo modo di farsi ritrarre. Modo ancora in uso oggi stesso presso alcune aziende fotografiche (biglietto da visita con fototessera incorporata).
 


Ponte Milvio dalla sponda destra, Stefano Lecchi, 1849. Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Roma.
 

Sono questi gli anni anche dei primi reportage di guerra. Il primo riconosciuto dalla storia è quello del 1849, ad opera del “pittore-fotografo” Stefano Lecchi, probabilmente facente parte della Scuola Romana di Fotografia, che utilizzava la tecnica del calotipo.
Lecchi realizzò il primo reportage di guerra, riprendendo i luoghi che, a Roma, furono teatro degli scontri tra Francesi, forze papaline e sostenitori della Repubblica: siamo di fronte alle prime fotografie in assoluto di un evento bellico, le prime testimonianti degli avvenimenti di cronaca.

La fotografia inizia dunque ad impossessarsi di quel suo ruolo che sarà determinante nella costruzione di una memoria storica condivisa.
Attraverso le immagini, da quel 1849, i fotografi iniziano a raccontare ogni evento che il mondo ha vissuto e ad indagare ogni risvolto della realtà e della società che ci circonda. Ed è proprio attraverso i primi reportage di guerra che la fotografia inizia a diventare (anche) strumento per raccontare
la cronaca.
 


William H. Russell, inviato del London Times, fotografato da Roger Fenton.
Il primo corrispondente di guerra immortalato dal primo fotografo di guerra. Fonte: fotographiaonline.it.

Nel 1853 Roger Fenton (1829 – 1869), considerato come il primo reporter di guerra della storia, racconta la Guerra di Crimea (1853 – 1856) al fine di fornire documentazioni indiscutibili a sostegno di una guerra non certo amata dall’opinione pubblica, sconvolta dai reportage (scritti) del corrispondente di guerra (il primo della storia, anche in questo caso) William Howard Russell. Se è vero che Fenton ha volontariamente fotografato una guerra proprio con l’intento di difendere la politica del suo paese, evitando quindi di mostrare gli aspetti più spaventosi della stessa, è anche ovvio che egli abbia dovuto fronteggiare delle enormi difficoltà tecniche. Il carro fotografico sul quale si trovava tutta la sua attrezzatura era molto ingombrante, poteva lavorare solo all’alba per evitare che il calore intenso deteriorasse i bagni e, anche e soprattutto, per evitare che il fuoco nemico (russo) si aprisse sul suo carro decisamente riconoscibile. Inoltre, pensiamo a tutti i soldati che probabilmente volevano farsi fotografare!
De facto, per entrambi i motivi, Fenton non fotografò le situazioni spaventose raccontate da Russell ma “solo” i luoghi, i personaggi, le truppe, gli accampamenti militari, le fortificazioni e le ambientazioni dove si svolgevano le attività belliche.

Le sue foto, comunque, riuscirono a rendere accettabile all’opinione pubblica inglese la spedizione in Crimea: la missione “propagandistica” per la quale era stato scelto e per cui aveva scelto la fotografia come strumento di narrazione aveva avuto successo.

Il suo lavoro verrà terminato dai fotografi Felice Beato (1833 – 1907) e James Robertson (1813 – 1888), che fotograferanno (con maggiore realismo rispetto a Fenton, seppur con lo stesso movente propagandistico a favore dell’Impero Britannico) anche i conflitti in Medio ed Estremo Oriente (come la Guerra dell’oppio in Cina del 1856).
Anche il grande conflitto americano (la Guerra Civile o Guerra di Secessione) venne testimoniata fotograficamente: Mathew B. Brady (1822 –1896), Alexander Gardner (1821 –1882) e Timothy O’Sullivan (1840 – 1882) testimoniarono con grande realismo gli orrori della guerra, sfruttando al meglio le limitate possibilità tecniche, fotografando (anche) corpi senza vita dei soldati rimasti sul terreno dopo le battaglie. Non quindi l’azione nel suo svolgimento (per motivi di sicurezza e di limitazioni tecniche) ma il risultato (tragico, in questo caso) della stessa.
 

Le fotografie provenienti dalla Guerra di Crimea e dalla Guerra Civile Americana evidenziarono, dunque, le potenzialità della fotografia come strumento giornalistico.
E ben presto si svilupparono anche i reportage “civili”, ovvero gli scatti di fotografi al seguito degli esploratori e dei missionari. Le immagini provenienti da paesi lontani e poco conosciuti rappresenteranno il primo esempio di fotografia etnografica e antropologica.
La fotografia inizia a permeare ogni strato sociale ed ogni ambito della società e della cultura: nasce in questi anni anche la fotografia scientifica e quella industriale. Ed anche quella erotica e pornografica che lo Stato Pontificio cercò inutilmente di limitare con un atto legislativo nel quale si stabiliva che l’esercizio della fotografia come professione doveva essere subordinato ad uno specifico nulla osta rilasciato dall’autorità di polizia e che il semplice possesso di una fotocamera andava denunciato.




Autoritratto
su aerostato,
Nadar

Intanto, nel 1858 il fotografo ed aeronauta francese Gaspard-Félix Tournachon, in arte Nadar (1820 – 1910), realizza le prime fotografie aeree della storia, immortalando Parigi da un pallone aerostatico. A lui si devono anche le prime sperimentazioni relative all’impiego della luce artificiale in fotografia, poi perfezionate nel 1859 dal fisico tedesco Robert Wilhelm Eberhard Bunsen e dal chimico inglese Henry Enfield Roscoe con l’introduzione del magnesio per illuminare gli ambienti.
 


Tartan Ribbon, ovvero la tipica stoffa scozzese, fotografata a colori da James Clerk Maxwell nel 1861. La prima fotografia a colori della storia.

 

Nel 1861, poi, arriva la fotografia a colori, grazie al matematico e fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831 – 1879), che spiegò che la sovrapposizione dei filtri rosso, verde e blu (oggi diremmo RGB) restituivano una immagine a colori.
Maxwell fa fotografare tre volte la stoffa tipica scozzese (quella dei kilt) ponendo sopra l’obiettivo i tre filtri ed ottenendo, così, la prima fotografia a colori della storia.
Alla realizzazione di essa collaborò anche il fotografo e inventore inglese Thomas Sutton (1819 – 1875), che costruì e brevettò la prima reflex della storia.

 


D
ieci anni dopo la prima fotografia a colori, che verrà poi realizzata con un unico scatto e con il procedimento della sintesi sottrattiva tricromatico, brevettato nel 1868 dal fotografo francese Louis Ducos du Hauron (1837 – 1920) e su cui si sarebbero “ispirati” quasi tutti i procedimenti a colori (fotografici e cinematografici) successivi, il fotografo francese Richard Leach Maddox (1816 – 1902) realizzò i primi negativi in gelatina usando il bromuro di cadmio e nitrato d’argento come elemento fotosensibile. È l’alba della pellicola fotografica come la intendiamo oggi (ieri).

In questo decennio (1861 – 1871), intanto, si sviluppano ulteriormente gli studi sulle ottiche, sulla trasmissione delle immagini (nel 1884 l’inventore tedesco Paul Nipkow realizza un disco analizzatore metallico sul quale sono praticati dei fori disposti a spirale in posizioni progressivamente più esterne; facendolo girare, si analizzano le immagini riga dopo riga, esattamente come faranno i primi sistemi di trasmissione televisiva), i reportage di cronaca (viene fotografata l’esecuzione dei rivoluzionari Monti e Tognetti a Roma e l’ingresso delle truppe piemontesi nella breccia di Porta Pia), gli studi fotografici e, soprattutto, nel 1869 l’ ottico e imprenditore tedesco Ernst Leitz rileva la Optisches Institut di Carl Kellner, cambiandole nome. È l’alba della Lei(tz)Ca(mera).
 


The Horse in motion, Eadweard Muybridge, 1878. Fonte: Library of Congress
Prints and Photographs Division attraverso Wikipedia.

E giunge anche il momento della fotografia in movimento: nel 1878 il fotografo inglese Eadweard Muybridge, fotografa con successo un cavallo in corsa utilizzando 24 apparecchi fotografici, sistemati parallelamente lungo il tracciato e messi in azione singolarmente da un filo colpito dagli zoccoli del cavallo. La sequenza di fotografie (The Horse in motion) mostra come gli zoccoli si sollevino dal terreno contemporaneamente, ma non nella posizione di completa estensione, come in realtà si pensava e come era comunemente raffigurato nella pittura. Questa scoperta convinse i pittori ad utilizzare sempre di più la fotografia a supporto della propria attività, al fine di riprodurre con maggiore precisione la realtà. La pittura, dunque era tutt’altro che morta (come invece aveva laconicamente dichiarato il pittore Hippolyte (Paul) Delaroche dopo aver visto per la prima volta un dagherrotipo) e anzi traeva nuova linfa dalla nuova arte della fotografia.
Addirittura alcuni pittori utilizzarono fotografie di figure umane per copiarle nei loro quadri e si arrivò anche alla pittura diretta su lastra fotografica.

 

A livello industriale, poi, vengono fondate alcune delle realtà destinate a dominare il mercato fotografico delle pellicole: la giapponese Konica, nel 1873; la inglese Ilford, nel 1879; l’Agfa, nata nel 1867 presso Berlino. E proprio a proposito di pellicole, l’ingegnere polacco Leon Warnerke, nel 1875 inventò la pellicola in rullo su supporto di carta: sarà su questo principio dell’emulsione sensibile stesa su una striscia di carta a cui si ispirerà
George Eastman, il fondatore della Kodak.
La fotografia, ormai, è pronta a diventare di tutti.
Prima di questo “passaggio”, c’è ancora tempo per la creazione e il brevetto (1879, ad opera di George Eastman) della prima macchina per la stesa dell’emulsione, dello sviluppo delle microcamere, del fotofucile per fotografare il volo degli uccelli (inventato dal francese Etienne Marey), della nascita della foto segnaletica (grazie al prefetto di polizia di Parigi Alphonse Bertillion), della fotografia al bacillo del colera realizzata dal fotografo italiano Francesco Negri, inventore anche del teleobiettivo (1886) e della nascita della Murer & Duroni (1886), i maggiori produttori italiani di apparecchi fotografici fino agli anni 30.

Ormai, è tempo per la fotografia di passare dalle mani (e dal cuore, dagli occhi, dai progetti) di pochi ceti privilegiati e benestanti a quelle del mondo intero, ora pronto a raccontare attraverso le immagini i momenti della propria vita quotidiana.

 

1888: NASCE LA BOX KODAK E IL MERCATO FOTOGRAFICO ODIERNO


Primo apparecchio fotografico dotato di pellicola in bobina, la Box Kodak era dotata di un obiettivo di 57mm di lunghezza focale, con apertura relativa f/9. Fonte: fotographiaonline.it.

Nel 1888 la fotografia, che non ha ancora 50 anni, si prepara alla sua prima, fondamentale, determinante svolta.
Il protagonista assoluto di questo passaggio fondamentale è l’imprenditore statunitense George Eastman (1854 – 1932) che in quest’anno fonda la Kodak (il cui nome non significa nulla, come spiega lo stesso Eastman: “la chiamai “Kodak” perché era un nome breve, vigoroso, facile da pronunciare e, per soddisfare le leggi sui marchi depositati, non significava nulla”) e inizia a promuovere la prima macchina fotografica destinata a tutti, la Box Kodak, con cui nasce il mercato fotografico come lo intendiamo ancora oggi. Da allora la fotografia non sarebbe stata più la stessa. Il celebre slogan “You press the button, we do the rest” (“Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto”) prometteva una semplificazione fino allora insperata per il grande pubblico.

Con “the rest”, infatti, si intendevano tutte le lavorazioni decisamente complesse di trattamento della pellicola e stampa delle copie. Venduto a venticinque dollari, l’apparecchio era caricato con pellicola flessibile sufficiente per cento pose circolari. Esauriti gli scatti, l’intero apparecchio andava spedito alla Eastman Dry Plate and Film Co di Rochester (che sarebbe presto divenuta Eastman Kodak): dieci dollari per il trattamento del negativo, la stampa delle copie (tonde, di 64mm di diametro) e il ricaricamento con pellicola vergine. I tempi di restituzione dipendevano anche dagli agenti atmosferici: da cinque a dieci giorni, come veniva indicato anche nel manuale d’uso con cui veniva corredata la Box Kodak.


Il messaggio pubblicitario “Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto” era esplicato chiaramente nel foglio di istruzioni, che spiegava chiaramente i pochi passaggi elementari da compiere per permettere agli uomini di Kodak di “fare il resto”. Fonte: fotographiaonline.it.

La democratizzazione della fotografia ora era davvero compiuta e la prima rivoluzione fotografica attuata. Fortunatamente, perché senza la pellicola flessibile di George Eastman e la Box Kodak, che resero la pratica fotografica accessibile a tutti, essa non si sarebbe mai diffusa su larga scala e probabilmente non si sarebbe mai elevata al livello di arte. Perché di arte si tratta: probabilmente impura, perché non crea nulla. Congela, imbalsama, ferma, blocca, immortala un momento già esistente. Non produce come potrebbe fare la fantasia e la genialità di un pittore o di uno scultore, ma restituisce al mondo la visione del singolo di una realtà già esistente.
La fotografia non inventa nulla e non può, come la scrittura, dare libero sfogo alla fantasia di un autore. Semplicemente ci racconta la sua personale visione di uno specifico momento.
E lo fa con una forza, una intensità, un potere coinvolgente straordinario, che spesso ci porta “nella” fotografia e a volte addirittura oltre essa stessa. Per questo si eleva al rango di arte. Perché è grazie a lei che “la natura si fa di sé medesima pittrice” (citazione dal testo fondamentale di M. Rebuzzini “1839 – 2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita”).

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