Workshop

Alex Webb e Rebecca Norris Webb, Larry Fink

 

Buone notizie dal mondo dell’editoria. È nata Aperture, una nuova collana (edita da Postcart) dedicata ai workshop fotografici presentati da grandi nomi della fotografia contemporanea. In sostanza, l’esperienza dei workshop fotografici attraverso le parole e le immagini - di autori che si fanno maestri - contenute in un libro: per migliorare la consapevolezza di strumenti e poetiche, per comprendere i processi creativi, condividere e confrontarsi con insegnamenti e visioni. Sono due i volumi che aprono la serie: Street photography e immagine poetica di Alex Webb e Rebecca Norris Webb, fotografi di fama mondiale specializzati nel colore, e Composizione e improvvisazione di Larry Fink, conosciuto per le sue immagini sulla società americana. In essi, gli autori esplorano il cuore del processo creativo, attraverso riflessioni su questioni pratiche e filosofiche, dal rapporto che si instaura con l’esterno e il soggetto per mezzo della macchina fotografica, alla creazione di una propria visione fotografica e al processo di elaborazione di un lavoro completo. Ciascun volume è preceduto da un’introduzione a cura di un celebre studente del fotografo in questione: di Teju Cole, scrittore pluripremiato e studente di fotografia di Alex e Rebecca Webb, e della fotografa Lisa Kereszi, studentessa di Larry Fink. Qui riprodotte di seguito.
 


Alex Webb, Rebecca Norris Webb. Street Photography e Immagine Poetica. Postcart / Aperture

«Penso spesso», scrive Teju Cole, «a una poesia del XII secolo del poeta telugu Nanne Choda:

Una freccia scoccata da un arciere

o una poesia scritta da un poeta
dovrebbe trapassare il cuore,
facendo sobbalzare la testa.

Ci rivolgiamo alla fotografia in cerca di questa rivelazione inattesa che si registra nel corpo. Quando partecipai al workshop di Alex Webb e Rebecca Norris all’Aperture Foundation di New York, mi resi conto che io e gli altri studenti eravamo tutti uniti dal comune desiderio di sapere cosa fosse a provocare questa reazione, cosa portasse una foto a trascendere l’ordinario. Volevamo sapere come esprimere al meglio 
le nostre visioni fotografiche e avevamo scelto quel workshop fotografico per la profonda ammirazione che nutrivamo nei confronti degli insegnanti. Le fotografie di Alex Webb vengono giustamente celebrate come prodigi visivi. In trent’anni di lavoro è stato capace di crearsi una voce propria, radicalmente diversa da quella dei suoi predecessori della street photography, Henri Cartier-Bresson, Robert Frank e Lee Friedlander.
 


Foto di Alex Webb, Nuevo Laredo, Messico, 1996

Le sue immagini labirintiche e meticolosamente costruite sono allo stesso tempo profondamente espressive, rimandano spesso a realtà oltre il visibile grazie a un uso abile di colori intensi e ombre nette. Geoff Dyer, nella sua postfazione alla monografia di Webb La sofferenza della luce, lo definisce sagacemente un “fotografo metafisico”. Anche il lavoro di Rebecca Norris Webb, stilisticamente diverso da quello di Alex, si contraddistingue per una profonda espressività. Nella sua street photography, non troviamo le geometrie complesse delle interazioni pubbliche, ma la rappresentazione intima degli stati d’animo in spazi semipubblici, nella tradizione della fotografia contemplativa di André Kertész, Robert Frank e Saul Leiter - immagini che suggeriscono tanto dell’interiorità del fotografo quanto del mondo circostante. Le sue foto sono ariose, piene di entrate e uscite, alla costante ricerca della poetica dei confini, attraverso riflessi, acquari, tende e finestre a richiamare luoghi d’incontro metaforici - tra il paesaggio interiore e il mondo naturale, il sogno e la realtà, la vita e la morte.
 


 

Sfogliando il suo libro My Dakota, ricordo come lentamente scivolassi nel silenzio intenso di quelle foto, distaccandomi dal mondo. Udivo soltanto il battito del mio cuore. La calma, la sofferenza e il tumulto emotivo che provavo girando ogni pagina destavano in me stupore: come può la fotografia creare una tale immobilità? Noi, però, non ci trovavamo lì per imparare uno stile particolare di fotografia; il pensiero di imitare Rebecca o Alex non ci sfiorava minimamente. Eravamo alla ricerca di una consapevolezza superiore: le ragioni per cui si fa un determinato scatto, il pensiero dietro la scelta di una sequenza, i processi di realizzazione dall’idea di un libro all’oggetto vero e proprio. In un ambiente congeniale e collettivo, abbiamo imparato a inseguire quegli attimi fuggenti di poesia che sono alla base della grande fotografia d’autore.
 


Foto di Rebecca Norris Webb, Cielo Tempestoso, 2005-11

La dedizione di Alex Webb e Rebecca Norris verso tali questioni, al contempo molto più pratiche e complesse della semplice domanda “come si fa una foto?” - fa ora parte di questo splendido libro.

Gli abitanti di Bali dicono: “Non abbiamo arte, facciamo tutto nel miglior modo possibile”. Un messaggio simile scorre tra le pagine di questo libro: tutti gli aspetti di un lavoro sono importanti e ogni cosa va fatta nel migliore dei modi possibili. Con questo non voglio dire che i Webb rinneghino l’arte, anzi, la vedono piuttosto come qualcosa che nasce gradatamente grazie alla cura meticolosa e intelligente di tanti aspetti differenti: l’editing, la pubblicazione, la sofferenza, la memoria, gli enigmi, il viaggio, la poesia, la luce, il colore. Il libro dimostra come non si tratti di un’accozzaglia di considerazioni ma piuttosto di una serie di elementi che vanno a costituire una visione fotografica completa. Un fotografo, così come uno chef, poeta, atleta o ballerino, è un “abitante dell’universo attivo”, come scrisse Wordsworth, e un fotografo che si limiti al semplice fotografare rimane incompleto.
 


 

Ciò che mi è rimasto più impresso è come Alex e Rebecca Webb evochino continuamente non solo la relazione che esiste tra fotografia e letteratura, ma anche la necessità di riflettere sullo scatto, l’editing e la pubblicazione di una sequenza di fotografie, e l’importanza
 del testo scritto. La creazione di un’immagine poetica è un’arte intellettuale, non meccanica. Alex si è laureato in letteratura inglese e Rebecca, prima di diventare fotografa, scriveva poesie. Forse è per questo che il loro insegnamento, e queste pagine, sono pervasi da un linguaggio sia metaforico che reale. Leggendo il libro mi sono reso conto di quanto siano rari i fotografi professionisti che riescono ad esprimere al meglio il proprio lavoro. Qua, le immagini e le citazioni sono magistralmente associate e le sequenze, come frasi ben ponderate, si dispiegano con armonia in un susseguirsi di pensieri illuminanti e inaspettati.
 


Foto di Alex Webb, Tehuantepec, Messico, 1985

Una foto nasce in una frazione di secondo ma può riecheggiare per molto tempo. Alcune delle foto di questo libro - quelle scattate da Rebecca e Alex, così come quelle di altri fotografi usate a scopo illustrativo - sono ormai parte della mia vita. La fotografia è un’arte misteriosa: è talmente “immediata” che nel tempo che ci vuole a leggere queste pagine verranno scattate milioni di nuove immagini, ed è tanto profonda da riuscire, talvolta, ad esprimere i nostri momenti di nostalgia o il dolore del lutto. Questo 
mi fa venire in mente le parole di Milan Kundera riguardo all’ambizione dello scrittore: “Unire l’estrema gravità della domanda all’estrema leggerezza della forma”. Sfogliando queste pagine si ha anche la sensazione che l’arte non sia affatto distaccata dalla vita, che la vita sia totale apertura, che l’arte sia la vita debitamente curata, che la domanda e la forma siano una cosa sola. Questo libro trasmette il senso di questa unità e va a confermare ciò che John Ashbery afferma sulla poesia: “Non considero le poesie come opere chiuse. Le sento scorrere continuamente nella mia testa e, di tanto in tanto, ne spunto un pezzo”.
 


 

Street Photography e Immagine Poetica è un libro fotografico insolito: non è una monografia, né una storia, né un manuale in alcun senso; non tratta di attrezzatura o questioni tecniche; non dice quale sia la lente migliore o quale macchina fotografica acquistare; non si cura delle app che possono aiutare lo studente a scavalcare la pazienza ricshiesta dalla fotografia. Per i fotografi seri di qualunque livello, questo libro offre uno sguardo vitale e raffinato sul modo di pensare del fotografo. È un libro sulla mente e sul cuore», conclude Teju Cole, «una mappa generosa tracciata da due grandi artisti, perfetta per chiunque voglia ritrovare più spesso, nel proprio lavoro, quella rivelazione inattesa della fotografia».

 


Larry Fink. Composizione e Improvvisazione. Postcart / Aperture

Racconta Lisa Kereszi nell’introduzione al libro di Fink: «Mi sono iscritta al corso di fotografia di Bard College un po’ in ritardo, al secondo anno, e ho dovuto rimettermi in pari. Di conseguenza mi sono persa il corso semestrale condotto da Larry Fink, Letteratura Visiva, il seminario 
in cui insegnava esclusivamente con immagini proiettate sullo schermo, senza fotografie stampate. Avevo sentito parlare di quella classe e di Larry dai miei compagni
 di corso: della sua personalità magnanima, gioviale e
 al contempo pungente; delle sue trovate e delle sue prodezze; delle sue campagne per la Nike e dei suoi servizi per il New York Times. All’inizio dell’ultimo anno di corso, mi trovavo nell’ufficio del direttore di programma Stephen Shore
 per mostrargli alcune foto 4x5 che avevo scattato lungo le strade degli Stati Uniti e illustrargli alcune idee da una lunga lista di progetti potenziali. Rimase tutto il tempo ad ascoltarmi impassibile.
 


© Larry Fink, Dave Burrell al pianoforte di Archie Sheep, agosto 1966

Adesso che sono un insegnante anch’io, capisco il perché: le aveva già sentite tutte in precedenza. A quel punto fui costretta a tirare fuori la parte più scomoda e personale della lista, e a confessargli che stavo pensando di esplorare la dipendenza dalla droga e dall’alcool, fotografando la gente alle feste 
e in preda all’ebbrezza e ritraendo chi, direttamente
o indirettamente, era affetto dalla dipendenza. Fece
 una pausa, poi mi disse che quello sarebbe stato il mio progetto finale, e che non avrei più lavorato con lui ma con Larry Fink. Oggi mi rendo conto che sapeva cosa fosse meglio per me. Quella decisione cambiò tutto. Larry e io ci trovavamo regolarmente per degli incontri a quattr’occhi, durante i quali lui scorreva tra i miei provini a contatto e le mie stampe di lavoro, dicendo cose come, zip, zow, oh wow, pow, bam, zowee, mentre indicava un gesto o un accostamento che vedeva nell’immagine.
 


 

E io, da studentessa ingenua quale ero, cercavo di interpretare queste esclamazioni bizzarre e improvvisate come complimenti, consigli e avvertimenti. Mi consigliò di acquistare una macchina fotografica con una lente molto più nitida della Hudson Photo Yashica reflex biottica da 115 dollari che avevo usato fino a quel momento, spiegandomi che dalle immagini si doveva vedere ogni singola ruga, imperfezione o smorfia. E mi fece vedere come usare al meglio un flash Vivitar tenuto a mano lateralmente. Mi misi a lavorare sul
 mio progetto, rendendo omaggio al suo lavoro Social Graces in ogni dove, come probabilmente avevano fatto molti altri studenti prima di me avvalendosi dei metodi visivi e progettuali da lui inventati. Ascoltavo, guardavo ed emulavo mentre criticava, tagliava, approvava o disapprovava, sentiva o non sentiva le mie foto.
 


© Larry Fink, Musicista di strada, New York 1966

Poi passavo ad assimilare e combinare la sua influenza con quella di altri, con la mia interiorità e con le mie esperienze di vita, per crearmi, in futuro, un mio linguaggio visivo. Uno degli incontri che ricordo meglio di quell’anno fu più o meno a metà corso, quando gli mostrai un provino
 a contatto di mia nonna in accappatoio seduta al tavolo della cucina. L’avevo fotografata mentre la intervistavo sul suo rapporto con mio padre, un motociclista grande
 e grosso, con i capelli lunghi e coperto di tatuaggi, che faceva uso e abuso di una lunga lista di droghe. A un certo punto, in preda allo sconforto, mia nonna affondò il viso nelle mani logore, il braccio piegato diagonalmente rispetto al gomito, la manica lacera e strappata e la pelle rugosa e cadente, perfettamente illustrate dalla Mamiya C330 e da una luce stroboscopica, non dissimile da Jean Sabatine nella sua pelle abbondante e con indosso quegli abiti floreali consumati che vediamo nel lavoro di Larry.
 


 

Gli occhi di mia nonna erano chiusi, le labbra contratte in un sospiro. Sembrava volersi proteggere da una tragica notizia e dall’ondata di dolore che ne sarebbe seguita. L’accappatoio e la pelle invecchiata la avvolgevano, partendo dal centro verso l’alto e ricadevano come un’onda che si increspa e si rompe. Questa foto non l’avevo segnata con la matita di cera, l’avevo tralasciata, per selezionarne altre della medesima sessione. Mentre Larry guardava il provino a contatto, tastò l’immagine con le sue dita grandi e sagge, esclamando esterrefatto: “Perché non hai stampato questa?!”. “Perché era troppo”, risposi. Incredulo, mi offrì la sua interpretazione: troppo è il minimo necessario. In seguito fu mia nonna a dare il titolo alla foto: Disperata ma non sconfitta. Mia madre la definì “sfruttatrice”. Di fronte a questa immagine, che finalmente era abbastanza forte da suscitare una risposta, entrambe le loro reazioni erano legittime.
 


© Larry Fink, Alexander McQueen, New York City, marzo 1996

Fu grazie a Larry se riuscii a inoltrarmi fin lì con il mio lavoro. Imparai a non scappare di fronte a ciò che è viscerale, sensuale ed emotivo, il nudo e crudo, ciò che ci colpisce in profondità. Allo stesso tempo mi insegnò cosa fossero la composizione, l’accostamento, l’inquadratura e la forma
 e come creare la tensione al centro e ai lati dell’immagine. I suoi consigli, il suo incoraggiamento e la sua critica mi accompagnano ancora oggi. Adesso, mentre tento di recuperare il tempo perso, mi domando spesso cosa possa aver perso nel mio percorso formativo per aver mancato quel corso semestrale. Molto si trova in questo libro, nelle sue parole», promette Lisa Kereszi, «un dono che mi permetterà di trasmettere una parte di ciò che ho imparato ai miei studenti».
 


 

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