La mia fotografia
L’agenzia Grazia Neri è stata, per più di quarant’anni, una delle più importanti agenzie fotografiche d’Italia e del mondo. In quella agenzia sono passati i più grandi nomi della fotografia. In La mia fotografia (Feltrinelli, 25 euro, 468 pp.) Grazia Neri racconta gli incontri eccellenti, le amicizie professionali, l’amore per la fotografia di attualità, la lettura dei ritratti, le sue passioni letterarie, l’infanzia solitaria e piena di libri, l’euforia del dopoguerra, la Milano borghese e imprenditoriale degli anni cinquanta. Dal libro riproduciamo il dialogo tra Grazia Neri e Lello Piazza, intitolato “Steve McCurry, National Geographic, l’Airone di Egidio Gavazzi, fotografie positive”.
La cover del libro - © Giangiacomo Feltrinelli editore Milano
«Ho lavorato con il fotografo americano Steve McCurry nella prima fase della sua carriera, quando ancora non era entrato a far parte dell’agenzia Magnum. Ho avuto diversi incontri con lui in Italia, dove è popolarissimo, in occasione di festival, seminari e premiazioni. Della sua fama in grande crescita ho voluto chiacchierare con Lello Piazza, docente di Probabilità e statistica presso il Politecnico di Milano e direttore della fotografia per il mensile Airone fino al marzo 2007.
© Giangiacomo Feltrinelli editore Milano
GN: Mi trovo spesso a riflettere sulla strabiliante carriera di Steve McCurry e sul suo grande successo internazionale. Mi viene in mente a questo proposito un momento importante: eravamo insieme ad Amsterdam per il World Press Photo e tu ponesti alla direttrice del premio una domanda che rimase senza risposta: perché le fotografie del World Press celebravano quasi sempre avvenimenti tragici o tristi, mentre la vita nei suoi momenti positivi non veniva quasi mai rappresentata.
LP: Avevamo preso spunto da uno splendido servizio pubblicato da Geo tedesco sui ragazzi disabili in Germania, che venivano coinvolti in lavori agricoli non pesanti, principalmente la raccolta di frutta. Le immagini erano molto poetiche: questi ragazzi in un frutteto quasi in contemplazione dei frutti che raccoglievano, quasi meravigliati, come se si trovassero in un piccolo Paradiso terrestre. Avevo preparato una proposta che poi abbiamo firmato insieme, ti ricordi? Cito da quella proposta: «Il nostro scopo è quello di stimolare i fotografi a realizzare non solo storie come quelle a cui siamo abituati, dove regnano, come draghi malefici, la morte e la disperazione. Noi vorremmo vedere raccontate anche vicende che sono più frequenti di quanto non si pensi, situazioni di coraggiosa e onesta vita quotidiana, dove emerga l’aspirazione diffusa a migliorare la qualità della vita attraverso la propria educazione, la propria cultura, il proprio impegno civile e la solidarietà verso gli altri». Ma la proposta non ha avuto nessuna accoglienza.
GN: Nel 2010 Steve McCurry ha tenuto al Palazzo della Ragione una mostra che ha avuto il record di visitatori per una mostra fotografica a Milano, fenomeno che ha stupito molti addetti ai lavori. Allora, pensando alla tua domanda senza risposta, ho notato che quando lui mostra il Sud-est asiatico, un mondo lontano dove spesso le situazioni sono molto difficili, ha un linguaggio quasi sempre positivo. Si vede sempre una speranza, unita al rispetto per tradizioni diverse dalla nostra: la vita, insomma, in quei luoghi è così, e ci sono anche cose bellissime. Volevo chiederti che cosa pensi della fotografia di Steve McCurry e se la consideri positiva.
LP: Devo dire che questo successo ha stupito un po’ tutti e me per primo. Basti pensare che in quarant’anni di insegnamento al Politecnico i miei studenti (che sanno che io mi occupo di fotografia) per la prima e unica volta in occasione della mostra di McCurry, mi hanno chiesto di far loro da guida nella visita. Nel caso di McCurry penso che il pubblico sia molto più catturato dallo stile di Steve che non da quelli promossi per decenni in Italia - stili che forse hanno le loro origini nel neorealismo italiano -, che non prevedono la narrazione di un mondo di bellezza e di gioia, ma solo un mondo di sofferenza e tragicità. Non posso dimenticare che il National Geographic veniva accusato di guardare il mondo con le lenti rosa. Veniva negato, dai nostri critici, diritto di cittadinanza alla fotografia del National. E invece Steve non fa altro che fotografare come si faceva al National fino alla metà degli anni Novanta, quando era direttore il mitico Bill Garret. Uno stile che coglie sì la drammaticità, ma narra il mondo con il colore e con l’ottimismo. Oggi il National pubblica anche servizi duri, sulla guerra e la povertà, che un tempo non avrebbero trovato spazio sulle pagine della rivista. Ma anche allora, sebbene più raramente, si guardava la povertà ma, come dicevi tu, il fotografo cercava la bellezza anche nella miseria. Io mi sono sempre un po’ ribellato alla visione di molti, che è quella in base alla quale ci si emozionerebbe di più col sangue, col sesso e coi soldi. Ritengo anzi che il National abbia avuto e abbia un ruolo importantissimo nella storia della fotografia. Molti grandi fotografi hanno narrato le tragedie, la guerra e la morte, come Robert Capa, Christopher Morris, James Nachtwey o la nostra Letizia Battaglia, che ha realizzato documenti indimenticabili sulla storia della mafia siciliana. Ma quello che il National ha pubblicato, aiutando centinaia di fotografi a produrre, è un patrimonio immenso, è una specie di enciclopedia di Diderot e D’Alembert. Il suo stile è stato di riferimento per tantissimi in tutto il mondo. Ha costruito l’occhio d’infiniti fotografi, non solo i professionisti, ma anche gli amatori che non vivono di fotografia, ma si limitano a goderne i piaceri.
GN: Intervengo su Airone, rivista che per me ha rappresentato non le lenti rosa ma, soprattutto agli inizi, uno sguardo finalmente attento e meditato sulla natura. Sotto la costante minaccia della morte, la guerra aveva cancellato ogni curiosità sulla natura e gli animali erano stati dimenticati. Il fenomeno è durato a lungo anche nel dopoguerra. Ma Airone, soprattutto i primi anni, quando era direttore Egidio Gavazzi, che ne fu anche l’inventore, ha rappresentato la risposta a un bisogno di natura, a un desiderio di sogni esotici.
LP: Vorrei dire che Airone non era solo natura, ma anche civiltà. Si andava alla scoperta delle culture e dei costumi di popoli diversi dal nostro. La rivista era anche vivere la natura, ma non solo quello. Abbiamo anche avuto il ruolo di far conoscere al pubblico italiano straordinari servizi che celebravano la bellezza del mondo e che nessuno dei giornali italiani di allora avrebbe pubblicato.
GN: Io penso che il successo del National in quegli anni fosse dovuto anche all’uso di certe pellicole che in Italia erano conosciute e usate da pochi. Mi riferisco al Kodachrome, una pellicola dai colori saturi, molto più di quelli dell’Ektachrome, per esempio, ma anche del Kodacolor, pellicola negativa. C’era anche chi rifiutava il Kodachrome accusando questa pellicola di falsare i colori reali. Tornando a Steve, comunque, e magari grazie anche alle pellicole che usava, che permettevano risultati cromaticamente molto brillanti, era molto amato anche dagli appassionati non professionisti. E io, a mia volta, amo molto i “dilettanti”, che spesso sono più attratti dal fascino della tecnologia fotografica che non dal linguaggio della fotografia. Penso che nel vasto mondo dei dilettanti vada cercato il successo della mostra di McCurry.
LP: Certo. Però, sempre secondo me, se anche avessero fatto una mostra anziché di McCurry di Bill Allard, tanto per citare uno dei tanti grandi del National anni Ottanta e Novanta, forse avrebbe avuto lo stesso successo. Perché penso questo? Perché le fotografie di Steve sono come la gente comune le intende, non c’è mosso non c’è sfocato, c’è “colorato”, ci sono delle belle inquadrature, una bella composizione. È la fotografia della bellezza che vince. Poi è vero quello che dici tu: la tecnologia, la pellicola usata è una cosa importante. Tranne in casi rarissimi, Airone non pubblicava servizi se non erano realizzati in Kodachrome 64 o 25. Come del resto si faceva al National.
GN: Quando gli chiedono: “Qual è la chiave del tuo successo e come fai a fotografare così?” Steve McCurry risponde: “Io guardo, guardo a lungo e aspetto”. Forse questo è il segreto del fotografo: questa attesa, questa capacità di guardare prima. Il mondo in cui lui sta come stanno le cose attorno a lui, le persone, i movimenti, tutto e poi attendere il momento della grande fotografia. Una fotografia abbastanza lenta rispetto a quella con la quale aveva iniziato, che era la fotografia di attualità e di guerra, che è veloce. Leggevo che Steve fotograferà L’Aquila dopo il terremoto: trovo che sia interessante e sono curiosa del risultato. Ma sono ancora più curiosa per il lavoro che farà quest’inverno: per la prima volta il calendario Pirelli ha scelto Steve McCurry. Non sarà di donne nude, ma di donne sensuali. Detto questo, non siamo ancora arrivati al punto, Lello: perché nel realizzare una fotografia che ha sempre una connotazione di luminosità direi positiva Steve ha così tanto successo?
LP: Non so dirti... Una mostra di Cartier-Bresson è una mostra che ha un successo pazzesco, anche perché la fotografia di Cartier-Bresson è un po’ all’ancienne dove le cose sono state fatte come si sono fatte per tanti anni, e non ci sono tutte quelle ricerche visive che ci sono poi in tanti autori. Io credo che la popolazione abbia dei gusti medi e che quindi l’espressione visiva che preferisce sia quella media e cioè fotografia con colore: e una cosa che c’era nella mostra di Steve a Milano erano delle immagini molto colorate.
GN: Io, infatti, penso che un motivo del successo sia questo colore estremamente saturo che non c’era nei primi. Per esempio, guardavamo la sua fotografia assai nota, quella del ragazzino che corre per le strade di una città indiana, non trovo le parole per descrivere i colori.
LP: Direi che c’è una cosa nelle fotografie di Steve McCurry che funziona: cioè che le fotografie mostrano quello che vedono gli occhi. Tu sei in giro in un qualunque posto del mondo e quello che vedi senza vederlo al microscopio lo vedi come una sensazione, anche col cuore e non con la razionalità che porta all’indagine e non al racconto. E i colori poi, secondo me fanno il resto.
GN: Hai detto sensazione. Leggo da un blog uno che scrive: “Nelle foto di Steve si ha la sensazione di vivere in prima persona le situazioni immortalate negli scatti”. È questo secondo me, perché uno va e vede il bambino che corre in una fotografia, corre in mezzo a segni del territorio con il vestito che ti suggerisce subito il contesto. È una fotografia che, vista una volta, ha occupato la mia memoria visiva per sempre. Pare che sia la fotografia preferita di Steve (e non la celebre ragazza afghana dagli occhi chiari). Io credo anche nella composizione così asciutta che fa in modo che chi guarda la fotografia possa vivere al massimo la fotografia perché pensa: andrò lì, vedrò proprio questo, questi colori, questi visi.
LP: Però Grazia con la fotografia faccio fatica a pensare a un progetto creativo, scatto per scatto. Credo alla presenza di un progetto nella letteratura, nella pittura, perché in questi casi l’esecuzione dell’opera ha tempi che ti consentono di affrontare il processo creativo attraverso un progetto. Con la fotografia la creatività deve essere fulminea, in un centoventicinquesimo di secondo non hai tempo di pensare a un progetto. La fotografia ti viene. Se sei bravo ti viene bene.
GN: Comunque non abbiamo ancora risposto alla domanda iniziale: cosa c’è nelle foto di McCurry che determina un tale successo? Che prima di scattare guarda e osserva a lungo la situazione che vuole fotografare.
LP: Tutti secondo me guardano prima di scattare, anche Michael Ackerman prima di scattare guarda, se non guardasse non potrebbe fare le fotografie che fa. Secondo me è un altro il discorso. Ribadisco: secondo me le fotografie di McCurry sono quasi alla portata del pubblico. Le foto di Ackerman o anche quelle di Delano che è molto più classico, non riescono a essere facilmente leggibili. Non è che non possano avere successo, solo il successo è numericamente diverso. Faccio un altro piccolo esempio: nelle immagini di Delano ci sono delle cose non immediate e ci si chiede come ha fatto a farle. Con le fotografie di McCurry è difficile che tu ti chieda come ha fatto a farle. Sembrano fotografie veramente naturali. Ti dici: era lì e ha scattato.
GN: Delano non difficile, ma è vero che Steve McCurry ti dà una cosa che non devi interpretare, la devi guardare e quella è. Si capisce allora la sua intervista nella quale dice: “Io devo guardare a lungo prima di fotografare”. E questo vuol dire molto, vuol dire che lui sa, è in grado di prevedere, come se leggesse il futuro, che sta per apparire un bambino che corre, proprio in questo stretto vicolo, dove sui muri ci sono impronte di mani colorate.
LP: Se lui ha osservato, ha studiato il paese, sa che cosa fotografare, questo non è da sottovalutare; la gente che va in giro per il mondo non sa cosa fotografare perché non ha studiato quel paese, non capisce perché la gente corre nelle strade, perché prega o perché non prega. La gente è sorpresa dalle collane in India ma non ne conosce il significato. Steve invece guarda e sa. E siccome sa, non fotografa tutto quello che sa che deve fotografare.
GN: C’è un gruppo di fotografi che è cresciuto nel periodo che copre gli anni dal ’70 al ’90 con il mito del National Geographic. Allora si credeva ancora che si potesse fotografare il mondo e si voleva farlo vedere agli altri, che dimostravano una grande curiosità. Questa curiosità è rimasta? Perché, quando apro i settimanali italiani, soffro per il cattivo uso delle fotografie di natura: sono brutte, scelte male.
LP: Se parli della natura bisogna dire che, dal punto di vista fotografico, la natura in Italia, a parte l’esperienza di Airone, non è mai decollata. Ma torniamo alla serenità, alla felicità che c’è nelle fotografie di Steve. Pensa ai film dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta: non sono stupidi come sarebbero se li facessimo oggi. Descrivono una società sostanzialmente felice, una società che è uscita vincitrice dalla Seconda guerra mondiale, che è il punto di riferimento per gran parte del mondo occidentalizzato, che lotta contro l’Unione sovietica ed è una società sostanzialmente ottimistica. Hai ragione quando tu dici che c’è dell’ottimismo nelle foto di McCurry. È l’ottimismo che uno ha bevuto da piccolo con il latte materno. I problemi iniziano per gli Usa con la guerra nel Vietnam, con le grandi contestazioni degli anni Settanta. Ma a quel tempo Steve è già grande e il latte dell’ottimismo lo ha già nutrito.
GN: Per finire, vorrei dire che uno dei motivi del successo di McCurry è dato dall’idea che tu andrai in quel paese, troverai quei colori, quel sole, potrai vivere e vedere l’esotico. E che l’esotico non è solo disgrazia e dolore, ma è anche un modo di vivere; e soprattutto, lo dico ancora una volta, di Steve McCurry apprezzo il rispetto per qualsiasi folclore, abitudine, modo di vivere che è sempre mostrato e anche celebrato senza critica.
LP: Dostoevskij diceva: “La bellezza salverà il mondo”. Non è mai stato così, ma abbiamo bisogno di sperare che sia così. In questo Steve ci dà una mano.