Intervista

A cura di:

Reporter ai confini del mondo
Paul Nicklen / National Geographic

Il National Geographic celebra in Italia un doppio compleanno - il 10° anniversario dell'edizione italiana e i 120 anni della rivista madre statunitense - con la collettiva Acqua Aria Fuoco Terra, a cura di Guglielmo Pepe, direttore di National Geographic Italia (fino al 30 marzo al Palazzo delle Esposizioni di Roma): 92 immagini stampate di 39 tra i più importanti fotografi del magazine - da Michael Nichols e Joel Sartore a Frans Lanting e Steve McCurry fino a Jodi Cobb e Alexandra Boulat - e 92 immagini proiettate di 39 fotografi che hanno collaborato all'edizione italiana (dal 17 maggio al 5 giugno, 40 immagini scelte tra le 92 stampate saranno esposte in esterno a Milano, a cura di White Star Adventure).


© Carsten  Peter
© Carsten Peter
Deserto del Sahara, Africa
La sagoma di un uomo che si rinfresca
con l'acqua.
National Geographic 12/2002
© Bobby Haas
© Bobby Haas
Botswana
Giraffe al galoppo sul delta
del Fiume Okavango.
Inedita su National Geographic

A Roma, in occasione dell'appuntamento a Palazzo delle Esposizioni, Paul Nicklen, uno dei più importanti autori in mostra, soprannominato da alcuni “il fotografo dei ghiacci” per aver vissuto a lungo nell'estremo nord del Canada tra gli Inuit e aver fatto dei poli nord e sud la sua area di specializzazione, ha tenuto una conferenza sul suo mestiere di nature photojournalist. Lo abbiamo incontrato qualche ora prima, per farci raccontare quel che c'è dietro i suoi scatti, i suoi incontri ravvicinati sopra e sotto il ghiaccio, i suoi luoghi speciali. Ne è venuto fuori il ritratto di un uomo appassionato, che intende la fotografia come modo per creare ponti tra ricerca scientifica e pubblica opinione, realizzando reportage per riviste come il National Geographic, mezzo per testimoniare l'evoluzione di mondi remoti ma vitali per l'equilibrio del pianeta (mostrando, per esempio, gli effetti reali del riscaldamento globale), oltre che maniera per esprimersi e vivere intensamente negli ambienti estremi polari, suo habitat di elezione.

© Joel Sartore
© Joel Sartore
Louisiana, USA
Un crocefisso in un cimitero di Baton Rouge, confinante con un impianto petrolchimico.
Inedita su National Geographic
© Michael Nichols
© Michael Nichols
Repubblica del Congo
Una famiglia di pigmei Babenzele
nella foresta.
Inedita su National Geographic

 

Il titolo della tua conferenza è “Ends of the Earth”: la fine, gli estremi della Terra. Perché?
Per due motivi. Primo, perché il mio lavoro si svolge in genere agli estremi del mondo, ai poli. La maggior parte di quel che ho fatto per il National Geographic, ad esempio, l'ho realizzato in Artide e in Antartide. Poche persone, pochi fotografi lavorano in questi luoghi. Io sono cresciuto tra gli inuit, sull'isola di Baffin (la maggiore dell'arcipelago artico canadese, montuosa e in gran parte ricoperta di ghiacci, ndr). Quell'area è diventata la mia specialità, perché lì mi sento bene. Il titolo della mia conferenza - Ends of the Earth - ha un doppio significato, i limiti, la fine del mondo. Il riscaldamento del pianeta sta avvenendo ai poli più velocemente che in qualsiasi altro posto del pianeta.

Un momento della conferenza.
Palazzo delle Esposizioni di Roma
Io sento il bisogno di fotografare e testimoniare attraverso i miei reportage ciò che avviene. Per mostrare le connessioni tra la nostra vita normale e l'ambiente. Voglio che la gente sia più consapevole di quel che significa lo scioglimento dei ghiacci ai poli. Se si dice “il ghiaccio si sta sciogliendo ai poli”, la gente di New York - per fare un esempio – pensa che questo fatto non la riguardi, che non influenzi la propria vita quotidiana, anche se sappiamo che i grandi centri come Los Angeles o New York sono una delle cause principali del problema. Ciò che cerco di far capire è che se perdiamo il ghiaccio ai poli è come perdere gli alberi delle foreste, tagliare le foreste pluviali, togliere la terra da un giardino. Vi sono 300 diverse specie di microrganismi in un pezzo di ghiaccio marino. Perdendo il ghiaccio, perdi anche le specie. Dopo essermi laureato in Biologia Marina ho lavorato per quattro anni nei Northwest Territories; ora non sono più uno scienziato, ma dialogo con loro, con i biologi, i climatologi, cerco di stabilire dei ponti.

Com'è nata la tua passione per la fotografia?
Mi ricordo che ero all'università, studiavo biologia. E gli insegnanti parlavano di queste incredibili specie marine. Io facevo delle immersioni e così ho cominciato a fotografarle. E mi sono accorto che i miei insegnanti, che avevano studiato questi animali per 30 anni, lo avevano fatto senza averli mai visti nel loro vero mondo, sott'acqua. Ho fatto le foto e tutti erano entusiasti. Ho capito che, con le mie foto, potevo avere un ruolo nel testimoniare agli altri queste forme di vita, potevo riempire un vuoto tra gli scienziati e l'opinione pubblica, colmare questa distanza, trasmettere le loro conoscenze al resto del mondo. Ho cominciato a guardare riviste, le foto degli altri, le cose che pubblicavano, e desideravo che anche le mie fossero pubblicate. Ho cominciato a fare milioni di brutte fotografie, a me piacevano e ai miei amici pure, ora sono tutte nella spazzatura. Ho iniziato a pubblicare le mie foto su varie riviste in tutto il mondo, poi ho incontrato Flip Nicklin e Joel Sartore che lavoravano per il National Geographic e tutti e due sono stati molto gentili con me, mi hanno aiutato. Non a capire come fare buone foto, ma le regole del gioco con quelli della redazione del National per convincerli a guardare le mie foto. Alla fine ho avuto un assignment perché un fotografo non poteva portarlo a termine. È stato il primo di sette servizi realizzati per loro, scattato nel 2001 e pubblicato nel 2003, la mia prima storia. È andato abbastanza bene; “va bene”, mi hanno detto, senza troppi entusiasmi. Poi ho vinto il primo premio al World Press Photo ad Amsterdam e mi hanno detto “ci piace molto”.


© Paul Nicklen
Paul, nel corso della realizzazione del reportage sulla foca leopardo in Antartide

Hai mai avuto una qualche formazione da fotografo?
Ho passato un giorno con un fotografo, che mi ha insegnato le cose di base: come usare un esposimetro, sott'acqua, per esempio. Ricordo che alla fine di quella giornata, mi disse: “è impossibile fare il fotografo di mestiere, non ci sono soldi, non si guadagna, il lavoro è durissimo”. Non gli ho dato ascolto e ho fotografato per tutta l'estate, inventando bugie per l'università, un falso progetto di ricerche sottomarine. E ogni giorno mi sono immerso con la mia macchina fotografica, ho fatto forse 300 immersioni e 300 rullini. Ho selezionato le migliori foto e le ho mostrate alla mia famiglia. E mio padre mi ha detto: “devi trovarti un lavoro vero, fotografare è una perdita di tempo e di soldi”. E così sono tornato a fare il biologo. Facendo il mio lavoro vedevo cose incredibili: orsi polari camminare in mezzo al ghiaccio, con una luce splendida, e dovevo appuntare queste cose su un pezzo di carta senza poter usare la macchina fotografica. Così ho detto loro: fate quel che volete ma io devo fotografare. E allora mi hanno incaricato di fotografare per documentare alcune ricerche in corso. Hanno iniziato a vederne l'importanza e io ho iniziato a capire che potevo, non solo fare delle belle foto, ma raccontare storie con le mie foto. È stato duro per me da capire. Tutti i miei amici, tutte le persone che conoscevo facevano belle foto. Ma riuscire a creare una nuova storia, con le foto, era duro, era un concetto difficile. Flip Nicklin mi disse un giorno: “vai e racconta storie”, così è iniziata la mia carriera da fotografo.

© Paul Nicklen
© Paul Nicklen - Penisola Antartica, Antartide
Due piccoli di pinguino antartico (Pygoscelis antarctica) sul fianco di un grande iceberg.
Inedita su National Geographic

Curi molto gli aspetti tecnici delle tue fotografie?
Non sono un grande tecnico. Conosco tanti fotografi che amano enormemente la loro attrezzatura. Io quando lavoro sono in genere sott'acqua, sotto il ghiaccio. Rischio, non posso stare lì a teorizzare. Ho delle priorità: F8, un certo tipo di lenti. Lavoro, non voglio distrazioni dal mio voler raccontare storie. Non guardo mai le foto sul retro, solo gli istogrammi. A volte abbasso il flash, non uso il ttl come lo si usa sopra, non funziona, nell'oceano così scuro tutto esplode. Molti abusano del flash, pensano che il flash sia una fonte di luce che rende le cose migliori. Io opto in genere per luce ambiente e un po' di flash. Quando l'animale arriva più vicino uso un po' più di luce, ma niente è esageratamente illuminato.

Sopra e sotto il ghiaccio, ti sei mai trovato in situazioni di pericolo?
Sai, in quelle condizioni è sempre pericoloso, ma forse non come guidare a Roma, parlo sul serio. Gli orsi polari sono pericolosi, le foche leopardo sono dei grandi predatori, ma c'è sempre un elemento di controllo, anche nell'acqua. All'inizio c'è paura. Ho avuto paura la prima volta con la foca leopardo, ma poi è andata bene. Questi animali sono abbastanza coerenti, generalmente hanno lo stesso comportamento, ripetono le stesse cose. Su un'autostrada, per esempio, puoi incontrare gente che guida male, arrabbiata, ubriaca, distratta. Puoi controllare te stesso, ma tutto il resto continua ad andare indipendentemente da te. Con l'orso polare, con la foca leopardo, se ti muovi lentamente, se osservi il loro comportamento, i rischi sono minimi. Certo, puoi essere attaccato, colpito; ma ci sono buone possibilità che, essendo andata bene una volta, andrà di nuovo bene.

© Paul Nicklen
© Paul Nicklen - Canada
Un piccolo iceberg trasportato dalla marea su una spiaggia dell'Isola Ellesmere.
Inedita su National Geographic

So che hai avuto un incontro molto ravvicinato con una foca leopardo.
Una volta ero in Antartide per un reportage sulle foche leopardo. All'inizio l'animale era nervoso, abbiamo iniziato una specie di danza uno attorno all'altro; poi mi è sembrato che lei mi accettasse. Ha iniziato a darmi dei pinguini da mangiare, pinguini interi che sembrava cacciasse per me, cercando di mettermeli per forza sulla testa, spingendo per essere sicura che io mangiassi. Poi andava a cercarmi un altro pinguino, e questo per cinque giorni, ogni giorno mi dava un pinguino. Se si avvicinava un'altra foca, la scacciava, le prendeva il pinguino e me lo portava. Una cosa incredibile. All'inizio credo volesse comunicare con me, e io cercavo di starle sempre più vicino; lei non sapeva cosa volessi, continuava a cercare questa comunicazione, attraverso il pinguino. Alla fine il suo era come un gesto di amicizia; credo che abbia cominciato a preoccuparsi sul serio che io stessi morendo di fame, stando così a lungo nell'acqua, e cercava di farmi mangiare per forza. È stato qualcosa di molto speciale, non la dimenticherò mai e quando starò per morire mi ricorderò di questa cosa più di qualunque altra nella mia carriera.

Come scegli i tuoi soggetti, sono tue proposte o committenze, assignment?
Quando ho cominciato col National, le prime storie erano committenze. Una volta visto come lavoravo, hanno iniziato ad accettare le mie proposte. Da allora ho fatto altre cinque storie e ne sto preparando altre cinque, tutte mie proposte. Trovo un soggetto, bello e su cui posso sviluppare il racconto di una storia, come quella sul ghiaccio marino artico per esempio, lo discuto e poi inizio a lavorare. Posso fotografare orsi morti, ghiaccio che si scioglie; ho bisogno di avere foto meravigliose e storie significative, ma soprattutto di belle immagini. Per fare un esempio, le persone che siedono annoiate nelle sale di attesa dei medici sfogliano riviste con stupidaggini su Britney Spears ecc.; se sfogliano il National Geographic e c'è una foto di un orso polare morto, probabilmente non si soffermano neanche, ma se c'è una bellissima foto di quest'orso forse guardano l'immagine e leggono la didascalia. E forse cominciano a interessarsi e leggono la storia intera e ne parlano agli amici, alla sorella, al fratello. Il National Geographic raggiunge 49 milioni di lettori nel mondo, non tutti leggeranno quell'articolo, magari 8-10 milioni sì. Il mio lavoro è quello di attrarre più persone possibili di questi 49 milioni, realizzare buone fotografie e storie interessanti. A volte ho raccontato storie con un approccio più scientifico, ma con il reportage sul ghiaccio marino artico – che è stato il pezzo che ha avuto il massimo gradimento (del 92%) dai lettori del National da tredici anni a questa parte – ho puntato di più sulle emozioni.


© Paul Nicklen
Goran, assistente di Paul, di fronte ad una foca leopardo in Antartide

Cosa ci dev'essere in una tua immagine, cosa cerchi di catturare ed esprimere quando scatti?
Per molti la fotografia è sostanzialmente messa a fuoco e buona luce, per tanti questo è sufficiente. In realtà è soltanto un buon inizio. Gli animali vanno fotografati da vicino. Per me è importante che nella foto si possa identificare l'oggetto: è un orso polare, una foca, ecc. E poi mettere tutto questo da parte e iniziare ad aggiungere informazioni, mostrare l'animale nel suo habitat. Poi voglio fare una foto artistica, anche se non perfetta, qualcosa di diverso da quello che altri hanno fatto o potrebbero fare, perché voglio che chi guarda la foto si chieda come l'ho fatta, voglio che si perdano nelle foto per un po'. Se uno come David Doubilet (fotografo statunitense considerato uno dei maestri della fotografia subacquea, ndr) mi dice “come hai fatto?” vuol dire che ho superato le consuetudini fotografiche e questo mi rende felice. Per esempio credo di poter dire che nessun altro ha questa foto (l'immagine della foca qui sotto, ndr). Per farla mi sono nascosto dietro un piccolo cumulo di neve e ho aspettato che la foca risalisse: lei è un centimetro appena sotto l'acqua, il mio obiettivo un centimetro appena sopra questo strato sottile di ghiaccio. Non è perfetta, ma è diversa. Si tratta di una specie in pericolo e la foto mostra sia il suo comportamento che il suo habitat. Voglio far vedere questo mondo, con un po' di arte. Se faccio foto normali mi annoio. È facile rendere la fotografia noiosa, quel che è difficile, credo, è renderla interessante. Se vedo un orso meraviglioso in una situazione normale che cammina in mezzo al ghiaccio mi annoio, ne ho visto tanti. Ho bisogno di mettere la macchina sotto la neve, farlo camminare vicino, voglio che il lettore si fermi stupefatto e guardi.

©  Paul Nicklen
© Paul Nicklen
Prima di riemergere per respirare da un buco nel ghiaccio, una foca controlla
che non ci sia un orso polare appostato per catturarla

Dunque costruisci a volte le tue immagini…
Disegno sempre nella mente le foto che voglio scattare, quasi sempre, e poi cerco di realizzarle. Progressivamente. E non smetto di lavorare finché non sono vicino a raggiungere quel che avevo in mente. A volte lavoro per 8 ore e poi smetto, altre volte lavoro anche per 50 ore. Provare e provare, si continua a provare, come quando cerchi il gusto del miglior cibo che hai provato o vuoi riprodurlo.

È come la ricerca del sapore ideale.
Sì, pianto quel seme nella mia testa e non mollo, lo faccio crescere.

Ma questo può essere anche un limite per la tua creatività o ti lasci libero di cogliere il momento?
Fotografo decisamente qualunque cosa, ma cerco la foto che ho nella mente. Spesso me ne sono andato da una scena che era buona o mediamente buona; l'ho abbandonata per cercare qualcosa di diverso. È duro lasciare tutto quello che sai potrebbe produrre immagini tranquille, giuste, ma devi cercare l'opportunità di trovare qualcosa di cui hai veramente bisogno. È difficile, ci vuole molta forza di volontà; io sono anche molto fortunato perché il National Geographic mi dà un sacco di tempo. Sono i migliori al mondo.

Quando si lavora per il National Geographic, si favoleggia molto di tempi e budget a disposizione. Hai davvero tutto il tempo che ti serve?
Non proprio. In Antartide, per esempio, ho avuto tre settimane; ma siamo stati fortunati, sono state più che sufficienti, quasi troppe perché in quattro giorni abbiamo fatto quasi tutto. Ma nell'Artide è diverso, normalmente hai due ore buone al mese per fotografare. E stai lì e pensi: “il mio lavoro, la mia carriera è finita, mi licenziano”. Poi invece, una notte, fotografi l'orso ed è fatta. Grazie al National posso permettermi di avere delle guide, un aereo con pilota per le riprese aeree, noleggiare cose che altrimenti non potrei permettermi. Lavorare con loro è una fortuna, è lavorare nella squadra migliore. C'è però solo una squadra, è stressante e devi fare il meglio per rimanervi dentro. Ci sono duemila persone in coda dietro di me, che pur di avere una possibilità vorrebbero che mi rompessi una gamba o che mi buttassero fuori. E poi bisogna comunque tener presente che vali sempre solo quanto la tua ultima storia, sei sempre sotto giudizio. Hanno amato le mie foche leopardo e dunque sono una star; se la prossima storia è brutta, finito. Non ci si rilassa mai. Ho visto gente che aveva fatto 25 storie per loro e alla prima storia non buona è stata fatta fuori.

©  Paul Nicklen
© Paul Nicklen - Canada
Una femmina di narvalo colpita dai cacciatori affonda a poca distanza dal margine
dei ghiacci nello Stretto di Lancaster. National Geographic 08/2007

I premi avuti per i tuoi servizi naturalistico-scientifici, come il World Press Photo e il BBC Wildlife Photographer of the Year, sono stati importanti.
Il premio importante, quando ho cominciato a 21 anni, era quello della Bbc, volevo veramente vincerlo. L'ho vinto, negli anni, in categorie diverse. Secondo me dovrebbero inserire una categoria di premio per le storie; un sacco di gente fa belle foto, ma la vera cosa da fare è trovare la relazione tra le immagini, costruire un racconto, il fotogiornalismo. Per me non significa molto vincere una gara di pura fotografia; per esempio, quest'anno ho vinto il secondo e terzo premio e l'anno scorso il primo al World Press Photo. Non mi interessano i premi in sé. Però sono entusiasta di sapere, attraverso il riconoscimento di colleghi e buone giurie, che sono sulla strada giusta, che sto realizzando buone storie.

Vinci quasi troppo…
Sì, sto vincendo troppo, me lo dicono anche quelli del Wpp e della Bbc. E questo è triste perché vuol dire che non c'è nessun altro che fa questo tipo di storie. Tutti gli altri fanno argomenti che riguardano l'uomo non la natura, ovviamente cose importanti come l'Aids, la guerra. Per la gente è più facile sentirsi coinvolti in queste cose. Ma com'è possibile che non ci siano altri che raccontano il cambiamento climatico, il riscaldamento del pianeta, la deforestazione? Com'è possibile che non ci sia una categoria “storia naturale”. E naturalmente vinco anche perché non molti hanno un supporto come quello assicurato dal National Geographic. Per fare certe foto hai bisogno di soldi, tempo, elicotteri, assistenti. Prima del National lavoravo da solo, non potevo permettermi un assistente e una guida. Però potevo sempre permettermi di avere

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