Da lì a qui
Con il suo lungo reportage sui viaggi dei migranti, Giulio Piscitelli - classe 1981, napoletano - ha vinto l’ultima edizione del prestigioso Premio Amilcare G. Ponchielli, istituito dal GRIN (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale). Un reportage frutto di un lungo progetto, iniziato nel 2010, vivendo e sperimentando in prima persona il viaggio di chi tenta di raggiungere l’Europa: dalle rotte africane alla rotta balcanica; dall’enclave spagnola di Melilla ai viaggi verso Lampedusa; dalla tragica realtà di sfruttamento di Rosarno e Castel Volturno all’attraversamento del deserto dei profughi del Corno d’Africa, fino ai siriani, iracheni e afghani che approdano sulle isole greche. In questi giorni (fino al 26 marzo) le sue foto sono in mostra a Forma Meravigli di Milano ed esce il libro Harraga. In viaggio bruciando le frontiere (20x26 cm, 182 pp., 130 foto a colori, 39 Euro) edito da Contrasto.
Giulio, partiamo dal premio. Cosa ha rappresentato per te vincere il Ponchielli?
Il premio per me, così come per quasi tutti i fotografi immagino, è un riconoscimento. Fa bene all’ego, se così si può dire. E significa soprattutto che il tuo lavoro ha in qualche modo colpito e, nel mio caso, è riuscito a documentare in maniera decente la tematica che cercavo di raccontare. In più, sicuramente mi ha dato una grossa mano perché, essendo anche un premio in denaro, 5.000 euro, mi ha permesso di continuare il lavoro fotografico che sto facendo con maggiore tranquillità. Parte di questo denaro è stata utilizzata per proseguire il lavoro, per esempio nei giorni in cui mi hanno premiato mi trovavo in Iraq; un’altra parte è stata utilizzata per allestire la mostra a Forma Meravigli. Il premio è stato assegnato all’intero progetto sulla questione dell’immigrazione. Il progetto nasce con il nome From There to Here. Poi, con l’arrivo del libro si è scelto di cambiare il nome, anche per una questione grafica, in Harraga, un termine a cui pensavo spesso, che per me rappresenta un po’ un sunto della questione immigrazione perché, nel dialetto di alcune zone del Maghreb, di alcuni paesi del Nord Africa, in particolare Marocco e Algeria, viene utilizzato per indicare le persone che bruciano il loro passato, le frontiere o i documenti.
Il libro è una sintesi dell’intero progetto?
In realtà si tratta di una sintesi dei primi cinque anni di lavoro, dal 2010 al 2015. Ma, essendo la questione immigrazione una questione in divenire, mentre si ragionava sul libro e mentre in realtà questo era già pronto per la pubblicazione, si sono aggiunte altre fasi, che verranno esposte nella mostra a Forma Meravigli, come ad esempio la parte legata all’Iraq, che riguarda le persone che stanno scappando in questo momento dai territori colpiti dalla guerra.Queste parti non sono presenti nel libro, ma nella mostra sì che, diciamo così, si aggiorna potenzialmente a ogni viaggio che fai e lo documenta?
Esatto, sono in mostra. Che dal mio punto di vista è una cosa molto bella perché in qualche modo rende il lavoro vivo, se così si può dire, e non lo storicizza troppo. A marzo andrò a fare un altro lavoro legato al tema immigrazione con una Ong spagnola, che riguarda il recupero dei migranti nel Mediterraneo, e quindi se ci sarà poi un’altra mostra si potrà pensare di aggiornarla con le nuove immagini.
A me, devo dire la verità, il nome di prima piaceva molto, From There to Here, anche se Harraga è bello.
Sì, ma sai sulla copertina era un po’ troppo lungo. Con quel nome, From There to Here, voglio sottolineare che la questione immigrazione deve necessariamente essere intesa come il passaggio da un luogo a un altro, perché si parla di persone in movimento, di persone che viaggiano. Il nome in realtà nasce da tutt’altro, da un disco che ho a casa, Here to There, un album del 2002 del dj americano DJ Spinna che si occupa di musica black. E ho pensato che il nome potesse essere utilizzato per un eventuale progetto fotografico. Nel momento in cui ho iniziato a guardare il lavoro nella sua interezza, anche se ancora in uno stadio iniziale, ho pensato a un nome che potesse descrivere l’intero corpo di lavoro, e From There to Here è stato ed è tuttora, per me, il nome che il progetto ha portato con sé fino a poco tempo fa. Harraga appunto è arrivato in un secondo momento, quando c’è stata la necessità di trovare un titolo per il libro che potesse essere sintetico, bello, e anche graficamente funzionale per la copertina.
Com’è nato il progetto del libro?
Io sono appassionato di libri, di letteratura. Mi piace da sempre l’idea di poter vedere il mio lavoro racchiuso in un testo, non solamente nelle pagine di un magazine o di un quotidiano. Allo stesso tempo, fare un libro significa mettere un punto a una parte del lavoro. Il progetto sulla questione immigrazione nasce in qualche modo con me come fotografo. E rappresenta una parte importante della mia prima fase di conoscenza della professione. Ho pensato quindi che, creatosi ormai questo corpo di lavoro, potesse essere bello racchiuderlo in un formato che potesse sintetizzarlo ma allo stesso tempo renderlo anche un po’ meno di cronaca, per così dire, un po’ più letterario. Il libro rappresenta una virgola nel corso di un discorso più lungo. Essendo un fotografo dell’agenzia Contrasto, ed essendo Contrasto anche una casa editrice, ho proposto il progetto a Roberto Koch che si è detto interessato e così siamo andati avanti. Per mia fortuna, è stato curato da Giulia Tornari, che è la photoeditor che da tre o quattro anni segue il mio lavoro e con la quale ho sviluppato parte del progetto. Insieme si è ragionato se ci fosse o meno la possibilità di raccontare il progetto in un libro, se il lavoro potesse essere adatto alla struttura di un libro e insomma è venuto fuori che era possibile, perché il lavoro abbracciava diverse situazioni, diversi periodi, e in qualche modo, non totalmente per fortuna, storicizzava determinate realtà.
Provieni da un mondo parallelo a quello della fotografia, che in qualche modo la comprende, quello della comunicazione, sei laureato in Scienze della Comunicazione. La fotografia è uno strumento che usi da tempo o ti sei avvicinato ad essa progressivamente?
Mi sono avvicinato alla fotografia per un caso, in realtà. Durante i miei studi, il periodo accademico, ero più interessato alla comunicazione pubblicitaria e alla grafica. La fotografia non è mai stata presente a livello professionale nella mia famiglia, a parte mio padre che, quando noi eravamo ragazzini, aveva la mania di fotografare quando eravamo in giro, in vacanza. Non c’è mai stato un background fotografico per me. C’è stata forse una vicinanza alla fotografia, ma in maniera più che amatoriale, essendo legato all’ambito del graffiti writing e della street art. Sai, chi fa writing ha l’abitudine di fotografare i propri pezzi. Però, in realtà, non avevo mai inteso la fotografia come un mezzo per raccontare storie, per raccontare la realtà, per raccontare delle cronache. Come dicevo, mi sono avvicinato alla fotografia per caso perché alla fine del mio periodo accademico ero alla ricerca per prima cosa di un lavoro, incontrai un caro amico che era uno street photographer, che scattava a pellicola, e con lui mi avvicinai un po’ al mondo della fotografia, scattando per strada e facendo una piccolissima esperienza di camera oscura. Così mi sono avvicinato alla fotografia. Fino a quando poi mi sono imbattuto in alcune pubblicazioni come i libri di Paolo Pellegrin o quelli del World Press Photo, e contemporaneamente a Napoli scoppiava la crisi dei rifiuti. E quindi mi sono detto che magari poteva essere un’occasione per avvicinarmi al giornalismo, provare a guadagnarci qualcosa e cominciare a vedere la fotografia come professione. E così ho iniziato a fare delle fotografie che venivano distribuite su territorio italiano da alcune agenzie. E, una cosa tira l’altra, ho iniziato a essere coinvolto, guardarmi un po’ intorno, conoscere dei colleghi che erano molto più bravi di me, e capire che si poteva fare tanto, che poteva essere un territorio molto interessante. Non mi ero mai interessato al giornalismo, né tantomeno sapevo assolutamente niente di fotogiornalismo o fotografia in generale. In un certo senso il lavoro sulla questione immigrazione è stato, ed è tuttora, la mia scuola di fotografia, di giornalismo. Attraverso il provare a strutturare un progetto più articolato ho appreso anche come fare delle buone fotografie, quando ci riesco, e come fare anche a organizzare un discorso anche giornalistico.
Ti sei auto-formato, ti sei formato lavorando sul campo.
Sì, in realtà sì, perché bisogna scendere a fare le fotografie per imparare a farle, e quindi è fondamentale per me fare le fotografie. E poi avevo bisogno di lavorare, quando ho cominciato a fare fotografie avevo bisogno di soldi e quindi fotografavo spesso nei locali, nelle discoteche, dove avevano bisogno delle fotografie di notte o durante le feste. Tuttora se capita, magari un matrimonio, anche se non ne ho scattati molti, a Napoli è un settore della fotografia che tira molto, ho fatto parecchia esperienza seguendo qualche fotografo di matrimoni, proprio per imparare a guardare e a scattare, a trovare una buona luce, la post-produzione e via dicendo.
Sei un fotogiornalista, uno street photographer nel senso che vieni dalla scuola della strada, giusto?
Sì. Io, parlando anche con dei colleghi, mi sono reso conto che si fanno le fotografie se scendi in strada a fotografare, nel mio caso se segui le notizie e sei attento a quello che succede e ci vai, fino a quando non scendi e vai a vedere le cose, non farai mai foto buone, anche perché molte volte può capitare che chi scende per una motivazione, a seguire un determinato evento, poi esce fuori tutt’altra cosa, un report magari del tutto inaspettato. Fino a quando si pianifica solo e non ci si azzarda a scendere e a fare le fotografie poi diventa complicato. Sì, street photographer perché, come direbbe Koudelka, bisogna consumare molte suole per fare le fotografie. Quindi sì, sono un fotografo perché scendo e cammino. Anzi, devo dirti la verità, in questo momento sto camminando anche un po’ poco perché seguendo prevalentemente il libro, la mostra, cose comunque importanti, mi sento un po’ troppo stanziale perché non sto facendo quello che un buon fotografo dovrebbe fare, ovvero prendere la macchina fotografica, partire e andare a fare le foto.
Le definizioni sono sempre difficili, riduttive, ingabbiano, eccetera, ma per caso ne hai una del tuo stile o passiamo direttamente alla prossima e ultima domanda?
No, non ho una definizione del mio stile. Cioè, io sono un reporter, onestamente nemmeno dei più curati dal lato dello stile. Anzi, il mio rapporto con Giulia Tornari di Contrasto, iniziato oramai quattro anni fa, viene anche dal fatto che io ero un po’ alla ricerca di raffinare un po’ il mio sguardo, cosa che avviene nel momento in cui fai molta autocritica e soprattutto quando qualcuno ti guarda da fuori e ti dice che quella foto fa schifo e tu dici che è bella e lui ti ridice che fa schifo. Provo a fare delle buone foto, che possano essere giornalisticamente, per prima cosa, corrette, possibilmente con una buona luce. Sono un giornalista, un foto-giornalista.
Quali sono le storie che cerchi alla fine?
Negli ultimi periodi mi sono focalizzato sicuramente sulle crisi raccontate dall’attualità, recentemente l’Iraq, la guerra in Ucraina o il colpo di stato in Egitto. Che, tirando un po’ le somme, senza nemmeno farlo apposta in realtà, si ricollegano in qualche modo al lavoro sull’immigrazione. Perché quando, per esempio, sono andato in Iraq per coprire quella che era la prima avanzata dell’esercito iracheno contro l’Isis a Mosul, ero andato per fare un lavoro sulla guerra. E, come dicevo prima, senza farlo apposta, ti imbatti in qualcosa che si lega al lavoro sull’immigrazione, come le persone che stanno scappando da Mosul con le barche sul fiume Tigri. E quindi, senza che ci fosse una volontà, mi sono ritrovato con il lavoro sulla guerra, come è capitato anche con la Siria, che si ricollega direttamente a quello fatto in precedenza. In questo momento sono interessato a questo tipo di tematiche, che sono appunto le crisi internazionali. L’attualità che ha un risalto importante a livello nazionale e internazionale, cercando di mantenere un livello alto di fotografia, per quanto posso.
Sono per lo più degli assegnati oppure tu vai e poi vedi?
Nel 95% dei casi io vado, perché attendere un assegnato significherebbe, nell’80% dei casi, non andare affatto. Quindi vado, perché è l’unico modo in cui so di poter andare e vedere, non è sempre facile, però penso che ci si muova soprattutto in base alla curiosità, oltre che alla disponibilità economica chiaramente. Se mi interessa andare a vedere un determinato fatto, non posso attendere che un giornale mi ci mandi, certo se capita in contemporanea meglio. Allo stesso tempo, penso che se c’è la possibilità economica e c’è l’interesse, la curiosità di andare a vedere, per me è sempre importante andare e soprattutto, se ne ho la possibilità, decidere i tempi che voglio dedicare a quella determinata tematica, perché alle volte gli assegnati, anche quando ci sono, non danno la possibilità di avere dei lunghi periodi per gestire e raccontare un determinato fatto. E spesso, per raccontare, c’è bisogno di tempi un po’ più lunghi.
Giulio Piscitelli, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, si avvicina alla fotografia iniziando a collaborare con agenzie di news italiane e straniere. Dal 2010 lavora come freelance, realizzando reportage sull’attualità internazionale. I suoi lavori sono stati esposti al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, all’Angkor Photo Festival, al Visa pour l’Image, presso la War Photo Limited Gallery e la Hannemberg Gallery. A partire dal 2010 si è concentrato sulla crisi migratoria in Europa, producendo il lavoro da cui è tratto Harraga; contemporaneamente ha esteso il suo interesse fotogiornalistico alle crisi internazionali, documentando il colpo di stato in Egitto, la guerra in Siria, Iraq e Ucraina. I suoi lavori sono apparsi su quotidiani e riviste in Italia e all’estero, tra cui: Internazionale, New York Times, L’Espresso, Stern, Io donna, Newsweek, Vanity Fair, Time, La Stampa, Vrji. Attualmente Giulio Piscitelli vive a Napoli. Il suo lavoro è rappresentato dall’agenzia Contrasto dal 2013.