1 / L’origine a Est

A cura di: Antonio Politano

 

Il jet-lag, pur se leggero, fa svegliare presto. Aspetto l’alba alla finestra della camera dell’albergo, di fronte a un totem dell’architettura verticale. La macchina fotografica cattura un passaggio della luce, la punta art-déco del Chrysler ancora illuminata, le ombre e i riflessi sui grattacieli di fronte.


New York, hotel, camera 911, alba dalla finestra. Sulla sinistra, il Chrysler Building © Antonio Politano

Luca Goldoni, glorioso inviato del Corriere della Sera, scriveva molti anni fa, arrivando nella notte a Manhattan: «L’orologio del bus segna le nove di sera, quando lasciamo l’aeroporto Kennedy, ma il mio segna ancora l’ora di Roma e cioè le tre di notte e anche le mie palpebre segnano le tre di notte. Percorriamo le strade di Manhattan, ma non guardo fuori, i miei occhi assonnati non sono degni di un primo incontro con New York. Domattina mi affaccerò al quarantunesimo piano dell’Hilton e allora guarderò in faccia questa città, questa favola di cemento armato raccontata da mille film. È come incontrare una donna che si è conosciuta solo attraverso lettere e fotografie; voglio essere fresco, lucido, pronto alla stupefazione o alla delusione». C’è quasi silenzio, solo rari passaggi di qualche macchina che transita leggera sull’asfalto, il traffico verrà. Ritrovo New York, la stupefazione.


New York, Downtown Manhattan, vista dal Top of the Rock del GE Building, cuore del Rockefeller Center © Antonio Politano

«New York è una città in piedi», raccontava Louis-Ferdinand Céline. «Una città verticale», aggiungeva Le Corbusier. Dall’alto, la visione è una selva. Grigia di nuvole, al mattino. La foto ritrae la metà meridionale di Manhattan, vista dal Top of the Rock del Rockefeller Center, con al centro l’Empire State Building. Un’immagine classica, utile per rappresentare. Misurare la vastità della megalopoli, osservare il territorio di quattro stati vicini. Ed evocare qualcosa nascosto nella memoria, King Kong che si arrampica sull’Empire stringendo nella mano la bionda Fay Wray, nel film del 1933 di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack.


King Kong si arrampica sull'Empire State Building (dal film King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, 1933)

Alcuni considerano la fotografia di Charles C. Ebbets scattata nel 1932 - undici operai seduti, a 244 metri di altezza, su una trave del Rockefeller Center in costruzione - una delle più famose della storia, almeno di quella dell’epopea della crescita di una nazione. Icona e business. Riprodotta su t-shirt, poster, tazze della colazione. Un italiano trasferitosi qui da anni, Sergio Furnari, ha creato delle sculture di diverse taglie, su modello di quell’immagine, per venderle in gruppo o singolarmente. Le espone sul suo pick-up, piazzato in un angolo di Times Square.


Charles C. Ebbets, 1932 © Reuters


New York, Times Square: la scultura di Sergio Furnari che riproduce gli operai in pausa per il lunch su una trave di uno dei grattacieli del Rockefeller Center immortalati da Charles C. Ebbets nel 1932 © Antonio Politano

Rappresentazioni, finzioni che si moltiplicano. A Times Square, per pochi dollari, si può fare una foto-ricordo con la Statua della Libertà. «All’improvviso mi trovai a Times Square. Avevo fatto tredicimila chilometri su e giù per il continente americano, e adesso ero tornato a Times Square; e proprio all’ora di punta, anche, e ai miei occhi innocenti da vagabondo toccava di vedere l’assoluta follia e il fantastico, fragoroso viavai di New York con i suoi milioni e milioni di abitanti che sgomitano instancabili per qualche dollaro» (da Sulla Strada di Jack Kerouac).


New York, foto-ricordo con Statua della Libertà a Times Square © Antonio Politano

La realtà e il suo dolore. Dice lo scrittore Jonathan Safran Foer, autore di Molto Forte, incredibilmente vicino (la storia di un bambino di nove anni che ha perso il padre nel crollo delle Torri Gemelle), che il più spaventoso attacco terroristico della storia statunitense «è emigrato nel subconscio collettivo. L’orrore è ancora presente ma è stato metabolizzato. E la gente vorrebbe rimuoverlo». A Ground Zero hanno terminato il grattacielo che sostituisce le torri, dicono che sia il più alto dell’emisfero occidentale. C’è un monumento per ricordare, cornici di bronzo attorno alle basi delle torri trasformate in piscine con fontane e cascate. Sul bronzo sono incisi i nomi di tutte le vittime. Molti lasciano fiori.


New York, a Ground Zero, attorno alle fontane-piscine costruite sulle fondamenta delle Torri Gemelle, sono incisi su parapetti in bronzo
i nomi delle quasi tremila vittime degli attentati dell’11 settembre 2001 e del 26 febbraio 1993 © Antonio Politano

Ground Zero era un pieno diventato vuoto, un’interruzione nello skyline della città. La prima volta che un film ha mostrato Ground Zero, dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, è in La Venticinquesima ora di Spike Lee, del 2002. Fasci blu nel cielo scuro accompagnano i titoli di testa del film.


La prima volta che un film mostra Ground Zero dopo la tragedia dell’11 settembre 2001
(da La Venticinquesima ora di Spike Lee, 2002)

Downtown Manhattan, vista da Brooklyn, senza più Twin Towers. Il mondo continua a girare. Scene di vita quotidiana, mamme e bambini fanno colazione, una domenica mattina. Giro a piedi, scopro. «La cosa che in assoluto preferiva era camminare. Quasi ogni giorno, che facesse bello o brutto, caldo o freddo, lasciava l’appartamento e girava per la città - mai con un’autentica meta, andando semplicemente dove lo portavano le gambe. New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore» (da Trilogia di New York di Paul Auster).


New York, domenica, colazione con vista: lo skyline di New York, dal Brooklyn Bridge Park, senza più le Torri Gemelle © Antonio Politano

Panchine e panchine. Davanti alla Taqueria Dos Toros: Leonora, ottantenne italo-americana orgogliosa di essere nata e cresciuta - e vivere ancora - a Brooklyn. Jeyfree, arrivata dal Texas, con i suoi bracciali e orecchini. Più a nord, la panchina con vista sul Queensboro Bridge, che unisce Manhattan e Queens, dal film Manhattan di Woody Allen, 1979.


New York, Manhattan, East River: la panchina di fronte al Queensboro Bridge, (dal film Manhattan di Woody Allen, 1979)


New York, Brooklyn: Leonora, 88 anni, “The Queen of Williamsburg”, nata negli Stati Uniti da genitori italiani, e Jeyfree, 28 anni,
texana, designer di gioielli, sono grandi amiche © Alice Politano

Gente, in movimento. Alice, mia figlia, diciannove anni, ama fotografare. Provo a darle, di tanto in tanto, dei consigli. Per esempio, catturare il movimento delle persone nell’atrio di Grand Central Station, con un tempo lungo, piazzando la camera sul cavalletto per evitare il mosso. Iso bassi, esposizione di più o meno un secondo e mezzo, apertura di diaframma media, 24 mm.


New York, l’atrio della Grand Central Station, testimone del periodo d’oro del trasporto ferroviario negli States e nella memoria
collettiva per essere stato in mille film, da Intrigo Internazionale di Hitchcock a Men in Black e Madagascar © Alice Politano

Saliamo, poco prima di mezzanotte, sull’Empire State Building. Suggerisco ad Alice di cercare di cogliere, con il suo 55-300 mm, quella specie di fiume luminoso di taxi e gente che scorre tra le sponde dei grattacieli. 3200 iso, 1/60. «Incominciava a piacermi New York, la sua atmosfera avventurosa durante la notte e la soddisfazione che il passaggio continuo di uomini e donne e automobili procura all’occhio irrequieto. Figure si stringevano nei taxi durante le soste, voci cantavano, arrivavano le risate che seguivano battute non udite, e sigarette accese creavano nell’interno delle vetture circoli indecifrabili. Immaginando di essere anch’io diretto verso l’allegria e partecipando al loro entusiasmo interiore, auguravo felicità a tutti» (da Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald).


New York, uno scorcio della Fifth Avenue visto dalla cima dell’Empire State Building © Alice Politano

Chicago, primo stop dopo New York, o della musica. Portata dai neri, venuti qui a cercar fortuna. Incrociata con quella dei bianchi, classica, moderna. Mix, blues, jazz. Per strada, un ragazzo suona il sax, un modo per finanziare i suoi studi, dice. Da Round Midnight all’inno americano. Con il microfono sulla D800 registro qualcosa, un altro tipo di traccia, utile da affiancare poi a qualche scatto.


Chicago, Street Saxophone © Antonio Politano

Un convoglio della celebre Elevated, la rete ferroviaria sopraelevata, attraversa le vie del Loop, il cosiddetto anello interno di Chicago. A qualche isolato, un cartello incassato tra i grattacieli indica l’inizio della Route 66, luogo di pellegrinaggio e di foto-ricordo, per i più, ma anche di partenza, per pochi che si apprestano davvero a mettersi sulla strada per ripercorrerne un pezzo o arrivare fino in California. «Il paradiso per me?», si chiede Tom Waits: «Mia moglie ed io sulla Route 66 con una tazza di caffè, una chitarra da quattro soldi, un registratore preso dal rigattiere, una stanza del Motel 6, e una macchina in buone condizioni parcheggiata davanti alla porta».


Chicago, la ferrovia sopraelevata che compie un percorso circolare intorno al centro della città © Antonio Politano


Chicago, l’inizio della strada leggenda ormai affogata nella moderna rete di highways e freeways © Antonio Politano

Seguo anch’io quel che è rimasto della Mother Road, ormai ai margini del sistema viario degli States in favore di percorsi più veloci; preservata in alcuni tratti come strada storica, Historic Route 66, tra nostalgia e kitsch, distillati di American style of life. Ogni tanto, una digressione. Un angolo appartato. Come un cimitero militare, nella luce dell’ultimo sole. Highway, freeway e qualche strada blu. Fino a Saint Louis, Missouri. Dove il Gateway Arch, con la sua curva ardita in riva al Mississipi, celebra un altro inizio, quello del viaggio verso il West. Da qui partirono molti, con la speranza di una vita diversa nei territori oscuri e promettenti della nuova frontiera.


Un cimitero militare, non lontano dal percorso storico della Route 66, © Antonio Politano


Il Gateway Arch, conosciuto anche come Gateway to the West, a St Louis celebra la migrazione verso ovest © Antonio Politano

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