Il Maha Kumbh Mela 2013: Allahabad 2

 

Un esercizio del workshop, punti di vista personali, espressi in prima persona per lo più, sull’esperienza di immersione nel Kumbh Mela.


© Giacomo Fè - Una delle tende del gruppo ad Allahabad.


© Antonio Politano - Si lavora su immagini e testi in hotel ad Agra.

 

Molte religioni, una nazione

di Guendalina Sabbatini

Stazione di Allahabad, ore undici del mattino, qualche chilometro dal Kumbh Mela, principale punto di arrivo e partenza per milioni di pellegrini. Vi giungiamo stanchi e frastornati da tre giorni di immersione nel più grande raduno al mondo. Gruppi di persone di ritorno dalla grande festa aspettano il treno per il loro villaggio o città. Alcuni uomini leggono il giornale, altri rimangono seduti a guardarsi intorno. Una donna dai lunghi capelli sciolti crea una treccia nei capelli di una donna anziana, alcune ragazze dai lineamenti delicati ci sorridono, poliziotti seduti parlottano tra loro. Flussi di donne transitano leggiadramente nonostante il peso dei bagagli. Un professore indiano chiede informazioni su chi siamo e da dove veniamo, giovani ragazzi cercano un contatto per comunicare.


© Guendalina Sabbatini - Gruppo di pellegrine si muove con i bagagli alla stazione di Allahabad; è una sfilata di sari vivaci.

Siamo ospiti inaspettati, ma si respira un’aria di tolleranza e accoglienza. Due bambine sedute per terra accanto a noi iniziano una conversazione: «Da dove venite? Noi siamo di Mumbai», la città più popolosa dell'India, la prima per densità di popolazione al mondo. Hanno rispettivamente undici e dodici anni, mi colpisce la bellezza di una e la spigliatezza dell’altra. Si susseguono domande: «Qual è il vostro cibo indiano preferito? Qual è il vostro frutto preferito?». Ad un certo punto la grande delle due chiede: «Credete in dio? Qual è il vostro dio preferito? Il nostro è il dio dell’amore». Dalle parole della bambina si intuisce che le divinità in India sono come personaggi famosi a cui ispirarsi, guide che accompagnano nel tragitto della vita, entità spirituali che si insinuano nella vita quotidiana creando un forte senso di appartenenza.


© Guendalina Sabbatini - "Qual è il vostro Dio preferito?", chiede una bambina di dodici anni, vestita a festa, alla
stazione di Allahabad. Ha partecipato con la sua famiglia al Kumbh Mela e attende il treno che la ricondurrà a Mumbai.

Questo forte senso di appartenenza si avverte nella necessità di rituali; si vede negli occhi dei pellegrini che assistono alle processioni; si sente nelle parole di una guida e nelle domande di una bambina il cui dio preferito è il dio dell’amore; si assapora nel nuotare tra la folla di anime che si mescolano dando vita a un processo salvifico unico. Nuotare tra la folla dà un senso di comunione inspiegabile e fa sentire parte di un qualcosa che non è null’altro che la nostra necessità di abbandonare i dolori, le sofferenze, gli errori nelle acque del Gange, riscoprendo una nuova vita. Per me avvertire scender l’acqua sacra tra i capelli è segno di rinascita, di vita che continua a scorrere. Il treno è in ritardo abissale, anzi forse non arriverà più. Annullato, chissà. Decidiamo di andarcene. Lasciamo la stazione di Allahabad, zigzagando tra la folla. Sulla facciata dell’edificio del capostazione, la scritta Many religions. One nation. Let us be proud of it lascia un insegnamento di tolleranza.

 

Ciò che il Kumbh Mela toglie

di Davide Sciotti

Glenn è un ragazzo sudafricano venuto per assaggiare l'odore dell’India vera. Dopo aver seguito la processione dei naga baba, ed essere arrivato con loro al fiume per il bagno sacro al sorgere del sole, sta tornando al suo alloggio, un campo tendato lontano pochi chilometri. Si perde, l'inglese parlato dai poliziotti non lo aiuta a ritrovare la strada.


© Davide Sciotti - Due donne lavano i panni nel Gange.

Individuata una direzione, inizia a percorrere vie sempre più gremite, fino a trovarsi quasi fermo accanto alla jeep di un baba che, forse un po' in ritardo, cerca di recuperare i colleghi. La folla si inizia a bloccare, lo spazio a diminuire. Animata da mille impulsi tutt'a un tratto concordi, si addensa, entra in contatto con la sua gemella dal verso opposto. Glenn cerca di uscire dalla calca, ma si ritrova immerso nel fango fino al ginocchio, insieme ad altre decine di persone che tentano come lui di portarsi ai bordi della carreggiata. Guadagnato il margine della strada capisce che la situazione non migliora, riesce a farsi accogliere all’interno di un campo tendato dai suoi proprietari. Viene ospitato e rassicurato, non tarda ad addormentarsi.


© Davide Sciotti - Sari tenuti ad asciugare al sole dopo esser stati bagnati nel Gange.

Al suo risveglio la strada è sgombra, può tornare a casa. L’ingresso al campo che lo ha ospitato è distrutto. In un angolo, incorniciata da un’aureola di scarpe spaiate perse da chissà chi, una donna piange su un corpo mal celato da una coperta.

 

Fotografare, prendere, andare via, a volte lasciare

di Giacomo Fè

Il Kumbh Mela, la festa del vaso, il vaso della vita, la vita riunita in un campo, una città fantasma che si crea e si dissolve. Tante vite che si muovono verso la ricerca di qualcosa. Chi cerca di abbreviare le reincarnazioni, chi cerca più adepti per i propri ashram, chi cerca risposte. Ho osservato come un ospite, cercando di assomigliare a un pellegrino, accompagnando i cortei, ricevendo cibo senza nulla dare in cambio, dormendo su cuscini che sono di tutti. Ho intersecato i campi tendati senza dare giudizi, né avendo aspettative, a volte si può avere il privilegio solo di guardare. Ma di questi credenti, come di tutte le persone che calpestano le decine di chilometri quadrati dei campi per il Kumbh Mela, l'unico legame comune che trovo è la dedizione a qualcosa. I fedeli, dediti a raggiungere il Sangam. I medici, dediti a curare un flusso di 110 milioni di indiani. Le mense, che devono dare cibo a chiunque lo chieda. La dedizione di centinaia di volontari, ragazzi aggregati agli ashram, che fanno di tutto perché questa festa dell'induismo scorra.


© Giacomo Fè - Pellegrini in riva ai fiumi sacri, nella notte del Main Royal Bath.

La mia dedizione è stata quella riportare indietro una fotografia. Ogni volta che ho potuto, ho riportato indietro una mia fotografia, incontrando di nuovo quella persona. Chi fotografa in viaggio, per definizione stessa, prende molto e poi va via. Non è stato difficile ritrovare quel baba, fotografato in un'altra parte dell'India, molto più a sud, qualche anno fa, ma il Kumbh Mela ne riunisce molti ed ero sicuro che ci sarebbe stato. Il ragazzo dell'Himachal Pradesh, che esibiva con onore il suo tesserino di volontario, mi avrebbe accompagnato. «È qui dentro», mi dice, mentre guardo la tenda che indica, una come tante, stoffe pesanti grigie, tenute da corde. L'unico segno che un baba è dentro è il fuoco sacro con le ceneri che arde piano davanti. Entra, parla con il baba. Dopo mi fa segno di entrare.


© Giacomo Fè - Amar Bharti Baba o Babaji come lo chiamano gli indiani. Nel 1973 ha fatto il voto di tenere il braccio destro alzato,
senza abbassarlo più, e così è rimasto fino a oggi, con la mano mummificata per la difficoltà di circolazione e le ossa calcificate
per l’assenza di movimento.

Amar Bharti Baba, o Babaji come lo chiamano gli indiani. Una breve conversazione, domande su conoscenti, una conversazione normale. Le nostre facce sono le stesse di due anni fa. Il tempo è sospeso, qualcosa blocca le lancette dell'orologio. Il cerchio del ritratto che porto in tasca è chiuso nel momento in cui lo porgo a Babaji. Lui si guarda nel ritratto, serio, incuriosito, accenna un sorriso. Mi ringrazia e la mette tra le sue cose, viaggerà con lui ora. Con la tenda aperta, adesso ci sono troppi fedeli che vogliono la benedizione di Amar Bharti. Mancano poche ore alla sfilata per il Sangam, lo lascio, dicendoci arrivederci. Cercavo anche una fotografia al Kumbh Mela, la fotografia dell'India, ho corso per raggiungere il Sangam con i naga baba mentre l'esercito sfollava la folla impazzita, ho dormito nei loro campi, ma non ho trovato quella foto. Forse questa volta la mia foto dell'India l’ho trovata alla stazione di Allahabad, dove ho visto una bambina mostrare la foto appena scattata con il Blackberry a un baba che tornava verso il suo tempio.

 

Thanks for the gift

di Giulia Zanetti

L’India, si sa, è un mondo a parte. E il Kumbh Mela è un mondo a parte nell’India. Ad Allahabad, in occasione del Kumbh Mela, nasce nella piana di sabbia attorno alla confluenza di tre fiumi una sconfinata città che accoglie i pellegrini. Ci sono strade, luoghi di interesse e zone ricche e povere. Per i viaggiatori fotografi orientarsi e capire quali sono le diverse realtà e le dinamiche che compongono questo grande evento è fondamentale. Il Kumbh Mela può sembrare inizialmente un enorme circo ma in realtà quello che mi porterò dentro per sempre sono le persone. La gente semplice. Gli incontri capitati per caso, per strada, quelli che arricchiscono e quelli che raccontano la propria vita in un minuto, difficile o meno che sia. Quando si parla di folla o di gente spesso di perde la dimensione personale della cosa. Spesso non ci si ferma a pensare che quella massa infinita di persone è in realtà composta da milioni di piccole storie speciali.


© Giulia Zanetti - Negli accampamenti dei baba, nella notte del Main Royal Bath.

La folla. Dopo questa esperienza per me questa parola ha assunto un significato forte. Al ritorno dal bagno reale fiumi di persone riempivano le strade. Ci siamo trovati davanti un muro umano. Era impossibile muoversi in qualsiasi direzione. Con le macchine fotografiche il tutto era ancora più complicato e l’unico pensiero era “non devi cadere, non devi cadere”. Per nostra fortuna una grossa pozzanghera di fango, probabilmente la causa di questo ingorgo, ha permesso di arrivare fino al lato esterno della strada. Qui da oltre le barricate di un ashram sono sbucati due occhi neri e profondi che hanno accolto il nostro appello di aiuto. Un giovane ci ha permesso di entrare, mettendoci in salvo. Mohit Shukla, venticinque anni, forse un assistente di uno dei baba dell’ashram, dall’inglese essenziale. In pochi minuti la strada è diventata un enorme mare in piena di persone. Le barricate di latta si dilatavano tra urla e spinte di quelli che venivano spinti dal peso della folla. Al di là della barricata, ci sentivamo dei privilegiati ma tutto questo peggiorava ancora di più il nostro stato d’animo. Con quelle persone fino a pochi istanti prima avevamo gioito, scherzato, scambiato saluti profondi. E all’improvviso le persone sono diventate folla e noi avevamo il terrore che la bolla scoppiasse e ci travolgesse a nostra volta. Sono stati momenti di estrema tensione. Immagini forti hanno riempito i nostri occhi e le nostre anime. Bambini sollevati al cielo per non essere travolti e piccole donne anziane perse al di sotto della superficie.


© Giulia Zanetti - Una delle bande musicali che accompagna i cortei dei baba aspetta il proprio turno, nella notte del Main Royal Bath.

L’istinto diceva di lasciare tutto, attraversare l’ashram inoltrarsi tra le tende e uscire dall’altra parte. Ma la realtà era che eravamo stati salvati da un gruppo di persone dei quali nessuno parla inglese. Nel caos totale abbiamo cercato di farci forza e mantenere la calma adattandoci alle loro regole. Ci hanno salvato e noi in quel momento abbiamo fatto di tutto per dimostrargli gratitudine e rispetto. Abbiamo condiviso cibo e acqua, mentre la folla continuava a premere sulle barricate. Le lunghe dita nodose del santone hanno tirato fuori dalla polvere quattro biscotti che abbiamo prontamente mangiato. Ci sentivamo impotenti e ci siamo rifugiati sotto l’ala di un baba, fidandoci di un sacerdote di una religione a noi sconosciuta, di un mondo lontano anche solo dal nostro modo di pensare e di vivere. Una situazione delicata vissuta tra fragili equilibri umani, linguaggi del corpo e piccoli gesti carichi di significato. Fuori l’esaltazione, la religione e la vita avevano portato a un assemblamento incontrollabile di persone che stava per travolgerci con tutta la sua forza mentre, all’interno dell’ashram, una surreale atmosfera serena e sospesa circondava le persone che ci avevano salvato. Ma in fondo l’India è così, una partita che finisce sempre pari. Prima sconvolge, delude, rattrista e quando si pensa di non farcela qualcuno è pronto a dare una mano. Un attimo dopo può stupirti e conquistarti. L’immensa umanità, sia negativa che positiva vissuta in questa occasione, ci ha insegnato a non arrenderci, ad affidarsi ad altri, soprattutto se sei l’ospite e colui che non conosce la possibile portata delle situazioni. Ci ha insegnato a controllare di più la paura e a lottare uniti per uscirne. Dopo circa un paio di ore la situazione di emergenza si è ricomposta, permettendo di rientrare al campo. Mohit Shukla ci ha accompagnato vicino alle nostre tende, per ringraziarlo gli abbiamo regalato un paio di occhiali da sole. La cosa paradossale è che ancora sconvolti, dopo nemmeno un’ora, abbiamo ricevuto una mail dal nostro salvatore. Da uno dei migliaia di ashram sperduti in mezzo alle 30 o 35 milioni di persone di quel giorno, nel caos più totale, è riuscito a collegarsi alla rete e scrivere quattro parole per noi piene di significato: thanks for the gift. In silenzio abbiamo tutti e tre pensato: grazie a te per averci salvato.

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