Ferdinando Scianna è uno dei più celebri fotografi italiani. A Lucca fino all'1 ottobre la Fondazione Centro Studi sull'Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti gli dedica una vasta antologica (dopo quelle dedicate a Man Ray e a Gianni Berengo Gardin): Ferdinando Scianna fotografie 1963-2006. Nella mostra sono documentati gli oltre quarant'anni di attività di Scianna, suddivisi in diverse tematiche: la sua Sicilia, il mondo dei bambini, gli amici e i maestri fotografi, i ritratti femminili (da Monica Bellucci a Ornella Muti, da Marpessa a Lea Padovani).
Budapest, 1990 © Ferdinando Scianna
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Scianna, a proposito di uno dei suoi libri più famosi, Quelli di Bagheria, citando l'amico scrittore messicano Federico Campbell, dice che «Ricordare è lo stesso di immaginare; così raccontando un proprio tempo, uno lo trasfigura, lo immagina: letteralmente "lo racconta". E poiché il racconto è fatto di cose che si eliminano inconsciamente e di cose che si valorizzano, è sempre molto arbitrario, come lo è ogni gesto letterario. E ancora sulla fotografia e la "memoria": Le fotografie non restituiscono "ciò che è stato", piuttosto ripropongono in una sorta di lancinante presente ciò che non è più». Per l'occasione proponiamo l'intervista realizzata nel 2003 da Davide Borsa, Ivan Friande, Agnieszka Kurylowicz, Nadia Probst, Patrizia Ruggiu, redatta da Andrea Bonfanti e Gregory Catella.
Che influenza hanno avuto le sue origini sul suo lavoro?
È come se tu domandassi a un pomodoro, frutto di una pianta cresciuta su un'isola greca – per non parlare ancora una volta della Sicilia – con l'acqua e con il sole, senza anticrittogamici, se il suo sapore è stato influenzato da questa origine; e se tu facessi la stessa domanda a un pomodoro che è stato prodotto in serra da qualche altra parte. Inevitabilmente questa origine ha influito sul suo modo di essere; e se influisce sulla natura di un pomodoro, figurati sulla natura di una persona!
Palermo, Monica Bellucci, 1997
© Ferdinando Scianna
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Cosa vuole trasmettere a chi guarda le sue fotografie?
Che cosa vuole trasmettere uno che vive? Non è una domanda che riguarda solo i fotografi, ma tutti gli uomini. Siamo uomini per la semplice ragione che a un certo punto dell'evoluzione qualche cosa ci ha dotato di un linguaggio.
Il linguaggio è la cosa che ci contraddistingue. Contrariamente agli altri esseri viventi, infatti, noi non solamente sentiamo, ma abbiamo cominciato a pensare, e pensiamo e sentiamo attraverso un sistema complesso, che chiamiamo coscienza e che si esprime attraverso il linguaggio. Non è quindi possibile avere coscienza ed essere uomini, quindi pensare, sentire e utilizzare il linguaggio senza volere comunicare.
La nostra natura profonda ci spinge a volere comunicare. Si vuole comunicare quello che si è, quello che si sente, si cerca di appropriarsi dell'altro e che l'altro si appropri di noi. È la vita, è lo scambio, è il senso stesso del vivere. Non ho messaggi, se è questo il senso della domanda. O meglio, tutti abbiamo dei messaggi; ma questi cambiano, perché cambiano le nostre opinioni, cambia la nostra età, abbiamo delle visioni del mondo che evolvono, ecc. E noi ci confrontiamo con gli altri. Adesso mi confronto con voi che siete molto giovani, ed è chiaro che il mio comunicare ha qualche cosa che insieme alla vanità si declina attraverso la nostalgia di un tempo in cui le domande erano più numerose di quante non siano adesso. Non che io adesso abbia più risposte, però ho delle risposte che somigliano più che altro a delle domande inevase, e una certa stanchezza, anche, di porre domande per le quali sento l'esigenza assoluta di risposte. È chiaro quindi che io parlo con voi in maniera diversa da quella in cui parlate fra voi, per rapporto alla vostra situazione storica, culturale ed esistenziale.
Mimmo Palatino, 1990 © Ferdinando Scianna
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Il suo rapporto con Sciascia?
Una delle cose migliori della mia vita. Certo, la fortuna, forse, è anche una cosa che uno si cerca. Se volete farvi investire da un'automobile meglio non frequentare i viottoli di montagna, perché lì non passano. È anche vero che, pur avendo io la vocazione della cozza, o dell'ostrica, che quando trova una roccia che vale la pena abitare io lì mi attacco ed è difficilissimo scrostarmici, la mia fortuna è stata straordinaria: che nella mia prima giovinezza il caso mi abbia portato a incontrare quest'uomo e che sia scoccata tra di noi, misteriosamente da parte sua nei miei confronti, una simpatia che si è trasformata in un rapporto quasi padre figlio. Da quell'incontro sono nate talmente tante cose che sono difficilissime da valutare, da sciogliere anche, perché le influenze che un uomo con cui hai una relazione profonda può avere nei tuoi confronti non dipendono soltanto dai libri che ha scritto, dalla sua intelligenza, o dalle cose che ti ha detto. Il fatto è che ti ritrovi di fronte a una personalità straordinaria, con straordinarie capacità espressive, una sterminata conoscenza storica, una visione della vita talmente complessa che, per il tipo di rapporto di amicizia che vi lega, ti comunica tante cose, soprattutto ti fa intuire un criterio di identificazione della qualità. Sciascia non mi ha per esempio mai detto: "Leggiti questo libro", non mi ha mai fatto un piano di studi, per dire. Ma Sciascia era di fatto una specie di biblioteca vivente; parlava talmente tanto dei libri, delle cose lette, delle idee, e le collegava in maniera tale che c'era di che riempirci dieci casseforti. E io ammassavo. Ancora oggi mi capita di spulciare in certi rigattieri o in librerie antiquarie, e di trovare un libro di cui avevo sentito parlare da lui e che non ho mai letto e leggendolo vi trovo tante ragioni e tanti tesori e tanta continuità con il suo insegnamento.
Parigi, 1975 © Ferdinando Scianna
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Ma il rapporto con quest'uomo non era soltanto relativo alle sue qualità di intellettuale. Sciascia, infatti, possedeva il dono rarissimo di rimanere sempre se stesso. Quasi tutti noi, in un modo o in un altro, ci portiamo addosso una maschera. Io sono troppo gigione per non voler sedurre facendo le battutine, o parlando con verve, o cose del genere. Tutti noi cerchiamo di indossare lo smagliante abito di Arlecchino, quello più gradito agli altri, o quello che corrisponde all'immagine di noi che vorremmo gli altri avessero. Siamo sempre su un palcoscenico, in un modo o nell'altro recitiamo. Sciascia non era così, lui era sempre se stesso; che parlasse con un contadino o con me, che facesse un intervento al parlamento o una conferenza, che cucinasse il baccalà con le olive o che andasse a raccogliere un po' di gelsomini e li mettesse in un fazzoletto perché rimanessero freschi e io potessi portarli a Paola a Milano. Sciascia era fatto di tutte queste cose, di una serie di acutissime lame intellettuali per sondare la realtà e insieme di delicatezze umane straordinarie. Sono convinto che il poco di buono che ho combinato nella vita in gran parte lo devo a lui e a quello che ho succhiato dagli altri, e non sono pochi.
A proposito di Cartier-Bresson, lei ha detto: "da lui la tradizione di cui mi sento figlio, magari degenere", che cosa intendeva?
Degenere è naturalmente una formula retorica, ma non tanto, di umiltà, di modestia. Mi considero un epigono di quella tradizione, e quindi spero sempre di non tradirla troppo. A volte mi domando addirittura se non sto partecipando alla trasformazione di una tradizione in un'accademia.
Martin Scorsese, 1990 © Ferdinando Scianna
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Ha collaborato con molti professionisti affermati, ce n'è uno in particolare che invidia?
Ce ne sono moltissimi che ammiro. Invidia è un peccato che non mi piace. Leonardo Sciascia diceva che tra i peccati capitali gli sembrava il più stupido: perché uno, che so, la lussuria se la gode, la gola se la gode, ma l'invidia se la soffre. A essere invidiosi che cosa ne ricavi? È un peccato stupido. Non fa parte del mio orizzonte. Quando vedo una cosa che mi piace fatta da qualcun'altro, la cosa mi stimola, mi fa venire voglia di provarci anch'io. Certo non è sempre così: magari mi deprimo o mi entusiasmo, ma non invidio. A volte mi deprimo, penso: non ce la farò mai a fare cose così belle, così buone. O invece mi eccito e penso: beh, ci provo anch'io, vediamo. Credo che l'invidia sia un atteggiamento caratteristico dell'adolescenza, età nella quale si pensa che uno debba o possa fare quello che vuole – e a volte si rimane adolescenti fino a novant'anni. Nasce da una sorta di frustrazione che si potrebbe esprimere così: sono un disastro, volevo fare meraviglie e ho prodotto porcherie.
Leonardo Sciascia, 1964 © Ferdinando Scianna
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Poco a poco, maturando, uno capisce che il suo compito è di impegnarsi a fare quello che può fare, di investire cioè la sua volontà per utilizzare al meglio e al massimo il suo talento e la sua disciplina. Non è che puoi fare quello che esorbita il tuo talento e le tue capacità, anche fisiche. È come se io invidiassi il campione del mondo di sci perché ha vinto lo slalom gigante: io che non so neanche sciare! Non fa parte del mio orizzonte, oppure non fa parte delle mie possibilità. Questo vale anche per l'attività espressiva.
Alla fine, quello che conta in ciò che ha fatto o fa un uomo, che si tratti di cucina, di fotografia o di letteratura, di agricoltura o commercio è di mettere la propria serietà, la propria disciplina, al servizio del talento che la vita o il destino gli hanno dato, in modo da utilizzarlo al meglio.
Quando hai fatto questo, hai assolto il tuo compito.
Come vede il suo futuro?
Male. Lo vedo male. Insomma, inauguro questa mostra praticamente lo stesso giorno dei miei sessantatre anni. Lo vedo breve, pieno di dolori di schiena e di ginocchia, di diete salutifere e di donne indifferenti.
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