Da nord a est, dalla Scozia al Giappone + A sud, Calabria & Campania
Le visioni condivise di questo numero sono tre. Un lungo viaggio da nord a est remoti, due immersioni in sud vicinissimi. Luca Sciortino ci ha proposto di raccontare il suo viaggio dalla Scozia in Giappone, un diario per immagini di un itinerario senza prendere aerei lungo 23 mila chilometri. Patrizia Giancotti ci ha contattato per presentare il suo lavoro sulla porzione più meridionale della nostra penisola, la Calabria greca, dove ha realizzato un libro per il Gal (Gruppo di azione locale) dell'area grecanica. E, a proposito di Gal, abbiamo aggiunto un lavoro realizzato da Antonio Politano per un’associazione di Gal nei cosiddetti villaggi della tradizione della Campania, tra vita quotidiana, ruralità, paesaggi dietro l’angolo.
Iniziamo dal viaggio più lontano. Scrive Luca Sciortino, «nel luglio 2016 ho terminato la mia Fellowship all'università di Leeds, dove lavoravo come ricercatore in filosofia. Per dedicarmi alla ricerca e all'insegnamento avevo preso un'aspettativa di un intero anno da Panorama, così avevo ancora a disposizione alcuni mesi liberi. Ho deciso quindi di partire per un lunghissimo viaggio dall'isola di Skye, in Scozia, fino a Tokyo, in Giappone.
E in agosto sono partito. Le domande che ispiravano il mio viaggio avevano una forte venatura filosofica. Volevo capire come cambiavano le culture lungo il continente euro-asiatico. Che cosa è relativo all'Europa o all'Asia? E che cosa c'è di costante attraverso migliaia e migliaia di chilometri? Se la parola “umano” vuol dire qualcosa, che cosa la definisce? Quando comincia l'Asia e quando finisce l'Europa? Quali punti di discontinuità geografici, culturali e sociali incontra un uomo che attraversa tutta l’Europa e tutta l’Asia con ogni mezzo e senza un piano preciso?
La fotografia è stata cruciale per comunicare le risposte parziali che trovavo lungo la mia rotta di circa 23 mila chilometri. La mia regola era non prendere aerei e viaggiare attraverso il Kazakhstan e la Mongolia evitando gran parte dei treni transiberiani. Ho attraversato Scozia, Inghilterra, Francia, Slovenia, Ungheria, Ucraina, Russia Caucasica, Kazakhstan, Siberia del Sud, Mongolia, Deserto del Gobi, Cina, Giappone. Mentre i paesaggi e i volti umani che incontravo cambiavano, io fotografavo gesti simili: la mamma che aggiusta il cappellino al bimbo a Kiev, ma anche quella che ripete lo stesso gesto ad Almaty, il nonno che sorride al nipotino in un hutong a Pechino ma anche quello nelle strade di Kyoto, i bimbi che giocano nelle strade di Irkutsk in Siberia ma anche quelli di Longshen nel sud della Cina.
Le mie fotografie rivelano bisogni, desideri e sentimenti che accomunano popoli dalle storie diversissime. Rivelano anche come gli oggetti possono restare gli stessi, ma i popoli possono usarli per scopi diversi a seconda delle loro esigenze di adattamento. Così le mie foto del muro di Adriano documentano come i Romani usavano le pietre locali per difendersi dalle incursioni dei cosiddetti “barbari”. Le foto della muraglia cinese raccontano invece come le varie dinastie succedutesi in Cina usavano le pietre locali non tanto per difesa, ma per costruire un'identità geografica e culturale che mancava.
D'altra parte, ho usato la macchina fotografica per rivelare le marcate differenze lungo il mio cammino. Per esempio, ho documentato, spesso da treni in corsa, come le vaste distese di betulle ucraine e russe si trasformano in steppa e come poi la steppa si trasforma in deserto. Selezionavo un tempo di esposizione breve e scattavo per rivelare come la latitudine rendeva diverse le pianure e come queste differenze determinavano strategie diverse di adattamento. Oppure, le mie fotografie rivelano le differenze fenotipiche delle popolazioni dall'Europa al Giappone.
Attraversando il continente euroasiatico la mia esigenza di fotografare è stata anche dettata da un'esigenza di denuncia. Per esempio a Yangshuo ho scattato foto dentro una sorta di mercato-scannatoio in cui vi erano cani e gatti appesi e scuoiati, e altri che aspettavano di morire annusando la morte intorno a loro. Oppure a Ulanbator e Pechino ho mostrato l’enorme dislivello tra i ricchi e i poveri. In Europa, in uno spirito più da fotoreporter e meno da studioso sono entrato nel campo profughi di Calais per documentare le condizioni di vita di persone che avevano perso il proprio passato, tanto che alcuni di loro non avevano notizie della propria madre da anni, e che vivevano in un limbo senza un futuro certo. Penso che sarà la scrittura a rivelare i miei pensieri e le mie emozioni. Ma sono le mie fotografie a raccontare, in un linguaggio universale, quel sorprendente e vasto paesaggio naturale e umano lungo la mezza circonferenza del globo che ho percorso».
Dall'approdo in Oriente di Luca Sciortino a due sud d'Italia, Calabria e Campania, raccontati da Patrizia Giancotti e Antonio Politano. Cominciamo dal sud più sud. Scrive Patrizia Giancotti, fotografa-antropologa, «mi sono sempre occupata di popoli lontani, che fossero sciamani del Mato Grosso, danzatrici del Benin, cercatori di smeraldi o sacerdotesse di Bahia. Con sguardo partecipante, una borsa di tela marrone collaudata al trasporto di parecchi chili di ferro, contenente un paio di corpi Nikon, quattro obiettivi, trenta rullini contati, andavo sola, lontano. Distante anche da quel foculari di fronte al quale, quando avevo sedici anni, la zia Caterina mi cantava le sue canzoni in dialetto, “donna da li capidhi inanellati, trema la terra quando li sciundìti”, e mi indicava, dalla fiamma di quell'entroterra calabrese, la strada universale dell'antropologia.
Questa volta, invece, con la stessa attitudine esplorativa di quando stavo tra gli Yamomami, ho risposto al richiamo di una Calabria che conoscevo poco, dove c'è chi parla e coltiva l'antica lingua greca dei pastori, dove si è ripreso il culto di rito bizantino, dove quasi tutti sanno suonare uno strumento e persino i bambini portano nel corpo il sapere introiettato degli antichi gesti e passi di danza dei loro avi e dove viene praticata la filoxenìa, attitudine umana opposta alla xenofobia, l'accoglienza come la intendevano ai tempi di Ulisse. È la Calabria Greca, undici comuni e numerose frazioni, il sorprendente Finis Terrae d'Europa che si affaccia allo Stretto, punto d'arrivo e nuova partenza. Il Gal (Gruppo di Azione Locale) dell'area grecanica ha voluto coinvolgermi in uno dei suoi ambiziosi progetti, invitandomi infine a raccogliere le esperienze di antropologa-fotografa in un libro (Filoxenìa - L’accoglienza tra i Greci di Calabria, Rubbettino) che ora fa parte della collana del Parco Culturale della Calabria Greca.
Così, armata macchina fotografica e registratore, eccomi lasciare la litoranea 106 e il suo groviglio di cemento incompiuto e meraviglie per risalire sulle montagne, seguendo le strade, che come i denti di un pettine, portano a inaspettati mondi paralleli, a un paese e a un uomo che racconta la sua storia. Salendo si ribalta anche il consueto punto di vista: guardatelo da quassù, il mare, piantate radici sopra i mille metri e da lì tuffate lo sguardo nel Mattino della Creazione, fino a trovare sponda in Sicilia, scavalcare il vulcano pieno di fuoco e di neve e ripartire per l'infinito. Un'immersione totale nella Calabria Greca, la mia, che è durata quasi un anno, passato percorrendo da sola, a piedi o in automobile, i territori che vanno da Melito Porto Salvo a Brancaleone, i paesi di Bova, Bagaladi, Palizzi, Staiti, Condofuri, Gallicianò, Roccaforte del Greco. “Povero me, alla terra di quali uomini sono arrivato? - mi suggeriva Ulisse che vedeva nell'ospitalità il principio etico essenziale per distinguere l'uomo giusto da quello iniquo - Sono forse violenti, selvaggi e senza giustizia, o sono ospitali e nella mente hanno il rispetto degli Dei?” (Odissea – 6, 119-121). Chissà?
E infatti, bastava che sporgessi la testa all'interno di una porta dalla quale proveniva la musica di un organetto, per essere immediatamente invitata a entrare: "Trasìti, trasìti, mangiati cu’ nnui oje avimu pasta e ciceri". Senza neppure sapere il mio nome, già mi si presentava il piatto del giorno, il bicchiere di vino nuovo, il pane appena sfornato, le olive schiacciate, i pomodori seccati al sole di agosto, un modo antico di consacrare l'incontro attraverso il cibo, in uso quando si rendeva omaggio all'ospite sconosciuto, ma anche alla divinità che avrebbe potuto eventualmente nascondersi in lui: non lo conosco, potrebbe essere chiunque, anche un Dio. E insieme al pasto e al vino, si condivide il racconto che accomuna, e si smette di essere “forestieri”.
Persone incontrate per strada, tra gli ulivi sul crinale di una montagna, come Bruno Spanò che mi parla di olio, amore e maluocchiu. Oppure persone cercate come il professor Domenico Minuto eminente bizantinista, preside, insegnante di greco, che a Reggio Calabria negli anni sessanta si accorse che alcuni ragazzi conoscevano già il vocabolario. E poi, Tito Squillaci, medico pediatra di Bova, volontario in Africa e nell'emergenza migranti, da anni si prende cura della lingua greco - calabra, utilizzandola anche come idioma esclusivo per comunicare, fin dalla nascita, con le sue tre figlie. A Bagaladi, sulla fiumara del Tuccio, il racconto dei pastori si mischia al sapore della ricotta appena fatta. Alcuni di loro somigliano pure a “qualche dio greco”, come scriveva Alvaro in Gente in Aspromonte, per il dominio che hanno sui precipizi e per senso di libertà.
Facce che sono paesaggi e paesaggi che sono stati d'animo, come lo è la fiumara di Amendolea, un deserto pietroso da santi visionari che taglia le montagne, che può dare “spaesamento, incanto, inquietudine”, scrive l'antropologo Vito Teti, o può farci sentire orgogliosamente affini, perché in essa riconosciamo i contorni di certi nostri indicibili paesaggi interiori. Alla fine, come sempre e in ogni luogo del mondo, ci si accorge che il racconto di questa piccola realtà greco-calabra, ci parli in verità di tutti gli uomini, non solo di “questi”. E anche quanto questa attitudine alla greca filoxenìa, sia sempre più necessaria, un drammatico spartiacque tra chi è “senza giustizia”, come temeva Ulisse, e il genere umano propriamente detto».
Venendo alla Campania, Antonio Politano ha realizzato un racconto fotografico nella costellazione di antichi borghi, frazioni e villaggi, di cittadine e aree rurali che si estende dietro le piccole, medie e grandi città campane, su sollecitazione di cinque Gal regionali (Casacastra, Partenio, Colline Salernitane, Cilsi, Serinese Solofrana). Di seguito, alcune sue descrizioni di luoghi e incontri.
«Nel Cilento ulivi dappertutto, lo diceva già Ungaretti. “Ulivi, sempre ulivi! In mezzo, sono ulivi sparsi come pecore a frotte”, scriveva nel 1933 il poeta. A raccogliere sono aziende, cooperative, famiglie; la dimensione commerciale e la tradizione di fare l'olio per sé. Terra di Resilienza è una cooperativa nata a Morigerati che si occupa di agricoltura sociale, produzioni agricole di qualità, turismo esperienziale e sviluppo locale; laureati che hanno scelto di tornare indietro a fare i contadini contemporanei, tentando una sintesi tra faber e sapiens, zappa e computer, come piace dire loro.
Per i castagneti che la circondano, Cuccaro Vetere è una delle capitali cilentane della castagna; se ne raccolgono 5 mila quintali l'anno, lavorati da tre cooperative locali. Un altro elemento di richiamo - anche se un po’ nascosto - è il “legno santo”, conservato dalla Congregazione delle Ancelle di Santa Teresa di Gesù Bambino, nata negli anni Trenta proprio a Cuccaro e oggi presente anche in Brasile, Madagascar, Perù e Francia. Si narra che la reliquia della santa croce di Cristo arrivò a Cuccaro insieme a dei monaci basiliani di ritorno dalla Terra Santa, che qui fondarono un proprio convento, con l'aiuto economico dei nobili Sanseverino, perché lessero come un segno divino la caparbietà con cui i loro muli vollero sostare a Cuccaro.
Irpinia. Paesi nati attorno a castelli che dominano valli fluviali, roccia vulcanica, giacimenti minerali. Viti che tappezzano colline. La cultura del vino, la tradizione viti-vinicola. Se c'è un posto dove incrociare lo spirito del luogo è Tufo, in posizione strategica sopra la curva del fiume Sabato. Anzi le cantine Di Marzo, magari in compagnia di Ferrante Di Somma attraverso la teoria di gallerie, passaggi e ambienti ricavati al di sotto del palazzo di proprietà della sua famiglia. Tra botti e cisterne, assaggi dei suoi vini, «il Greco deve essere nervoso, una lama tagliente» dice. Il sapore gli viene anche dallo zolfo presente nelle stratificazioni del terreno, spiega. Papa Paolo III Farnese lo trovava così buono che lo usava addirittura per lavarsi, confida. Il Greco di Tufo, bianco DOCG, è prodotto in otto comuni dell'area. Il suo successo ha portato benessere e allontanato l'emigrazione.
Il colpo d'occhio di Calitri, dalla base della collina su cui è arroccato il paese, risveglia la categoria del pittoresco: monasteri, chiese, palazzi principeschi e nobiliari, case dalle facciate colorate di giallo, grigio, rosso, celeste, si affiancano e sovrappongono, come tessere di un mosaico, pezzi di Lego. A esercitare bene l’occhio, ci si accorge che anche qui i terremoti hanno colpito duro. Si intravedono crolli, cantieri, ricostruzioni. Il pittoresco attrae turisti, anche stranieri, soprattutto da nord; alcuni hanno comprato case, contribuendo alla chimica nuova della vita del paese. Qualche anno fa, una giuria internazionale ha eletto Calitri quinto paese, al mondo, e primo, in Italia, dove i pensionati vivono meglio. Le porte nascondono a volte ambienti ricavati nella pietra, che ospitano grotte per conservare e far stagionare salumi e formaggi, fare il vino.
Girare per villaggi è anche un modo per andare sulle tracce di una società rurale e riconoscerne ogni tanto dei pezzi. Come per esempio, ad Aterrana, frazione di Montoro, dove l'abbondanza di materie prime - il legno per costruire e le castagne da commerciare - aveva creato ricchezza nei secoli e favorito la costruzione di palazzi, case, botteghe. Nel borgo alcuni edifici hanno ancora la struttura tipica con il palazzo a corte accanto all’abitazione rurale, attorno a un cortile comune con il pozzo al centro; all'esterno, una scala a una rampa fino a una piccola loggia che dà sulla porta dell’abitazione. Alessio Trerotola, organettista di valore, lo sceglie per un piccolo saggio di musica tradizionale. Ad Aterrana una wi-fi zone copre l'intero villaggio, per rilanciare l'identità con la tecnologia, segnalare percorsi turistici e dare informazioni sul territorio. Borgo antico, totalmente digitalizzato; quasi un ossimoro. Elogio della lentezza, ma 2.0».
Alterna il lavoro di giornalista di Panorama con quello di ricerca in epistemologia. Ha vissuto a Londra e Leeds (UK) e viaggiato moltissimo per lavoro e per passione. Nella seconda metà del 2016 è andato dalla Scozia al Giappone senza aerei attraverso le steppe dell’Asia Centrale. La fotografia è una delle sue passioni insieme alla filosofia e alla scrittura. Ha pubblicato articoli su prestigiose riviste nazionali e internazionali e vinto premi di scrittura come il premio Voltolino. Fotografa per comunicare le sue esperienze e idee.
Panorama - Luca Sciortino
Antropologa, scrittrice, autrice e conduttrice per Radio 3 (Wikiradio, Passioni), ha iniziato a fotografare a 14 anni, pubblicando più di cento reportage e realizzando oltre cinquanta mostre fotografiche in Italia e all’estero, l’ultima delle quali nei Saloni del Palazzo del Congresso Nazionale di Brasilia. Particolarmente attenta ai temi e ai percorsi del sacro, alla cultura dell’alimentazione e alle tradizioni popolari, si è occupata a lungo di sciamanesimo amazzonico e di culti afro-brasiliani. Docente di antropologia storica presso l’Università S. Freud di Milano, realizza corsi e seminari in ambito universitario. Testimonianze, voci e paesaggio sonoro della Calabria Greca sono diventati un ciclo di racconti radiofonici, ideato e condotto per Radio 3 Passioni, dal titolo Volti e voci della Calabria Greca, riascoltabile dalla pagina web del programma.
Passioni - Radio 3 Rai