La storia delle persone è importante
In occasione di The Larry Towell Show, la retrospettiva europea dedicata da Cortona On the Move a Larry Towell, Sguardi ha intervistato a lungo il grande fotografo canadese, membro dell'agenzia Magnum, narratore multiforme, poeta, scrittore, musicista. Un'opportunità per esplorare i suoi lavori più intimi e personali, sulla sua famiglia o sulla vita dei Mennoniti, fino ai reportage in zone di conflitto, dal Salvador alla Palestina.
«Nello sguardo e nella visione di Larry, a casa come in guerra, non mancano mai l'attenzione e la compassione», ha scritto Arianna Rinaldo, direttrice artistica di Cortona On the Move. «Le persone sono importanti, la loro storia è importante. E chiaramente è questo che gli interessa raccontare. I diritti umani, l’ingiustizia, il disagio sociale, la disinformazione, gli squilibri di potere, le migrazioni e la resistenza sono i temi che hanno fatto nascere le sue storie e continuano a ispirarle. I concetti di identità e perdita, amore e famiglia, terra e sua mancanza sono al centro della sua visione. L'impegno a lungo termine che dedica alla conoscenza profonda delle persone e dei luoghi è uno degli aspetti chiave del suo lavoro. Rispetto e attenzione sono parte della sua dialettica. E la forte presa di posizione sui come e sui perché, trasforma le sue immagini poetiche in manifesti per la giustizia e la speranza».
Sul tuo biglietto da visita c’è scritto “Larry Towell, Essere Umano”. La prima cosa che si trova sul web, quando si cerca il tuo nome, è questa definizione su Wikipedia: “Larry Towell è un fotografo canadese, un poeta e uno storico orale”. Sei anche un musicista. Chi è, quante cose è Larry Towell?
Ho studiato arti visive alla York University di Toronto, ho studiato pittura, disegno, arte concettuale e storia dell'arte. E poi, quando mi sono laureato, ho deciso di imparare a scrivere. Sono andato in India e ho fatto un po' di volontariato. Volevo assorbire quel lavoro, assimilarlo, così ho costruito una zattera e ho vissuto su un fiume, da solo, per due anni e mezzo, come un eremita. E ho cominciato a scrivere poesie, pessime poesie se posso aggiungere. Ma era un tentativo di narrazione. Non era niente di lineare né di didattico. Ero anche un cantautore, come sono tuttora. A volte scrivo canzoni quando sono sul campo, o spesso quando sono a casa, da solo. C’è una capanna dietro allo stagno, dove posso starmene da solo e passarci la notte. Passo un sacco di tempo a editare le mie foto, non solo a fotografare, e scrivere è un modo per distillare le proprie esperienze. Per quanto riguarda lo “storico orale”, beh alcuni dei miei primi libri erano in effetti storie orali. Quindi credo sia per questo che sono considerato uno storico orale. Ma il vero significato è che intervisto le persone e lascio che raccontino le loro storie. Uno dei miei primi libri è stato Somoza's Last Stand, un libro sui diritti umani che raccoglie interviste con le vittime civili della ferocia dei contras, dei crimini di guerra commessi in Nicaragua dai controrivoluzionari supportati dagli Stati Uniti, che si nascondevano nei campi in Honduras, attraversavano la frontiera in Nicaragua per poi attaccare le popolazioni civili. Quella è davvero una storia di guerra, la storia di una popolazione civile vittima di una guerra dichiaratagli da una superpotenza.
Più tardi ho scritto un libro sulle madri degli scomparsi in Guatemala, avevo degli amici, rifugiati che dal Guatemala venivano in Canada, e uno di loro era un parente di Ninette De Garcia, una sorta di presidente del gruppo di mutuo sostegno, un'organizzazione delle madri degli scomparsi in Guatemala. Così sono andato a intervistare i familiari di contadini, sindacalisti, uomini di chiesa, studenti, familiari delle persone che erano scomparse per mano della dittatura militare del tempo, a partire dal 1954, quando la Cia rovesciò il governo democraticamente eletto di Jacobo Arbenz Guzman. Centinaia di migliaia di persone sono state assassinate in quel paese e circa quarantamila sono state fatte scomparire. Per me è stata un’opportunità di incontrare i familiari delle vittime e di far sentire le loro voci. Credo sia per questo che si può dire che sono uno “storico orale”, ma in realtà sono piuttosto un narratore. Infine, ho cominciato a lavorare in Salvador, fotografando e basta, e Salvador è ciò che veramente ha fatto di me un fotografo, perché in quegli anni sono entrato a far parte della Magnum, e la Magnum ha fatto di me un fotografo.
Cortona on the move ti ha dedicato la tua prima retrospettiva europea, The Larry Towell Show, spaziando dai tuoi lavori più intimi e personali sulla vita bucolica della tua famiglia e sulla comunità dei mennoniti ai tuoi reportage in diverse zone di conflitto come Afghanistan, Salvador, Palestina. Si può dire che la mostra rispecchi, in sostanza, il tuo libro retrospettivo The World From My Front Porch”, il mondo dalla mia veranda?
The World From My Front Porch è un libro sulla mia famiglia. Vivo in una fattoria di trenta ettari nell'Ontario sud-occidentale e sono un mezzadro. In realtà non faccio io la semina, è il mio vicino che la fa. Ma condividiamo il ricavato, non che ne sia rimasto molto. È dove sono cresciuto e dove vivo, ed è di questo che parla il libro. La parte iniziale del testo parla della storia di quella terra, di com'è nata la terra su cui vivo, di chi la possedeva all'inizio, cioè i nativi canadesi, e di com'è stata loro tolta. La seconda parte del libro tratta, nei testi e nelle foto, della guerra e di come la mancanza di una propria terra porti spesso alla nascita di conflitti, perché quando i popoli rimangono senza terra, che siano i palestinesi o che siano i lavoratori migranti mennoniti, si ribellano. In realtà non si può dire che i mennoniti si siano rivoltati, poiché sono un popolo pacifico. Ma, per esempio, la guerra in Salvador è partita da una rivolta di contadini per la terra e anche le rivoluzioni in Guatemala sono iniziate dalle rivolte dei contadini per le terre che erano state loro portate via dalle società americane come la United Fruit Company. La terra fa di noi ciò che siamo. Se perdi la tua terra, perdi la tua identità. Se perdi la tua identità, ti ribelli. Nella mostra a Cortona c'è una piccola sala con le foto della mia famiglia. Ma la maggior parte delle foto nelle altre stanze racconta conflitti. In un certo senso, si può dire che ci sia un rapporto tra il libro e la mostra. In realtà, la mostra ha meno a che fare con il linguaggio e di più con le fotografie e solo in piccola parte con la mia famiglia.
La tua prospettiva è stata spesso definita intima, sei d'accordo?
Mi piacerebbe essere d’accordo con questa definizione, è lusinghiera. Io spero che sia intima. Credo che la fotografia possa essere un linguaggio intimo oppure molto calcolato e freddo. Quando lavoro a qualcosa, provo a farlo su progetti a lungo termine. Il mio lavoro sui mennoniti è durato dieci anni, quello su Salvador più o meno lo stesso, per i due libri sulla Palestina ci sono voluti quasi tredici anni. Quindi, alla fine, per forza di cose si acquisisce l'intimità, e spero sia qualcosa che emerge. Io non fotografo le notizie di attualità. Spesso fotografo i luoghi dove gli accadimenti ripresi nelle news si svolgono o erano in atto. Ma tendo a non lavorare molto con i media mainstream. Sono attratto dai luoghi dove avvengono gli eventi più importanti, ma cerco di renderli intimi perché è quello in cui credo.
Vicino e lontano. Qual è il tuo rapporto con i luoghi, il viaggio, la tua casa? Una volta hai detto: «quando non viaggio, giro la macchina fotografica verso l'interno».
Quello che intendo è semplice: quel libro, The World Form My Front Porch, parla della mia famiglia. È tutto qui ciò che intendo: giro la macchina fotografica non verso me stesso, ma su ciò che mi circonda nel mio privato. Non amo viaggiare e non viaggio molto. Non mi piace, ma mi piace dedicarmi a cause e comunità che mi stanno a cuore. Così, quando viaggio, non vado in cerca dell'esotico, di qualcosa di diverso e di strano. Cerco qualcosa che già conosco, qualcosa in cui m'immedesimo.
Che ruolo ha per te la musica? A Cortona hai fatto un concerto grandioso, un mix di musica, fotografia e narrazione.
Sono cresciuto in una famiglia di musicisti. Avevamo una band di famiglia, ovviamente a quei tempi non guardavamo molta tv e non c’era internet, così passavamo il tempo suonando, mio padre faceva lo stesso da ragazzo. Suonavamo ai balli e ai matrimoni. All'inizio suonavo la batteria e poi ho ricevuto in regalo una chitarra, ho iniziato a suonarla e a scrivere canzoni, perché sono cresciuto con l’idea dello storytelling orale, dello storytelling rurale attraverso le canzoni. Ancora oggi faccio lo stesso, scrivo canzoni sulle cose di cui sono testimone, che vedo. La musica è un elemento importante per me. Scrivo canzoni da quando fotografo, probabilmente da prima. La musica è sempre stata parte del mio modo di essere e spero che continui a esserlo ancora a lungo. La mia performance a Cortona è stata un vero spettacolo multimediale, una proiezione di video, immagini e suoni. Quando viaggio, raccolgo anche registrazioni sul campo. Ho inserito nella colonna sonora della mia proiezione molti suoni e registrazioni sul campo da tutto il mondo. Quando preparo una sequenza di immagini scelgo alcune registrazioni sul campo, a casa ne ho un intero archivio. Le inserisco nella proiezione come colonna sonora e canto sopra questi suoni registrati sul campo, a volte parlo, ma per la maggior parte del tempo canto e suono uno strumento. E questi suoni - si tratti di colpi di pistola, pianti o urla, o semplicemente di qualcuno che parla - li uso come musica e cerco di cantarci sopra per raccontare una storia.
Puoi dirci qualcosa della tua predilezione per il bianco e nero? Secondo le tue parole, “è ancora la forma poetica della poesia”.
Mi considero ancora un fotografo del bianco e nero, anche se ora sto fotografando a colori, in colori digitali, come nei lavori sui cowboy e gli indiani. Ma, mentre fotografo a colori, cosa che non amo particolarmente, in realtà penso che potrei cominciare a fotografare in bianco e nero digitale e, allo stesso tempo, giro video, raccolgo suoni, scatto su pellicola e in digitale a colori. Quindi, al momento, sto mischiando tutte queste cose, ma preferisco sempre il bianco e nero. Credo che il bianco e nero sia più intimo, penso sia una forma più poetica perché c'è più spazio in cui il fotografo può muoversi, c’è più spazio per l'intuizione e la suggestione. Perché in una foto a colori è già tutto lì, mentre nel bianco e nero ciò che manca è il colore. E lo spazio che il colore normalmente occupa lo puoi usare per altre cose, le emozioni per esempio. Il colore è sicuramente bello, ci sono alcuni grandi fotografi del colore. Io non lo sono. Il bianco e nero è il linguaggio che preferisco. Il problema, con il bianco e nero, è che giornalisticamente è molto più difficile da vendere.
Parliamo di due tuoi lavori in particolare, iniziando da quello sulla comunità dei mennoniti.
Ho cominciato a fotografare i mennoniti intorno al 1989, 1890, e ho continuato per dieci anni. Sono una setta religiosa nata dal movimento Anabattista attorno al XV secolo, all'epoca di Martin Lutero, eccetera. Il fondatore Menno Simons era un prete cattolico che, colpito dalle gesta dei martiri cristiani che morivano per la propria fede, a volte bruciati vivi, si convertì all'anabattismo e diede vita a una propria chiesa. Che, come nel caso di molte chiese riformate, prese il nome dal suo, da qui mennoniti. Furono perseguitati per circa duecento anni, fuggendo attraverso tutta l'Europa. Finirono in Polonia e di lì in Russia su invito di Caterina la Grande, per stabilirsi su quelle terre e colonizzarle. Così, crearono il cosiddetto “granaio della Russia”, l’attuale Ucraina. Erano dei gran coltivatori di terre. Con l'avvento della rivoluzione russa, dato che erano proprietari terrieri, furono perseguitati, uccisi, deportati in Siberia e molti di loro fuggirono in Canada, stabilendosi nella parte occidentale del paese. Dopo la Seconda Guerra mondiale c'era ovviamente un forte sentimento anti-germanico, i canadesi non si fidavano di loro, e provarono a costringerli a imparare l'inglese e a mandare i loro figli nelle scuole inglesi, ma i mennoniti rifiutarono. Il loro movimento si basa su una rigida forma di pacifismo, la separazione tra stato e chiesa e il battesimo dei credenti. Emigrarono in Messico, poi negli anni Settanta e Ottanta cominciarono a tornare in Canada come a causa della terribile crisi economica messicana. Così, ho iniziato a incontrarli nel mio giardino, nel mio quartiere, nella mia comunità, nei campi, e sono diventato amico delle loro famiglie, tanto che alla fine hanno iniziato a invitarmi ad andare in Messico, nei loro insediamenti, ed è così che è cominciata la storia.
E, poi, la tua Palestina. Hai realizzato due libri e un film dai tuoi molti viaggi nella Terra Santa.
Stavo ancora lavorando in Salvador e avevo cominciato il mio lavoro sui mennoniti quando, nel 1993, a Oslo fu firmato quello che doveva essere un trattato di pace tra Israele e Palestina. Così sono partito immediatamente per la Palestina perché volevo documentare la nascita di una nuova nazione, cosa che credevo stesse per avvenire. Ma, ovviamente, è successo l’esatto contrario. La situazione è peggiorata, l’occupazione è diventata più dura, più radicata, gli insediamenti israeliani nelle terre palestinesi sempre più estesi, alimentando tensioni e violenze sempre maggiori. Perché appena c’era un insediamento arrivava l’esercito israeliano, si estendeva l’occupazione, in un ciclo di violenze senza fine. Si tratta probabilmente della più lunga occupazione permanente della storia, e una delle guerre più difficili a cui porre fine, soprattutto a causa dell’appoggio degli Stati Uniti. È una situazione molto triste per entrambe le parti.
Per finire, hai tenuto un workshop a Cortona. Cos’è che, in particolare, provi a trasmettere ai tuoi studenti?
Quando tengo un workshop cerco di capire chi ho davanti e di rispondere a quel tipo di persona. Mostro i miei progetti, loro condividono i loro. E poi, dipende da come la cosa è organizzata, a volte si scatta per mezza giornata e poi si controlla il lavoro più tardi. Con il digitale è piuttosto facile. Ai tempi della pellicola era più difficile, ma lo si faceva comunque. Scattavamo tutto il giorno e sviluppavamo tutta la notte, per poi guardare il lavoro la mattina dopo, un processo piuttosto elaborato. È tutto qui, non ho altro da condividere che le mie storie. Guardo i lavori e dò il mio feedback. Cerco di aiutare le persone meglio che posso, cercando di capire cosa è meglio per loro. Si deve capire chi sono le persone e cercare di lavorare su quello. Ognuno è diverso e questa è la sfida. La fotografia non è qualcosa che si può imparare a scuola, bisogna impararla sul campo, così cerco di capire chi ho di fronte e di dare i giusti suggerimenti, questo è tutto.
Figlio di un meccanico, Larry Towell è cresciuto in una famiglia numerosa di una zona rurale dell’Ontario. Ha viaggiato in tutto il mondo documentando le battaglie delle vittime dell’espropriazione, dai campesinos salvadoregni ai palestinesi, dalle migrazioni dei contadini mennoniti ai desaparecidos in Guatemala.
Le sue evocative fotografie di famiglia catturano i ricordi e i momenti chiave della vita quotidiana nelle campagne dell’Ontario. Il suo libro più recente, Afghanistan, è stato pubblicato da Aperture nel 2014 ed è stato nominato uno dei dieci migliori photobook dell'anno da The New Yorker e Time Magazine.
Larry conta all’attivo quattordici libri e numerosi importanti premi internazionali, tra i quali il primo Henri Cartier-Bresson Award.
www.larrytowell.com
pro.magnumphotos.com