Tecnica


Recettore oculare e macchina fotografica: modi diversi di "vedere"

Roberto Dicursi



Innumerevoli saranno state le volte in cui ci si è chiesto, almeno tra i normo-curiosi, quali fossero le analogie tra occhio (che da adesso in poi chiameremo "recettore oculare") e l'obiettivo di una macchina fotografica (qualsiasi tipo/tecnologia essa rappresenti). È più corretto chiedersi quali siano le differenze tra i due sistemi, piuttosto che indagare le analogie, infatti risulterebbe alquanto ozioso chiedersi se il recettore oculare sia migliore o peggiore rispetto all'obiettivo di una "macchina fotografica" poiché i modi di "vedere" sono tanto diversi. Talvolta però accade che si può spiegare l'uno in termini dell'altro. Andreas Feininger afferma: «Sottolineare le somiglianze tra i due modi ha effetti deleteri nella formazione dei fotografi, poiché si impedisce di valutare le reali differenze tra i due sistemi, che determinano il fallimento estetico di gran parte del loro lavoro» (da L'occhio del fotografo). Cosa potremmo dire in merito? Il fotografo dovrebbe conoscere gli elementi di discriminazione delle differenze (non solo strutturali) tra il recettore oculare (primo strumento con lo scopo di captare i fotoni, tradurli in segnale bioelettrico) e l'obiettivo fotografico. Questi elementi sono: il sistema di appartenenza, il campo visivo, la percezione della profondità di campo, il rapporto di ingrandimento, la messa a fuoco, la gestione delle variazioni di luminosità, il bilanciamento del bianco, il bilanciamento del colore, la sensibilità alla luce.



 


 

Il primo elemento è il sistema di appartenenza. L'obiettivo fotografico è senza dubbio parte di un sistema meccanico complesso detto macchina fotografica: esso riproduce la realtà fisica (campo visivo fotografico). Al contrario il recettore oculare, facente parte di un sistema complesso definito essere umano vivente e pensante ed essendo sotto il controllo del cervello, percepisce coscientemente solo gli aspetti della realtà visiva fisica cui l'essere umano vivente e pensante è interessato in quel preciso momento. Potremmo dunque definire la visione fotografica come oggettiva e totale, quella umana come soggettiva e selettiva. Tale differenza spiega il paradosso per cui le macchine fotografiche non mentono mai, ma spesso le fotografie risultano sciape e deludenti nonostante rappresentino quella porzione di realtà fisica tanto compiaciuta dal fotografo. Sulla base di questa prima considerazione, ricordo che è da tenere presente e da osservare ogni oggetto che compare nel campo visivo dell'oculare della vostra macchina poiché il dettaglio su cui il fotografo non ha prestato attenzione potrebbe rappresentare l'elemento che disturba e rende brutta una fotografia (oppure il contrario). Sulla base di quanto scritto poco sopra, farei una considerazione. Gli in-put visivi rappresentano una parte degli stimoli sensoriali che, trasformati in segnali bioelettrici, continuamente arrivano alla cortex. Questi, giunti nei centri superiori di elaborazione, saranno trasformate in immagini concettuali, nonché l'idea che abbiamo di un dato oggetto (effetto combinato delle sensazioni facente capo ai cinque organi di senso). Ebbene, qualora volessimo catturare l'immagine di un oggetto di cui noi abbiamo impressa un'immagine concettuale, di tutto ciò che noi vorremmo catturare, cristallizziamo solo ed esclusivamente l’input visivo (la sensazione visiva). Non vi sarà da meravigliarsi se tante fotografie esprimono così poco: si tratta in effetti di una frazione piccola e insignificante di un tutto.



 


 

Il secondo elemento è il campo visivo di un obiettivo fotografico. Esso tende a riprodurre l'oggetto staccato dal contesto, diversamente da quanto accade nel processo visivo umano ove l’oggetto è immerso nel contesto di tutto quanto lo circonda in un senso più ampio: l'oggetto fotografico non ha contorni precisi ma è immerso in un contesto spaziale garantito dalle informazioni che giungono grazie al campo visivo periferico. Pertanto, il rischio è rendere noiosi e inespressivi oggetti fotografici che nella realtà sarebbero attraenti. Per evitare ciò, il fotografo deve valutare l'oggetto sulla base delle sole caratteristiche specifiche. Il terzo elemento è la percezione della profondità di campo. Il sistema visivo umano consta di due recettori oculari che permettono una visione stereoscopica (diremo tridimensionale) la quale dipende da elementi monoculari della valutazione della profondità di fuoco e da elementi di valutazione binoculari. L'obiettivo fotografico permette invece una visione piatta e senza profondità poiché monoscopica. Sarà possibile inserire elementi simbolici (indici pittorici) che richiamino il senso della profondità di campo: luci e ombre, prospettiva lineare, prospettiva cromatica, prospettiva dimensionale, gradiente di densità, il significato, l'interposizione.



 


 

Il quarto elemento è il rapporto di ingrandimento. Esso è costante nel recettore oculare, mentre con un obiettivo di un'opportuna lunghezza focale è possibile riprodurre ogni oggetto (o quasi) in qualsiasi rapporto di ingrandimento (o quasi): è possibile annullare il rimpicciolimento dovuto alla distanza e registrare oggetti troppo lontani per essere scorti chiaramente. Il quinto elemento è la messa a fuoco. La presenza del sistema accomodativo permette al recettore oculare di vedere tutti gli oggetti sui quali spostiamo la nostra attenzione nitidi grazie alla velocità di variazione anatomica e fisiologica della messa a fuoco. Un obiettivo, al contrario, può mettere a fuoco solo su un piano posto a distanza precisa, mentre gli altri oggetti nel campo situati prima o dopo il piano di messa a fuoco risultano lievemente o marcatamente sfocati a seconda della posizione e della distanza. Tale difficoltà però può essere superata con l'uso pensato del diaframma. Il sesto elemento è la variazione di luminosità. Il recettore oculare umano quando osserva una scena ha un adattamento automatico alle variazioni di luminosità, anche le più repentine: il processo è reso possibile dalle variazioni del diametro dell'iride (diaframma del recettore oculare e che vediamo colorato). Diversamente il diametro dell'apertura di un obiettivo resta costante per tutta la durata dell'esposizione facendo sì che una fotografia possa risultare simultaneamente sovraesposta o sottoesposta. È possibile evitare questo se il fotografo sa vedere fotograficamente e riconosce l'errore in tempo. Non di rado accade che un fotografo esperto decida di non scattare poiché riconosce che la situazione non gode dell'illuminazione desiderata.



 


 

Il settimo elemento è il bilanciamento del bianco e del colore. La percezione dei colori e della luminosità è differente da persona a persona ed è un prodotto di elaborazione corticale che dipende dalle esperienze percettive passate e in base a queste riconosce, seppur in condizione di luce disparate, il reale colore di un dato oggetto. Si pensi a un foglio bianco percepito come bianco sia che esso sia sotto una lampada bianca sia che esso sia sotto una lampada a luce monocromatica rossa. Nel caso di una macchina fotografica, questo non accade: il sensore non è in grado di bilanciare il bianco. Si pensi a una foto scattata in una casa illuminata da lampadine al tungsteno: il colore dell’immagine tenderà a un giallo. Per risolvere il problema, le macchine fotografiche possono essere impostate manualmente affinché avvenga il bilanciamento del bianco tale da correggere i colori. Quest’ultimo può consistere nell'impostazione manuale relativa alle situazioni standard (nuvoloso, tungsteno, flash…) oppure per mezzo di un oggetto bersaglio di colore bianco/grigio (non si fa altro che suggerire al sensore che l'oggetto che stiamo fotografando è bianco e che tale correzione deve essere estesa a tutti gli oggetti attorno). Potrei aggiungere quanto segue: la correzione che il sensore fotografico sarà in grado di effettuare avviene nel numero di una volta per scatto, mentre le aree corticali visive sono in grado di effettuare diversi bilanciamenti del bianco contemporaneamente. L'ottavo elemento è la sensibilità alla luce (ISO). Per una macchina fotografica i valori sono già noti. Per un occhio, invece, non si ha un livello definibile del valore ISO. I nostri occhi sono in grado di regolare in maniera naturale i livelli di luce anche in condizioni di luminosità critiche. Si pensi che in condizioni notturne si raggiunge una sensibilità seicento volte maggiore che di giorno (dynamic range elevato). È insignificante parlare di rumore quando si parla di immagini recepita dal recettore oculare umano poiché la corteccia visiva completa e corregge i problemi che derivano dalle limitazioni fisiologiche dei recettori oculari durante il processo visivo. Dal punto di vista numerico, se ipotizziamo pari 25 ISO il valore minimo di sensibilità del recettore oculare, il valore massimo sarà pari a 15000 ISO (25 ISO x 600).



 


 

Dopo gli otto maggiori elementi di discriminazione, esisterà qualche valida analogia? La più importante è l'ampiezza dell'angolo di campo. Il recettore oculare ha una lunghezza focale di 17 mm e la retina ha una superficie di oltre 1500 mm2. Ebbene, la retina presenta evidenti analogie con i sensori fotografici. In essa, sia anatomicamente che fisiologicamente, si distinguono aree diverse con precise caratterizzazioni: la fovea, la macula, il polo posteriore, la media periferia. La regione centrale (macula) è la sede dei recettori (coni) che hanno il compito di inviare alla corteccia segnali bio-elettrici che permettono la percezione dei dettagli e dei colori. Il centro della macula, la fovea, è la regione retinica che consente alla corteccia di elaborare i dettagli fini degli oggetti. Esternamente alla macula, si assiste invece al progressivo diradamento dei coni sino alla loro scomparsa e a un aumento della densità dei bastoncelli (recettori monocromatici, raggruppati in aree più estese verso la periferia). A partire dal polo posteriore, procedendo verso la periferia retinica, la percezione dello stimolo luminoso diviene meno definita e più grossolana.



 


 

Dal punto di vista fotografico, la retina funziona come un sensore. Le diverse regioni retiniche coprono una determinata porzione del campo visivo la cui ampiezza angolare è riproducibile con determinate lunghezze focali di alcuni obiettivi. L'angolo di campo coperto dalla focale di 35 mm è pari a 60° e corrisponde a quello del polo posteriore retinico: si tratta probabilmente dell'immagine più vicina alla percezione visiva umana. La lunghezza focale di 50 mm corrisponde invece a un angolo di campo pari a 45° paragonabile alla visione "allargata" dell'area maculare; il 50 mm è considerato “normale” poiché ha una resa prospettica analoga a quella del recettore oculare. Provate! Ci si ponga di fronte ad uno specchio e si guardi attraverso l'oculare della macchina fotografica - equipaggiata per l'occasione con un 50 mm - tenendo l'altro occhio aperto: ci si accorgerà, dopo un breve adattamento, che le due immagini verranno fuse alla perfezione (come se provenissero dai due recettori oculari). Se adoperiamo un obiettivo con focale di valore compreso tra 80-100 mm si ha un angolo di campo pari a 25°-30° che equivale alla zona maculare della retina: un ritratto scattato con un 100 mm per esempio mima alla perfezione la situazione in cui l'attenzione è volta a guardare i dettagli di un qualsiasi oggetto. Un obiettivo di 200 mm ripropone l'angolo di campo della fovea, la quale è usata nelle attività di fino. E per le altre focali? Se pensiamo per esempio a un obiettivo grandangolare, possiamo sentire la sensazione di sentirci immersi. La distorsione e la caduta di luce, così come la perdita di definizione ai bordi tendono a richiamare la visione periferica umana.



 


Fotoleggendo, Officine Fotografiche © Andrea Petrosino


 

Dunque, potremmo concludere affermando quanto segue: per vedere fotograficamente occorre mettere da parte tutti i sensi tranne la vista perché nel momento dello scatto (circa 100 ms) l'unico input sensoriale che subisce il processo di cristallizzazione è quello visivo. Se conosciamo le differenze tra i due sistemi e tra i due modi di vedere, possiamo cambiare il nostro approccio allo scatto e possiamo scattare solo quando siamo convinti che gli aspetti visivi della realtà fisica che vogliamo cristallizzare sono sufficienti a rifletterne l'essenza, evitando risultati deludenti.



 

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