Una delle prerogative del fotografo reportagista, ma un po’ di tutta la fotografia in genere, è il saper portare avanti una visione uniforme e coerente del proprio percorso espressivo. In qualche modo, nel susseguirsi della narrazione fotografica, si deve percepire l’occhio di colui che ha scattato. Diciamo uno stile personale. Quantomeno questo dovrebbe essere alla base di un bravo fotografo. Tuttavia, non è facile riuscire dallo scatto a dare il nome a colui che ha scattato. In giro ci sono molte copie e pochi originali.
Sicuramente è importante il taglio che diamo all’immagine. Spesso è proprio da come circoscriviamo il momento che nascono o si enfatizzano delle emozioni o delle situazioni. Oggi è anche importante e per certi aspetti “identificante” un buon uso della post-produzione.
Quando si scattava in pellicola – magari c’è qualcuno che la utilizza ancora e in tutta onestà devo dire che qualche bianco e nero me lo faccio anche io – si poteva decidere, a partire dal tipo di negativo o dalla marca del rotolino, di enfatizzare alcuni aspetti legati, per esempio, alla cromia.
Si poteva sperimentare utilizzando dei processi di sviluppo “tirati”. Si potevano accentuare i contrasti o la grana, utilizzando pellicole ad alta sensibilità, sovrasviluppando o utilizzando bagni diversi. Insomma anche con le pellicole esisteva una sorta di “post-produzione”. La stessa cosa si può fare oggi con l’immagine digitale.
Ovviamente dobbiamo stare attenti a non estremizzare i processi: il rischio di cadere nel troppo artificiale è alto. Ritengo che una buona post-produzione sia importante senza esagerazioni eccessive. Naturalmente ci deve essere lo scatto, ma questo può essere sicuramente migliorato e personalizzato da un discreto uso dei software di elaborazione dell’immagine. La fotografia di reportage, per esempio, sociale e di guerra, punta tanto sul bianco e nero, che a detta di molti, tipo il fotografo iraniano Abbas, trascende, va all’essenza delle cose.
Certo, devi cambiare la tua visione del mondo, devi iniziare a tradurre ciò che osservi in toni di grigio. Sempre Abbas afferma: «Quando non devi lavorare con i colori della realtà, lavori davvero con altre cose». Ovviamente lo stato mentale con cui ti avvicini a un matrimonio è sicuramente diverso da quello che vivi durante un reportage di guerra, però credo che la scelta tra bianco e nero e colore dovrebbe essere guidata dalla stessa filosofia. In genere noto che le situazioni che “raccontano” hanno un impatto in chi le osserva più forte se non si fa uso del colore.
Ma questa è una considerazione puramente personale.
Il colore è sicuramente dominante nel matrimonio vuoi perché spesso il committente ne rimane più affascinato e vuoi perché culturalmente meglio si associa a momenti di allegria e divertimento.
Direi quindi che il buon mix di colore e bianco e nero può essere un corretto filo narrativo dell’evento. Si potrebbero, come dicevo prima, accentuare alcuni aspetti della elaborazione digitale, ma senza esagerare. E comunque, se si decide di portare avanti una linea di post più “personale” è importante mantenerla per tutto il lavoro. Alla fine il servizio deve rispecchiare anche una certa eleganza di presentazione e vedere un’accozzaglia di stili e di lavorazioni rende pesante e poco gradevole il tutto.