“Svegliandosi pensò al suo nome. Provò a ripeterlo più volte fino a quando gli parve estraneo. Fece una pausa e lo pronunciò a voce alta. Ermetico, gli apparteneva.
Uscendo di casa ebbe paura del freddo, provò compassione per un cane, vide gli occhi di un uomo che aspettava la morte e divenne triste. Poi si innamorò di una donna mai vista prima e subito dopo la odiò perché non corrispose il suo amore.Non ebbe fretta di bere un caffè, ma fermò lo sguardo su quella macchia marrone, tonda, fumante e pensò all’uomo che diede un nome alle emozioni. Non si può classificare un’emozione. Non è il chiamarlo amore che renderà l’amore uguale per tutti. Non è la parola dolore che rende il dolore più sopportabile. È forse la libertà solamente un insieme di lettere che rende affine il mio e il tuo modo di ricercarla?
In quel momento la sua anima si sentì soffocare. Uscì dal corpo vestendosi d’aria e si voltò. Ripeté più volte il suo nome. Solo un nome, una parola, lettere. Poi volse lo sguardo a me e iniziò una dissennata corsa attraverso la gente, le strade, senza schivare nulla. A pochi passi decise di concedersi, e con un solo gesto perforò l’obiettivo”.
Da qui parte la mia ricerca, da un uomo qualunque che, in un giorno qualunque, decide di far parte della mia vita attraverso la macchina fotografica. I pensieri sono il preludio di una giornata, della routine e a volte le metropolitane sono il tunnel che simboleggia il passaggio dall’introspezione alla vita di tutti i giorni. Il fascino di quei percorsi obbligati che ci vedono intrappolati come topi che cercano di uscire dal labirinto, difficilmente mi lascia indifferente.
Frenesia, corse disperate, odori metallici, clochard, rumori e vociare di gente sconosciuta. È quello che tutti immaginiamo quando si parla di metropolitane. Persone che si spostano da una parte all’altra della città, senza fermarsi, per raggiungere un qualcosa che sembra aver fretta e poca voglia di aspettare. Underground, subway, métro: in qualsiasi città e con qualunque nome, le metropolitane sembrano tutte sorelle. All’interno di quei labirinti, di quei vagoni, nessuno interagisce assumendo mute espressioni, come automi che si incrociano ignorando di far parte della stessa specie.
Basta fermarsi un attimo per rendersi conto che, lì sotto, siamo noi a lasciarci trasportare, diventando minuscole sagome trascinate da vertiginose scale mobili o sfiorate dalla scia di un treno. La nostra voce si disperde e viene inghiottita dagli stessi suoni che rimbalzano sulle pareti. Le nostre capacità motorie vengono ridestate soltanto dalla curiosità che ci spinge a guardare la merce in transito al di là di un vetro.
Diventiamo schiavi di macchinosi gesti mentre tutto, fuori, scorre e cambia scena. Una volta usciti, dimentichiamo i volti che abbiamo incrociato e quei sotterranei divengono interminabili punti di fuga di altre persone.