Siberia, terra addormentata

A cura di: Michele Dalla Palma

di Michele Dalla Palma

Bianco. È lo scenario che inseguo da giorni, scandito dal ritmo monotono, interminabile, ossessivo della rotaia. L'infinito siberiano perde i contorni reali e diventa illusione ottica, segnata idealmente da una sottile linea d'acciaio. Unica e invisibile traccia umana nella massa candida dell'inverno.
Un'avventura del pensiero, questo viaggio oltre i confini del mondo che pensiamo di poter controllare e governare, prima ancora di diventare realtà quotidiana da affrontare senza domande, col senso animale dell'improvvisazione e dell'adattamento. Un'avventura immaginata, fantasticata fin dall'infanzia, strabiliato dalla lettura del capitano Strogoff, spia dello zar in terra mongola, di cui adesso sto cercando le tracce immaginarie frugando con gli occhi la linea di betulle scheletrite che incrina l'orizzonte di neve.
Siberia è il sibilo di un serpente. Suono che fischia nelle orecchie, tagliente, secco. Racconta, senza inutili aggettivi, un mondo che non ci appartiene.

In questo insolito Capodanno lontano dalle banalità di botti, schioppetti, alcool, spumanti e “trenini” dozzinali per esorcizzare almeno un attimo dell'ansia che opprime la nostra quotidianità, quel sogno, immenso, gelido e rapace, è la realtà che mi scivola addosso superando il tepore innaturale della carrozza 7 del “Rossiya”, monumento all'audacia dell'uomo che da Mosca, percorrendo i 9289 chilometri e sette fusi orari della Transiberiana, mi sta portando attraverso tutta l'Asia fino a Vladivostok, avamposto della decaduta potenza sovietica sull'Oceano Pacifico. Da lì, tra qualche giorno, inizierà un'altra avventura, ma adesso occhi e pensieri sono saturi dell'infinito siberiano e dell'idea di un treno che corre nel nulla.

La ferrovia più lunga del mondo
Mito e leggenda per generazioni di viaggiatori, la Transiberiana è una delle meraviglie del mondo moderno.
"Bisogna farla, ora!"
Con quest'ordine Alessandro III diede il via, nel 1886, alla più estesa opera di ingegneria sulla superficie terrestre. L'ostacolo più grande allo sfruttamento di questi territori immensi, e soprattutto per un collegamento tra gli avamposti orientali dell'Impero zarista, erano le distanze quasi infinite, che a metà del 1800 obbligavano a un'odissea che durava quasi un anno, attraverso regioni in gran parte sconosciute e totalmente prive di strade, chiunque volesse raggiungere, da Mosca e dalle campagne della Russia Bianca, l'estremo oriente russo.

Lo Zar visionario immagina una linea ferrata che da Chelyabinsk - nel 1886 la stazione ferroviaria più orientale della Russia - raggiunga Vladivostok dopo oltre 7.500 chilometri di foreste sconfinate, pianure deserte, montagne impervie, fiumi tumultuosi. Un viaggio che percorre un terzo del globo terrestre su territori sconosciuti e disabitati, apparentemente impossibili da raggiungere.
Ancora oggi, come cento anni fa, la Transiberiana è la ferrovia più lunga della Terra e attraversa 14 regioni, tre catene montuose, due repubbliche autonome, sedici grandi fiumi.
Tutta la colonizzazione e lo sviluppo della Siberia avverrà lungo l'esile linea della ferrovia, per oltre un secolo unico cordone ombelicale, via terra (la strada che collega Mosca a Vladivostok è stata completata solo nel 2004), tra est e ovest dello sterminato universo russo.
Le principali città della Siberia - Perm, Ekaterinburg, Tyumen, Omsk, Novosibirsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Ulan Ude, Chita, Belogorsk, Khabarovsk - e un'infinità di villaggi grandi o microscopici, si trovano lungo i binari della Transiberiana.

Vladivostok, la città proibita
Infinitamente lontana, infinitamente diversa da paesi e città che per giorni sono sfilati nello sguardo lungo la taiga siberiana. Annunciata da tre enormi ciminiere che offendono il cielo con sbuffi di fumo acido e scuro, e dominano l'orizzonte da qualsiasi parte si volga lo sguardo, osservo questa sorta di piccola San Francisco, adagiata tra le colline che ingombrano disordinate le baie marine dell'Ussuri e dell'Amur.
"Corno d'Oro" è il nome della frastagliata insenatura che accarezza l'ultima città dell'estremo oriente russo dove, fino a pochi anni fa, i letali sottomarini nucleari si illudevano di proteggere l'impero stalinista dall'assalto della modernità.

Ricercata similitudine con il golfo di Istambul, confine tra due mondi, Europa e Asia, divisi da uno stretto braccio di mare ma lontani nel tempo e nei pensieri.
E anche qui, questa città affacciata sulle contraddittorie modernità di Giappone, Corea del Sud e Cina è nella realtà irrimediabilmente separata da questi mondi e guarda disperata verso ovest, a un'Europa probabilmente irraggiungibile.
Gli ampi viali tra il porto e la stazione ferroviaria brulicano di moderni, mastodontici fuoristrada giapponesi, nuovo status simbol di uomini che vogliono fuggire dall'anonimato di settant'anni di dittatura, e fanno da contrasto a vecchi e rugginosi tram sovietici che arrancano su rotaie sghimbesce e traballanti.
Guardandola senza preconcetti, Vladivostok non ha nulla di diverso da qualsiasi altra moderna città del mondo. Interpreta da attrice consumata il ruolo di avamposto occidentale nel cuore dell'Estremo Oriente.
Ma è solo apparenza.
L'anima di questo microuniverso lontano da tutto è congelata, come la solida lastra di acciaio liquido che imprigiona le navi nella baia. Fino a poco più di dieci anni fa, questa era una città proibita. A tutti, anche agli stessi russi che non risiedevano stabilmente dentro i confini di questo grande "campo di prigionia" per innocenti con la sventura di essere nati a Vladivostok.
Solo dal 1992, con il crollo repentino e devastante dell'utopia sovietica, paragonabile alla virulenza distruttiva delle orde di Gengis Khan, Vladivostok è tornata a vivere una quotidianità fatta delle nostre stesse illusioni. E non tutti, qui, l'hanno vissuto come un evento positivo.

Un natale lontano
Nella fredda notte dell'Estremo Oriente affacciato sull'oceano, uomini e donne avvolti in voluminosi cappotti e copricapi di pelo, si arrampicano risalendo la salita ghiacciata verso l'edificio sulla sommità di un dosso che domina il centro della città, immerso in una penombra rischiarata a tratti dalle fioche luci degli addobbi del natale. Senza rumori né fretta, vecchie signore col capo coperto si rifugiano nel tiepido tepore della chiesa. Una, dieci, cento candele si illuminano accese da mani sconosciute di donne e bambini, rischiarando di sfumature calde l'abside impreziosita dagli ori dell'altare, e prima dell'inizio della celebrazione un'unica massa umana riempie la chiesa.
Nell'atmosfera raccolta del rito ortodosso, la cerimonia della vestizione del pope assume un aspetto quasi familiare; l'anziano patriarca, circondato da una folla di fedeli, indossa, uno dopo l'altro, i simboli sacri dell'officiante. Mescolato tra la gente, e non separato da invisibili barriere, si propone quasi come uno di loro. Non ci sono muri, scalinate, barriere o distanze, reali o immaginate, e tutti, il pope, la sua corte e i fedeli, vivono lo stesso attimo insieme, confusi nella stessa aria pregna di incenso e canti.

L'utopia di Birobidzhan
A un paio di mille chilometri da Vladivostok esiste un territorio, addossato al confine cinese, che fino a qualche decennio fa era uno dei luoghi più inospitali di tutta la Siberia, un'immensa palude infestata da malaria e fame; ma proprio qui si realizzò per la prima volta, quasi vent'anni prima della nascita di Israele, il sogno di uno stato ebraico.
Nel 1928, deciso a liberarsi degli ebrei, Stalin li invitò a colonizzare questo territorio desertico e malsano, freddissimo d'inverno e paludoso d'estate, promettendo a questo popolo l'autonomia alla quale aveva sempre aspirato. In realtà il dittatore pensava che le condizioni ambientali di quella regione, con la complicità di fame e malattie, avrebbero cancellato in modo radicale il problema degli ebrei russi, senza intaccare la sua credibilità nei rapporti internazionali; molti, infatti, già lo sospettavano di essere un despota sanguinario. Stalin però aveva sottovalutato gli ebrei.

In dieci anni, dal 1928 al '38, oltre 40.000 persone - provenienti anche dagli Stati Uniti, dal Canada, dal Brasile - si insediarono nella "Terra Promessa", che nel frattempo dal 1934 era stata proclamata "Regione Autonoma Ebraica". Riuscirono a trasformare le paludi in campi fertili, costruirono le città e l'utopia di uno stato. A ridosso della seconda guerra mondiale, molti, scoraggiati dal clima avverso o arrestati dal regime, abbandonarono il loro sogno di avere una patria, ma la regione autonoma ebraica è sopravvissuta fino ai giorni nostri e oggi rappresenta la volontà di un popolo di avere un posto dove stare. Dai primi anni '90 la tendenza si è invertita, e la comunità sta nuovamente aumentando.

"Sono arrivato qui che avevo nove anni,a metà degli anni '30 - mi racconta Lev Toytman, l'anziano "governatore" della regione autonoma ebrea nel cuore della Siberia - e mio padre era già stato ucciso da Stalin.
Mi ricordo questo posto come un inferno, invivibile per il fango e le zanzare. Nelle paludi della taiga nessun posto sembrava abitabile, però le persone si davano da fare per costruire case e bonificare campi da coltivare.
Crescendo, mi sono sentito come un pioniere; il momento terribile della Seconda Guerra Mondiale è un ricordo lontano, ma ancora devastante. Oggi, per fortuna, riusciamo a vivere in pace con tutti e credo che siamo riusciti a costruire, nella realtà, il sogno che esiste nell'anima di ogni ebreo."

Buriatia, la patria di Gengis Khan
Altri giorni di chilometri infiniti verso occidente, e finalmente agli orizzonti senza confine delle foreste di betulla si sostituisce il palcoscenico del Baikal, “mare” d'acqua ghiacciata sulle cui rive si è sviluppata una delle più interessanti e bellicose civiltà umane: i Buriati, stirpe mongola che discende direttamente dall'Orda d'Oro di Gengis Khan.
Contano poco, per queste popolazioni nomadi, i confini stabiliti da uomini e governi che si trovano a migliaia di chilometri di distanza, a Mosca come a Pechino. Gli unici punti fermi, e intoccabili, del loro immenso territorio, le due capitali: Ulan Bator a sud, Ulan Ude a nord. In mezzo pianure dove l'orizzonte è segnato solo dai limiti della vista.
La Repubblica dei Buriati è uno dei pochi territori che hanno mantenuto la propria sovranità e indipendenza anche nell'epoca del terrore staliniano; neppure con la forza il "Piccolo Padre" riuscì ad aver ragione della determinazione dei guerrieri mongoli a mantenere le proprie tradizioni, e alla fine dovette concedere l'autonomia, caso unico in tutta l'Unione Sovietica.

I discendenti di Gengis Khan hanno mantenuto la loro lingua, che appartiene al ceppo turco, anche se quasi tutti capiscono e parlano anche il russo. Un'altra caratteristica che rende unica, in tutto lo scenario sovietico, questa popolazione, è l'essere riuscita a mantenere, anche sotto il regime staliniano, la propria religione. Sono in una terra buddista, lo vedo dagli chorten che da un po' si stagliano sulle colline, o a lato della strada.
Negli anni trenta, nella stagione antireligiosa del regime comunista, i monasteri della zona subirono danni e i monaci vennero perseguitati, ma la fede della popolazione non è mai venuta meno.

La città nascosta
Risalente alla seconda metà del Settecento, Ulan Ude era un importante punto di sosta per le carovane che trasportavano alla corte degli Zar il thè dalle remote regioni dell'Asia.
A causa delle imponenti installazioni militari sul confine mongolo, compreso un aeroporto che ancora oggi non compare sulle carte, anche questa città, come Vladivostok, e gran parte della regione, durante il periodo sovietico divennero un luogo proibito, interdetto a chiunque non vi risiedesse. Fino al 1987, nessun turista era arrivato fin qui, e ancora oggi sono molto rari i viaggiatori che visitano questa città.

Capodanno buddhista
La Buriazia che voglio scoprire è quella delle campagne e delle tradizioni rurali, e ancora una volta abbandono la confusione della città per imboccare piste di periferia, che mi portano tra villaggi dove il tempo sembra essersi fermato in un passato indefinito.
Per la fortuna che a volte accompagna i viaggiatori senza meta, vivo, insieme a compagni occasionali, uno dei momenti più emozionanti per il popolo buddhista: il Capodanno, che si celebra verso la fine del nostro mese di gennaio, ed è occasione di preghiera e festa. A centinaia sono arrivati, dalle campagne circostanti, fino al monastero di Atsagat, piccolo gioiello arrampicato sulla sommità di una collina che domina la steppa gelata, a un centinaio di chilometri da Ulan Ude.

Difficile raccontare le suggestioni e le fantasie che, nell'atmosfera raccolta e tiepida della grande sala di preghiera, si confondono con gli aromi dell'incenso e la luce dorata dei lumini ad olio. Volute di fumo profumato e i riverberi di mille fiammelle esaltano i colori accesi dell'arte buddhista, sottolineata dalle nenie vocali dei monaci e dalle sonorità profonde dei corni d'ottone, dei grandi tamburi, dei sonagli d'argento. Impossibile rimanere coscienti nella propria razionalità agnostica; lo spirito magico di questa religione è più forte di qualsiasi resistenza terrena.
E quando, nel buio della notte siberiana che segna quaranta gradi sottozero, sul piazzale del monastero ingioiellato di ghiaccio la folla si raccoglie davanti alla pira in cui bruciano tutti i dispiaceri e le avversità dell'anno appena finito, è facile intravedere nella danza delle fiamme dissolversi le durezze e le difficoltà di vite che devono confrontarsi tutti i giorni con una realtà estrema.

Diario da una terra senza sorriso
Quaranta giorni, tra dicembre 2005 e gennaio 2006, lungo le piste della Siberia nell'inverno più freddo a memoria d'uomo, mi hanno lasciato uno strano languore nei pensieri. L'utopia che esistano territori impermeabili alle nostre ambizioni di conquista e potere sulla Natura. Sorta di antidoto all'epidemia umana capace di sperperare le proprie ricchezze nell'illusione di possedere la capacità di manipolare la vita e il futuro. Può succedere con le terre facili, addomesticate. Non nelle infinite grandezze della Siberia, una terra senza sorriso.

Fotografare al gelo
Un test veramente "estremo", quello cui ho sottoposto le D200 e gli obiettivi che mi hanno accompagnato in questi 10.000 chilometri di Siberia. Spesso la temperatura esterna è scesa sotto i -50°, mentre all'interno delle piccole casupole di legno dei siberiani, la grande stufa centrale dove ardono senza interruzione grossi ceppi la temperatura è... tropicale!
L'ostacolo più importante da superare sono stati questi enormi sbalzi di temperatura, in grado di creare una inesorabile patina lattiginosa sui vetri degli obiettivi. L'unico modo per risolvere questo problema si è dimostrato quello di tenere sempre addosso, sotto la giacca di piumino, macchine e ottiche, senza mai cambiare gli obiettivi. Questo mi ha permesso di evitare, almeno in parte, l'appannamento. Nessuna reazione particolare, invece, al freddo, almeno per quanto riguarda il funzionamento delle parte meccaniche. Ovviamente, anche in questo caso la macchina rimaneva all'aperto soltanto per il tempo minimo necessario a scattare la fotografia, e poi rientrava al caldo del piumino!

Per questo reportage sono state utilizzati 2 corpi D200, e il mio "set da viaggio" di ottiche Nikon che comprende: 10,5 f 2.8 / 12-24 f 4 / 28-70 f 2.8 / 70-200 f 2.8, che con il Teleconverter TC-17EII mi permette di raggiungere, con la compensazione del formato digitale, un maxitele da 500 millimetri.


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